I giovani, il linguaggio e i percorsi della didattica

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Orientare la didattica verso “le quattro C: critica, comunicazione, collaborazione e creatività”

di Umberto Berardo

17 maggio 2024

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Le prove Invalsi, ma anche l’allarme di molti docenti e uno studio dell’Università Alma Mater di Bologna sottolineano le difficoltà crescenti dei giovani iscritti presso gli atenei non solo a esprimersi con chiarezza, ma anche a comprendere testi di una certa complessità.
Ciò significa che le loro competenze linguistiche non sono molto elevate e creano problemi non indifferenti nell’affrontare gli studi della facoltà scelta al punto che i nostri atenei perdono ancora il 7,3% degli iscritti.
Nulla è generalizzabile, ma molti giovani si esprimono in un registro linguistico più vicino al colloquiale che a quello colto o formale, con un periodare estremamente semplice e scarso uso delle subordinate, un lessico talora assai limitato e un uso approssimato della punteggiatura.
Anche la conoscenza di fonologia, morfologia, semantica e sintassi lascia molto a desiderare.
Si cerca la velocità comunicativa del multitasking e si usano le forme espressive della messaggistica dei social o di WhatsApp pensando che la rapidità possa essere anche la regola della ricerca nell’apprendimento attraverso slides, format, dispense, schede di sintesi o manuali riassuntivi.
I giovani scrivono molto ma in una forma schematica se non addirittura informale ed estremamente polverizzata; al contrario leggono poco e amano sempre meno la ricerca e la problematizzazione del sapere attraverso il confronto critico delle idee nello studio sui libri.
Fanno grande fatica a elaborare contenuti e a costruire concetti perché esiste in molti non solo carenza di strumenti linguistici, ma anche di un corposo retroterra culturale fatto dell’acquisizione di ciò che abitualmente definiamo il sapere.
Ciò avviene quando lo studio non si fonda su ricerche approfondite, analisi articolate e confronto di idee.
Nella rete internet lo slang è il loro sistema di comunicazione permeato di anglicismi, neologismi, emoticons, estremizzazioni del gergo o del parlato quotidiano, termini per così dire “accorciati” come “prof.” al posto di professore, abbreviazioni, enfasi, iperboli, impiego figurato di molti lessemi e un uso parecchio approssimato delle regole linguistiche talora volutamente rifiutate.
Forse non riusciamo più a fare a meno di termini come “postare”, “cliccare”, “twittare”, ma altri quali “googlare” (ricercare su Google) o “lovvare” (amare) sembrano davvero abusati.
Siamo a una sorta di desacralizzazione della scrittura che arriva a essere deformata in esperienze ludiche anche se non mancano gli aspetti positivi dei testi digitali che ci permettono di raggiungere tutti in modo veloce.
Il processo di stesura, rilettura e correzione del testo non appartiene più a chi scrive nelle app o sui social.
Dietro certi scritti nessuno credo possa negare che si nasconda l’incapacità di utilizzare la lingua in modo corretto e appropriato perché c’è carenza di acquisizione delle regole linguistiche di base.
Nella messagistica vocale, sempre più frequente nelle chat, nelle comunicazioni di posta elettronica o nelle videochiamate, prevale l’uso di un lessico colloquiale e di un registro dialogico e informale.
Il linguaggio dei giovani è sempre più contrassegnato dalla brevità e dalla velocità a danno della ricchezza contenutistica e di una forma articolata e argomentativa.
La fretta di comprimere e inviare in tempi rapidi messaggi su più social e contemporaneamente a molte persone rappresenta sicuramente un ostacolo enorme per la riflessione, la dissertazione e la chiarezza.
Non mancano linguisti e filologi che parlano di creatività espressiva dei giovani ed è sicuramente indiscutibile che, oltre ai giornali, anch’essa abbia arricchito sembra fin qui di circa quattromila termini nuovi, indispensabili e non sempre effimeri, il nostro lessico portando molti a riscoprire la forma scritta rispetto all’espressione orale; rimane tuttavia l’approssimazione inaccettabile con cui la lingua italiana viene utilizzata soprattutto nel sistema digitale.
Se non vogliamo essere dominati dagli algoritmi e al contrario controllare la tecnologia, dobbiamo imparare a valutarne anche la validità e l’efficacia del linguaggio.
La comunicazione non può essere solo un modo di apparire o di esibirsi in una sorta di deriva narcisistica come troppe volte accade nel web.
Il filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo saggio “Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete” prova a metterci in guardia dal linguaggio falsificatore del web o dei social network i quali, servendosi dei dati che immettiamo, con macchinosi algoritmi, immagini accattivanti e lessico appropriato guidano in noi desideri, sentimenti e scelte mentre noi blateriamo della libertà di internet e della nostra autodeterminazione.
Le idee degli internauti vengono in tal modo condizionate per indurre bisogni o indirizzarli.
Di tale sistema si serve non solo la pubblicità, ma anche la politica che, invece di offrire spunti di riflessione, utilizza strumenti di comunicazione per muovere il livello emozionale e cogliere così il consenso.
L’Intelligenza Artificiale può offrirci nuove potenzialità elaborative a condizione che il potere computazionale personale non venga coartato da quello centralizzato nel cloud.
Tutelarci da meccanismi rischiosi per la libertà e la democrazia è assolutamente necessario e le vie sono quelle della pluralità informativa e di una continua alimentazione della nostra criticità.
Ovviamente non si tratta di rinunciare a tali strumenti tecnologici, ma di analizzarne attentamente la struttura, i paradigmi e appunto il sistema di comunicazione.
Yuval Noah Harari nel suo saggio “21 lezioni per il XXI secolo” scrive che il compito dell’insegnamento non è dare tanto nozioni o dati, ma “strumenti critici per interpretare le informazioni, per distinguere ciò che è importante da ciò che è irrilevante e soprattutto per poter inquadrare tutte le informazioni in un più ampio scenario mondiale”; poi aggiunge che il compito della pedagogia dovrebbe essere quello di orientare la didattica verso “le quattro C: critica, comunicazione, collaborazione e creatività” orientando i giovani all’antico consiglio socratico del conoscere anzitutto se stessi per utilizzare le proprie competenze nel controllo anche della tecnologia impedendo di diventarne ostaggi.
Ciò sarà sicuramente di supporto per la comprensione della complessità del mondo reale e virtuale, ma anche per porsi in maniera più riflessiva davanti a un impoverimento linguistico con un forte ridimensionamento lessicale, scarsa articolazione, assenza di frasi subordinate sul piano logico e deduttivo e frequenti intercalari che segnalano proprio la difficoltà a esprimere il pensiero.
Il problema che dobbiamo risolvere è in che modo possiamo migliorare nei giovani la conoscenza e l’uso della lingua italiana ma anche la capacità di argomentare perché molti sono quelli che alla fine del percorso scolastico hanno difficoltà nella lettura, nella comprensione dei testi e nella chiarezza e correttezza espressiva.
I sistemi digitali hanno contribuito sicuramente a creare in parte il fenomeno, ma credo che anche il sistema dell’istruzione nell’articolazione dell’insegnamento della lingua italiana e nelle prove di verifica abbia le sue responsabilità.
D’altra parte cosa possiamo aspettarci se nei test d’ingresso nelle facoltà ancora a numero chiuso, negli esami universitari e negli stessi concorsi pubblici scegliamo talora il sistema dei quiz per verificare la preparazione dei candidati che ricorrono per le risposte unicamente a forme di memorizzazione attraverso manuali specifici appositamente messi in commercio?
Magari tali prove strutturate non saranno a risposta chiusa privilegiando una scelta tra quelle multiple, il completamento di una frase o la determinazione di una sequenza logica; in ogni caso una valutazione della formazione di una persona non può assolutamente limitarsi a sistemi di monitoraggio generici e non approfonditi.
Redistribuire meglio tra i vari ordini di scuola e potenziare l’insegnamento della lingua italiana dev’essere a mio avviso il primo passo.
Intanto per un lavoro didattico approfondito e personalizzato il numero degli alunni per classe non può essere troppo elevato.
Se superassimo poi almeno in parte la ripetitività metodologica e contenutistica nei vari ordini di scuola e ci occupassimo in maniera approfondita nella primaria di fonologia e morfologia, nella secondaria di primo grado di sintassi e semantica mentre nelle superiori di forme di comunicazione e di analisi dei diversi tipi di testo, sicuramente la qualità dell’insegnamento aumenterebbe notevolmente.
L’apprendimento della lingua italiana è ostico, ma, se viene condotto con criteri pedagogici e didattici adeguati, può sicuramente diventare interessante; oltretutto la conoscenza delle regole e dei meccanismi della comunicazione orale e scritta sono indispensabili per superare un elementare registro dialogico e giungere a quelli più ricchi e raffinati.
Ovviamente le esercitazioni alla lettura, all’espressione orale e alla scrittura devono essere curate con attenzione e diventare parte fondamentale dell’insegnamento delle tecniche linguistiche perché queste non restino solo un insieme di regole astratte.
Comprendere il linguaggio non significa solo saperne cogliere a livello minimale la struttura, ma il modo in cui viene generato e trasformato in relazione ai contesti.
Dare un metodo per leggere in modo approfondito testi di poesia, narrativa o saggistica e per scriverne di propri significa a mio avviso portare gli allievi verso progetti creativi di lettura e scrittura che soli possono condurre ad amare le tecniche linguistiche.
In un mio saggio ho sottolineato di recente come vi sia una correlazione profonda tra linguaggio, pensiero ed espressione; gli esseri umani infatti riescono a elaborare idee e concetti grazie alla ricchezza lessicale e a ordinarli attraverso le regole linguistiche.
Avere una lingua povera significa sicuramente, come sottolineava don Lorenzo Milani, muoversi in un orizzonte culturale molto limitato che limita fortemente la libertà personale.
Chomsky con le teorie della grammatica generativo-trasformazionale ci ha chiarito come sicuramente tutti abbiano una competenza linguistica, ma essa va poi trasformata in prestazioni espressive sempre più eccellenti passando da quella che egli chiama adeguatezza descrittiva per raggiungere poi l’altra, definita esplicativa, che ci permette la rappresentazione e l’ordine del mondo.
C’è chi suggerisce di rendere quadriennale il percorso della scuola secondaria superiore dedicando poi un anno per preparare gli allievi agli studi universitari.
Non concordo con tale proposta.
Penso piuttosto che, come in tanti Paesi del mondo, sia necessario articolare diversamente l’anno scolastico aumentando le ore d’insegnamento, dando prevalenza alla ricerca di tipo disciplinare e interdisciplinare ed eliminando attività inserite nella scuola da anni e che il più delle volte si riducono a momenti di evasione o di distrazione.
Ovviamente una tale riorganizzazione del sistema educativo richiede una diversa retribuzione del personale che ancora oggi è tra quelli che hanno un riconoscimento economico davvero umiliante.

di Umberto Berardo

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