I rintocchi della campana a Colli a Volturno

Visite: 143

Il paese non dimentica i suoi abitanti: custodisce e tramanda il ricordo

di Mirco Di Sandro ed Emidio Ranieri Tomeo (da nautilusrivista.it) 

05 Febbraio 2024

Back

Nel clima sereno e festivo dello scorso 1° di gennaio, la campana della Chiesa San Leonardo di Colli a Volturno (IS) ha dovuto rintoccare a morto per ben due volte. Non poteva esserci un inizio più malaugurato per un paese che ha chiuso il 2023 con più di venti decessi e solamente 7 nascite. Tra le dipartite, anche quella di un caro amico e compaesano, Massimo Lucariello, divorato da un cancro a soli sessant’anni, come succede spesso da queste parti. L’esperienza abitativa di Massimo, per il suo portato, il suo habitus, le sue modalità e il suo lascito emozionale, ci porta a riflettere sul ruolo e sulle funzioni della “memoria collettiva” nella dimensione del paese e - in ciò consiste la nostra argomentazione - come questa condizioni l’abitare e svolga una funzione essenziale di identificazione nel luogo.

Abitare, infatti, vuol dire anche farsi custodi della “memoria collettiva”. Conviene subito chiarire che maneggiamo un’espressione ambigua, come evidenzia lo storico Jay Winter nel suo Remembering War (2006), che rischia di essere pensata più come un prodotto o un oggetto che come un processo. Inoltre, la sua qualità “collettiva” allude alla condivisione da parte di tutti, mentre nella maggior parte dei casi appartiene solo a piccoli gruppi di persone. In questo senso, ci suggerisce Winter, faremmo meglio a parlare di “atto di ricordare” (remembering), piuttosto che di memoria collettiva.

Pare che in paese ogni abitante lasci le tracce del proprio passaggio: c’è chi costruisce e chi distrugge (altro modo per costruire e trasformare), chi semina e chi raccoglie, chi unisce e chi divide. Indipendentemente da quale sia il ruolo ricoperto, sembra che tutti siano essenziali alla costruzione di una microstoria locale e meritino di essere ricordati. La precarietà dell’esistenza dei paesi – falciata da spopolamento, abbandono, impoverimento culturale e sociale – trasformano lo sguardo e influenzano il pensiero di chi li abita. Si tratta di uno stato, quasi inconscio, di malinconica crisi esistenziale, causato dall’assistere ai continui decessi di amici e conoscenti, allo svuotamento e all’abbandono progressivo di luoghi a noi cari, alla proliferazione di deprimenti rovine. Tutto ciò finisce per rafforzare il legame degli abitanti col senso della storia e della memoria. Ricordare un nome, un aneddoto locale, un vocabolo dialettale, le vestigia di un luogo, sono imperativi per tenersi aggrappati a quei pezzi di paese che vanno svanendo.

Il paese nomina. È usanza comune in paese quella di chiamarsi per soprannomi, tanto quelli di tradizione familiare quanto quelli di matrice nuova. Si tratta di una pratica che favorisce un processo mnemonico e di identificazione – rispondendo implicitamente alla domanda “a chi appartieni?”. Capita spesso di ricordarsi di una persona solamente perché aveva un soprannome bizzarro (gəsèppə la pəllàstra, gino pesce, capəzzónə…). Massimo era conosciuto come “il romano”, perché cresciuto in quella città di cui conservava la cadenza e i tanti trascorsi. Il suo soprannome ribadiva un’appartenenza non del tutto realizzata, a rimarcare, seppur solo in apparenza, un’eterna condizione di outsider.
Appartenere, infatti, non è un atto scontato e immediato, che si realizza semplicemente con l’esserci. E non dipende solo dalla volontà del singolo. Si diventa abitanti, infatti, non quando si prende casa e si consuma il luogo, ma quando si è riconosciuti come membri della collettività, quando l’indigeno accetta, comprende e può controllare. È solo allora che la comunità si apre all’accoglienza, anche se conservando freddezza, distacco, diffidenza. Ormai assistiamo da anni a questa pantomima nei confronti dei migranti.

Il paese colloca. Massimo era un anarchico ed è morto da anarchico, affrontando la sua sorte senza scendere a compromessi. Ha affrontato la vita senza rinunciare mai a cogliere i suoi stimoli, cadendo persino nei suoi inganni. È venuto a riabitare il paese, nel margine, lasciando la città che lo conservava ineluttabilmente marginalizzato. L’antagonismo politico, la droga, la tendenza a non accettare un piatto qualsiasi servito caldo, lo hanno confinato ai bordi della città eterna che si globalizzava, stigmatizzandolo come deviante, inadatto, scarto. Avrà trovato armonia nel suo ritorno in paese? Nel suo riabitare il margine da marginale? 
Nelle comunità che si presumono accoglienti, quelle del vicinato e della solidarietà teoricamente scontata, lo stigma aleggia in modo infimo, sotteso, codardo. Si insinua nel chiacchiericcio, in quelle parole che vengono pronunciate solo alle spalle. Quelle che hanno il potere di confinare senza essere coatte e violente, ma semplicemente senza assunzione di responsabilità, in modo distaccato e incolpevole. È condizione ineluttabile della macchina-paese, quella di fungere da safe space, da luogo comodo a tutti e resistente ad ogni tentativo di trasformazione. Il paese è perenne conservazione intrisa di illusiva resilienza. Ma anche per questo suo essere “spazio sicuro”, il paese sembra poter favorire l’incontro con l’alterità: persone particolarmente devianti in città le eviteremmo senza pensarci troppo, mentre il paese offre un senso di protezione che rassicura nell’incontro con l’altro. Nell’esperienza del vicinato, Massimo è stato l’altro continuamente incluso ed escluso.

Il paese controlla. In generale, in paese tutte le soggettività sono collettivizzate: tutti conoscono tutti e sanno di tutti. Il controllo sociale per alcuni diventa asfissiante. Anche per questo alcune soggettività incidono maggiormente sulla storia del paese: i cosiddetti personaggi di paese, quelle persone portatrici di un habitus peculiare e fuori dall’ordinario, considerate “devianti” – e anche per questo attorno a loro aleggia sempre lo stigma –, ma che si fanno marcatori di una certa identità locale, arricchendo di significati l’esperienza dell’abitare. Massimo era una di queste, perché attraversava continuamente gli spazi: lo incontravi e lo ritrovavi sempre, ad ogni ritorno; lui era lì, in piazza, in strada o al bar, carico di attese ed energie genuine, di argomentazioni, di accoglienze e di “bentornato”. Il presenziare, anche passivo, passa sotto lo sguardo del vicinato e diventa, pur involontariamente, un atto di identificazione e riconoscimento di sé stessi nel luogo, quasi un “farsi paese”.

Il paese non dimentica. Ogni paese è pieno di echi, proprio come Comala, il paese visitato dal Pedro Páramo di Juan Rulfo. Sono gli echi dei vissuti che ci hanno preceduto e che si sedimentano nella memoria plurale del paese. Ricordare, in paese, è un dovere collettivo. Personaggi come Massimo, in particolare, verranno ricordati a lungo, per il loro essere stati portatori di un’alterità incorporata – fatta di stili, comportamenti, idioletti personali. Un habitus anche piuttosto contradditorio, perché ad una superficiale trascuratezza faceva da contraltare una smisurata cultura ed intelligenza. Ciò farà sì che anche in un futuro lontano si potrà dire “Ricordi Massimo il romano?”.L’atto di ricordare e rievocare collettivamente un passato comune è una modalità di appaesamento, per dirla con le parole di Ernesto De Martino, che risponde ad una crisi, ad un timore velatamente diffuso di sparizione dal piano della storia. Ma di nuovo, la memoria è un processo che richiede un esercizio di attivazione continua nella pratica dell’abitare. Il paese, in quanto “memoria collettiva”, non dimentica i suoi abitanti, perché dimenticherebbe sé stesso.

(Foto: panorama di Colli a V. - da Moliseinvita.it)

di Mirco Di Sandro ed Emidio Ranieri Tomeo (da nautilusrivista.it) 

Back