Longano

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“È molto tempo che non vado a Longano. Così era venti anni fa...”

di Franco Valente - fb

15 Febbraio 2023

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Si arriva a Longano venendo da Isernia. La carrozzabile attraversa un territorio che ormai è una sorta di periferia agricola del capoluogo, ma con case che non hanno nulla di rurale, alternate a piccoli opifici di ogni genere.
Quando si giunge al paese sembra strano che le pareti della montagna, nella parte bassa, siano prevalentemente lisce. Per quasi mille anni, infatti, sono state sfogliate per ricavarne non solo blocchetti calcarei per le costruzioni, ma anche lastre sottili per la copertura degli edifici.
Però, da almeno due secoli, l’ultimo tratto della parete rocciosa prima del caseggiato non è stata toccata. Lo garantisce una rudimentale epigrafe con l’impronta scanalata di una mano che un giorno mi fece scoprire Gabriele Veneziale le cui membra, rispettando la tradizione familiare, riposano nel cimitero di Longano: "Io Pascale Izzi – 1805".
L’aveva scolpita di notte un brigante locale per sfidare le guardie paesane nel tempo in cui viveva alla macchia. Anzi, non contento di quell’impresa, ripeté la sua firma su altre due pietre dall’altra parte dell’abitato.
Sulla montagna sopravvive malamente una delle cinte megalitiche più belle dell’epoca sannitica, che gli abitanti del posto chiamano saracene forse perché vi si accamparono i saraceni nel IX secolo, o forse perché saraceno nell’antica lingua degli Italici vuol pure significare che quell’area è ricca di grandi pietre. 

In basso, la piazza di Longano è ariosa. A destra sorge la cappella padronale di S. Maria della Libera, che è dei Veneziale, ma che fu dei Zona, ultimi baroni del luogo.
A sinistra, dopo una fontana quasi monumentale, si deve notare per forza la chiesa a tricora di S. Rocco.
Rifatta in forme neoclassiche è sicuramente più antica, come sembrerebbe dalla croce stazionaria trecentesca la cui cornice circolare e la sottostante colonnina ottagonale sono murate in una vicina casa privata.
L’interno non presenta nulla di particolare oltre la base seicentesca di un’acquasantiera che oggi regge la mensa del moderno altare, ma una bascula appesa ad un braccio mobile metallico attira l’attenzione.
Nella retrostante nicchia vi è la statua di S. Donato, vescovo di Arezzo, che si riconosce per la presenza ai suoi piedi di un putto che regge un fulmine.

Sulla piazza è inutile chiedere agli uomini che da qualche decennio parlano sempre delle stesse cose. Anzi uno mi dice con soddisfazione che non è mai entrato in quella cappella. Mi rendo conto che ho chiesto alle persone sbagliate e mi dirigo verso l’abitato antico.
In fondo, nella parte bassa del nucleo tutto aggregato alla montagna, dai tetti emerge la chiesa parrocchiale che è dedicata a S. Bartolomeo Apostolo. 
Uno dei due campanili asimmetrici, sulla facciata settecentesca più volte rimaneggiata, sembra fare l’occhiolino a chi si avvicina. Un’anziana donna, finalmente, mi spiega il mistero della bilancia nella cappella di S. Rocco.

Quando a Longano un bambino si ammala si chiede l’aiuto di S. Donato pesandolo davanti alla statua del santo e impegnandosi a donare una quantità di grano pari al suo peso. 
Così capisco che il fulmine che viene mantenuto dal bimbo ai piedi di S. Donato rappresenta le scosse dell’epilessia che, fortunatamente, oggi si può curare anche senza portare il grano alla chiesa. 
Una volta per assicurarsi l’aiuto di S. Donato si doveva andare a dorso di mulo fino a Roccamandolfi dove vi è l’originale della statua miracolosa, ma poi un longanese decise di mettere mano al portafoglio e far realizzare anche a Longano, negli anni Sessanta, l’immagine del vescovo protettore dei bambini.

Il nucleo antico di Longano, diversamente dalla piazza, è da tempo ridotto male. Così Masciotta descrisse la strada interna: "L’arteria conduce alla chiesa parrocchiale che trovasi a mezza costa: dopo la quale e insino alla sommità dell’imponente masso roccioso, diventa più angusta, più erta, più malagevole, fra case dirute o in deperimento, senza infissi alle finestre ed alle entrate, dai tetti cadenti: tugurii che ricordano dure fatiche e dolori di umili che non lasciarono memoria di sé".
Descrizione attualissima con l’aggravante che le poche case restaurate, orribilmente ornate di intonaci plastici e infissi di alluminio cimiteriale, si affacciano su vicoli in cui la pulizia è una aspirazione.
La speranza di vedere quello che rimane del castello mi invoglia a raggiungere la parte più alta del paese.
Piange il cuore a vedere la desolazione in cui versa quella parte del nucleo antico dove anche le case più povere hanno una logica costruttiva essenziale con l’uso della pietra squadrata in migliaia di piccoli blocchi e le coperture a lastre calcaree ormai al limite del crollo. Su qualche uscio sono nate piante di sambuco che certificano indiscutibilmente che da tempo nessuno entra più tra quelle mura pericolanti. 

Prendendo la via esterna si scopre che ancora sopravvive un bel tratto della murazione di difesa medioevale con corpi di fabbrica avanzati che fanno pensare ad un sistema di torri quadrangolari attrezzate per il controllo puntuale contro gli attaccanti. Fanno intuire che il castello deve essere di grandi dimensioni.
E così era in origine, ma forte è la delusione quando si arriva alla sommità dell’abitato. "Quantum fuerit, ipsa ruina docet", avrebbe esclamato qualche erudito intellettuale del settecento. Quanto sia stato grande il castello lo dicono le sue rovine.
Resta solo la base di un possente mastio circolare angioino e un lacerto di torre ridotta ad una svettante scheggia che ormai serve solo a far capire che nel tempo il suo paramento esterno fu consolidato con una fodera muraria sovrapposta.
Intorno il disastro totale cui si aggiunge un dilettantesco tentativo di restauro che ha finito per distruggere quello che rimaneva, lasciando sul campo brandelli di teli alternati a cartelli di plastica che ricordano ai contemporanei chi finanziò l’opera. 

(da "Luoghi antichi della Provincia di Isernia" 2002 – F. Valente)

di Franco Valente - fb

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