Politica civile

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Molti luoghi, rimasti orfani dei partiti, hanno ritrovato in un sano civismo le proprie tradizioni democratiche e popolari

di Rossano Pazzagli (da lafonte.tv)

2 luglio 2024

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L’8 e 9 giugno scorsi si è votato per eleggere i consigli comunali e i sindaci in tanti Comuni italiani, grandi e piccoli. Quasi dappertutto, specialmente in quelli di minore dimensione demografica, le liste civiche hanno preso il posto dei partiti. Partiti storici non ce ne sono più: sono quasi tutti di recente costituzione e cambiano in continuazione. Si è avuto come un imbarbarimento della politica, che talvolta rischia di sfociare nell’inciviltà. I partiti sono come evaporati, diventati più gassosi che liquidi; anche dove ci sono, hanno concorso alle elezioni camuffati dietro nomi e simboli vari, rivendicando anche in questi casi il profilo di lista civica, come se si vergognassero di mostrarsi come lista di partito. Eppure, i partiti erano strumenti fondamentali della democrazia, almeno fino al tramonto del partito di massa avvenuto, sostanzialmente, negli anni ’80 del ‘900. Ora, nella migliore delle ipotesi sono comitati elettorali, e solo raramente sedi di elaborazione politica, che dovrebbe significare raccolta dei bisogni e dei sogni e ricerca delle soluzioni, costruzione di scenari e di nuovi orizzonti.
Molti luoghi, rimasti orfani dei partiti, hanno ritrovato in un sano civismo le proprie tradizioni democratiche e popolari, il senso di una riscossa del territorio e la valorizzazione della propria storia, riallacciandosi in qualche modo alle origini del comune democratico, a quella stagione apertasi nella primavera del 1946 quando si tennero le prime elezioni libere dopo la dittatura fascista, le prime a cui parteciparono anche le donne (che non furono – come solitamente si dice – quelle del referendum monarchia/repubblica del 2 giugno, ma appunto quelle per i consigli comunali del marzo-aprile ’46). La partecipazione al voto era il simbolo di un’epoca nuova, di una democrazia ancora in fasce costruita dalla Resistenza e che sarebbe sfociata nella scelta repubblicana e nella Costituzione. Fin da allora il voto non fu l’unica pratica della partecipazione democratica, che si concretizzò anche nei grandi processi di liberazione, di mobilitazione e di ricostruzione dell’Italia, prendendo in misura crescente la forma della militanza nei partiti politici.
Una stagione che è durata almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso. Poi è venuta crescendo la distanza tra istituzioni e cittadini, con il proliferare di sentimenti di sfiducia, rassegnazione e indifferenza; con la fine delle ideologie si sono buttati anche gli ideali, per cui si è affievolita la competizione tra modelli concorrenti di società, di economia, di cultura. Ne ha pesantemente risentito la partecipazione, ingrediente fondamentale della democrazia, a partire dalla partecipazione al voto. La crisi della partecipazione si è intrecciata con quella della rappresentanza, e ciò ha fatto sì che anche il voto venisse considerato sempre più come un fatto rituale o addirittura inutile. La perdita di ruolo delle assemblee elettive, con la decadenza del dibattito politico al loro interno, ha sostanzialmente trasformato le competizioni elettorali – anche quelle locali – in contese per il potere, anziché in consapevole scelta di una classe di governo, in duelli tra contendenti anziché in opzioni chiare di idee e di programmi. Oggi siamo chiaramente di fronte a una deriva della democrazia rappresentativa, e per questo appare necessario dare impulso a forme di partecipazione in grado di combinare democrazia diretta e democrazia rappresentativa, che sembra resistere meglio nei paesi, nelle piccole comunità dove la distanza tra eletti ed elettori resta comunque più lieve. È qui che l’esperienza civica e diffusa di associazioni, comitati e liste civiche va assumendo una certa importanza, fungendo da laboratorio di una ritrovata politica al servizio dei cittadini anziché del partito. In parecchi casi queste liste o associazioni sono l’ esempio di come si possa fare buona politica senza entrare in un partito; sono frutto dell’impegno sociale e civile di tante persone, unite da un progetto strategico di governo locale nella prospettiva del buon vivere, che adottano la partecipazione e il pluralismo come metodo… divenendo esempio, non solo a scala locale, di integrazione tra elaborazione politico-culturale e pratica sociale.
Sono proprio queste istanze dal basso a formare un baluardo contro le derive qualunquistiche e autoritarie, cioè populiste in senso lato. Sono, quando ancorate ai solidi e imprescindibili valori costituzionali, un esempio di politica civile, cioè quella basata sul confronto, il rispetto, il tentativo di costruire una strategia entro la quale inserire le azioni e i progetti, una visione globale nella quale inscrivere i programmi locali. L’ impegno civico e la partecipazione sono un grande tema da cui dipende il destino delle democrazie contemporanee. Essi servono a tradurre in linguaggio politico l’interesse dei cittadini e dei luoghi per le cose che li riguardano ed esprimono il punto di vista della collettività sulle scelte di governo. Sono cioè alla base del sentimento democratico. Così dovrebbe essere. Non limitarsi al voto, ma impegnarsi nella società e sul territorio. Non è un’ antitesi, ma due facce della stessa medaglia: quella della democrazia, che può trovare nella dimensione locale, a partire da quella dei paesi, un privilegiato terreno di ripartenza. Una politica civile, appunto, di cui ci sarebbe un grande bisogno

di Rossano Pazzagli (da lafonte.tv)

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