Aree interne: quale modello?

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La necessità di guardare attentamente alle molteplici esperienze attive lungo tutta la penisola

di Fabrizio Ferreri - fb

10 novembre 2023

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Diverse volte, l’ultima di queste alla scuola del paesaggio Emilio Sereni di Troina (Fabio Venezia, Giuseppe Schillaci, Carmelo Nigrelli), ci siamo detti con il prof. Rossano Pazzagli che il modello di sviluppo che ha reso marginali le cosiddette areeinterne non può essere ora il modello che le salva: il rimedio invocato, già causa della patologia, la aggreverebbe soltanto.

La domanda, immediatamente conseguente, su quale debba essere allora il modello di sviluppo cui richiamarsi, postami in quell’occasione da Giampiero Lupatelli, da quel momento ha occupato i miei pensieri.
Per trovare una risposta plausibile ho iniziato a guardare più attentamente alle molteplici esperienze attive lungo tutta la penisola, Castel del Giudice (Pazzagli), Succiso, Savogna, Ostana (Antonio De Rossi), Bettona (Giovanni Teneggi), le esperienze raccontate dal Collettivo PRiNT ("Aree interne e Comunità", Lorusso) o da Filippo Tantillo nel suo ultimo libro ("L’Italia Vuota"), Gagliano Aterno (Raffaele Spadano), Valledolmo (Renzo Lecardane), San Mauro Castelverde, per citarne solo alcune...
Da tutte queste esperienze non emerge un modello alternativo unico. E forse proprio questa, che può apparire una debolezza, è invece la risposta: al “modello” dominante si può rispondere rinunziando al modello stesso, al suo stesso concetto, in favore di una miriade di pratiche dell’agire singolari, contestuali, mosse da motivazioni immanenti e non da programmi centralizzati, più o meno astratti e globali.
Emerge cioè un impegno “situazionale” che si smarca per vie laterali dal carattere di dominio insito in ogni modello assunto come unico e quindi assolutizzato. Tutte queste esperienze non sono reazioni né semplicemente “resistenze” o attacchi frontali al modello dominante – se lo fossero lavorerebbero fatalmente sul suo stesso piano; sono piuttosto azioni locali che configurano alternative, producono nuovi possibili, alleggeriscono le prese di potere esogeno.
Non ci può essere un “altro modello”, alternativo a quello dominante: se ci fosse si ricadrebbe nella sua trappola. Il piano su cui lavorano tutte le dicotomie e tutte le opposizioni è infatti sempre unico.
La rinunzia al modello è allora l’unica alternativa, non frontale, non dicotomica, non semplicemente oppositiva: è propriamente una terza via (è la terzietà in se stessa, richiamando un bellissimo convegno organizzato da Aree Fragili, Giorgio Osti e Giovanni Carrosio).
Se il Novecento è stato il secolo del “contro” ovvero delle opposizioni, oggi abbiamo bisogno di un pensiero del “per” ovvero della moltiplicazione.
La rinunzia al modello è al contempo riduzione al minimo dell’ideologia, dell’approccio ideologico, e contemporaneo innalzamento massimo del tasso politico di questo impegno. E anche di questo abbiamo bisogno oggi: meno ideologia e più politica.
Le tante esperienze oggi attive nelle aree interne italiane possono darci tutto questo: non un altro modello ma la liberazione dal modello; non un pensiero e una pratica dell’opposizione ma un pensiero e una pratica della moltiplicazione; non altra ideologia ma una dirompente politica.

di Fabrizio Ferreri - fb

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