Il paesaggio della mezzadria a S. Massimo

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Si tratta di porzioni del paesaggio di questo comune limitate, ma molto significative non fosse altro che per la presenza degli imponenti fabbricati sede delle aziende mezzadrili

di Francesco Manfredi Selvaggi

19 Gennaio 2024

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La nascita dei 3 «casini» che segnano così profondamente il paesaggio rurale di S. Massimo coincide, perché ne è frutto, con l’affermarsi già nella prima metà del XIX secolo del ceto dei «galantuomini». Questa è la categoria sociale dominante, una volta che viene abolito nel 1805 il feudalesimo. La stessa loro posizione, sul colmo delle due colline che fronteggiano il nucleo abitato (S. Maria delle Fratte a ovest e Masomartino a est) e nel centro della piana, sta a indicare il ruolo preminente della nuova classe borghese, oltre che la volontà di fare in modo che nessuna parte del territorio fosse non sfruttata; salvo la montagna la quale comunque, per le sue principali risorse, i boschi e i pascoli, poteva essere considerata complementare all’economia agricola dei livelli altitudinali sottostanti, come vedremo, almeno per il pascolo, in seguito.

Che ci fosse stata una sorta di pianificazione nella dislocazione di questi cosiddetti casini è comprensibile se si riflette sul fatto che essi appartengono ad una medesima famiglia (che è del posto, va evidenziato, al contrario del titolare del feudo che generalmente vive in città). Se passiamo dalla parola casino a quella di tenuta, cioè del fabbricato, elemento in tutti e tre gli episodi altamente significativo sia per le dimensioni sia per la sua architettura, all’appezzamento agricolo vediamo che vi è una dimensione standard rispettata in ciascuno di essi, la quale è di 90 ettari. Ciò conferma, peraltro, la presenza di un disegno nell’organizzazione di queste proprietà fondiarie.

Il metodo di gestione che viene introdotto è quello della mezzadria, innovativo per la zona poiché è un tipo di contratto agrario che prima non era presente nell’Italia meridionale. Si tratta, per certi aspetti, di qualcosa di rivoluzionario ciò che si sta attuando in quegli anni a S. Massimo, uno sconvolgimento degli assetti colturali preesistenti e delle forme di conduzione impiegate in passato, dal «livello» all’enfiteusi. Non è l’unica volta che in questo ambito si è avuta una trasformazione nel mondo agricolo a cominciare dall’epoca romana quando l’agro del Municipio di Boiano cui apparteneva S. Massimo venne assegnato ad una colonia di veterani, quelli dell’undicesima legione, tanto che questo centro cambiò il nome in Bovianum Undecanorum; l’ager venne suddiviso in parcelle tramite la centuriazione di cui sono percepibili tracce nella contigua piana di Sepino.

La differenza tra queste due fasi di profondi cambiamenti nella configurazione della campagna è che quella sotto il dominio di Roma è durata diversi secoli, mentre il sistema mezzadrile è stato vitale per soli 100 anni. Esso dopo ha vissuto una lunga agonia per cui i casini sono rimasti imponenti, ora muti testimoni di una vita rurale scomparsa, che, per fortuna, conservano ancora la caratteristica peculiare di costituire dei primari fulcri visivi nel contesto paesaggistico locale senza essere stati attorniati, salvo che in un unico caso, da costruzioni moderne. La fine della mezzadria ha a che fare con l’emigrazione tanto dei contadini quanto dei proprietari terrieri, in verità quella dei primi ha spinto i secondi ad andare via essendo venuta meno la forza lavoro a basso costo per la coltivazione dei campi.

Vi è una resistenza alla estinzione dei rapporti mezzadrili dovuta alla difficoltà di remunare gli investimenti stabili e le migliorie che erano effettuati anche dal conduttore del fondo nonostante che gli impianti e le opere in questo tipo di organizzazione agronomica erano assai elementari, il principale dei quali era proprio il grande fabbricato. A questo punto occorre introdurre l’altra fondamentale novità, insieme alla mezzadria, che ha cambiato l’assetto rurale, non solo del nostro comprensorio. È interessante notare che un impulso decisivo è dovuto a Francesco Tommasi che verso la metà dell’800 scrisse un trattato sull’“erba lupinella”, diffuso nell’intera Italia meridionale, con il quale propugnava la rotazione triennale delle colture; egli era un medico di Spinete, comune confinante con S. Massimo, e imparentato in modo stretto con coloro che qui possedevano i casini.

L’introduzione delle foraggere in alternanza con le leguminose e i cereali fu una soluzione per i problemi dovuti all’abrogazione della transumanza (uno dei tratturi, il Pescasseroli-Candela, passa vicino ad un casino) che, da un lato, contraendo la pastorizia, richiede nuove occasioni lavorative questa volta legate all’agricoltura e, dall’altro, a causa della diminuzione del bestiame e, quindi, del letame disponibile, impone il ricorso ad altri metodi per la fertilizzazione dei campi. Se ciò è vero per la generalità del territorio regionale, l’ambito in questione ha una propria specificità ed è che esso è interessato dalla pratica della manticazione la quale fa sì che l’allevamento continui ad avere una centralità nella vita rurale.

Pure le aziende mezzadrili che, nonostante siano vocate al mercato il quale richiede una specializzazione nella produzione e non l’autosussistenza, connotata, invece, da una promiscuità delle colture, hanno un orientamento produttivo misto per sfruttare le risorse naturali, diversificate per fasce altimetriche per esposizione dei versanti, per la presenza di bosco, ecc. hanno una componente zootecnica. Forte perché ci troviamo ai piedi del Matese dove l’altopiano offre estesi prati per l’alpeggio. Si pagano la «fida», cioè l’affitto dei pascoli montani al Comune il quale scelse di entrarne in possesso quando, agli inizi del XIX secolo si ripartì il feudo in parti uguali tra il marchese e l’Università dei cittadini, lasciando a questi ultimi i terreni agrari.

Il mezzadro, che per tutto il resto dell’anno aveva fatto il contadino, durante il periodo dell’alpeggio (il quale iniziava a S. Massimo con la festa di S. Giovanni, il 24 giugno con il trasporto delle statue dei santi dalla chiesa parrocchiale fino alla cappella di S. Maria delle Fratte, (peraltro vicino ad un casino dove stazionavano fino alla seconda domenica di settembre quando, sempre in processione, tornavano in paese in coincidenza con il ritorno degli uomini dalla montagna) svolgeva il lavoro di casaro. La sua famiglia nel frattempo badava alla campagna, poiché nella mezzadria era implicito il coinvolgimento dell’intero nucleo familiare. Il distacco del capofamiglia è, comunque breve, limitato all’estate, che è ben diverso dalla transumanza la quale al contrario impone la permanenza dei pastori in Puglia per l’intero inverno e ciò, ovviamente, non si sarebbe potuto conciliare con la mezzadria che lega strettamente le persone al podere.

(Foto: F. Morgillo-Fabbricato mezzadrile)

di Francesco Manfredi Selvaggi

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