Il paesaggio passa all’incasso

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Sono le somme che vengono incamerate quale Indennità risarcitoria del danno ambientale dovuta dagli interventi abusivi. Esse vengono spese per la riqualificazione dei contesti paesaggistici degradati

di Francesco Manfredi Selvaggi

12 Gennaio 2024

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Il paesaggio ha, di sicuro, un valore anche di tipo economico, ma esso è difficilmente monetizzabile. Una colpa ce l’hanno gli insoddisfacenti progressi nel campo delle metodologie valutative conseguiti dagli studi condotti all’interno della disciplina universitaria dell’Estimo che, però, sono giustificati dal fatto che si tratta di beni, quelli ambientali, i quali non essendo scambiati sul mercato non hanno un prezzo nel senso usuale del termine. La critica che si muove verso la ricerca di stabilire un quantitativo monetario a elementi che sono difficili a ricondurre ai soldi, come la bellezza dei luoghi o la cultura, è che questo è uno sforzo inutile e che non è necessario cercare sempre una ratio economica in tutte le cose, prendi la protezione dell’ambiente; si giunge financo a dire che le qualità paesaggistiche (vale anche per le opere letterarie, le creazioni artistiche, ecc,) non hanno un valore riconducibile a parametri ordinari in quanto il loro valore è infinito.

Dal punto di vista del privato ciò è facilmente smentibile se solo si pensa all’incremento del valore immobiliare delle case situate in un posto ameno, dalle attività economiche sotto forma di turismo, artigianato, ristorazione, produzioni agricole di pregio che sono collegate alla valorizzazione del patrimonio culturale; il privato constata, poi, l’entità monetaria corrispondente ad un certo angolo del paesaggio quando, per via delle limitazioni normative, deve rinunciare a sfruttare il terreno in suo possesso ricadente in questa zona non potendolo, magari, convertire in suolo edificabile.

I criteri di valutazione del pubblico sono sicuramente diversi da quelli del privato. Il paesaggio nel Codice dei beni culturali ha un valore, è inutile dirlo non monetario, davvero particolare e di notevole importanza che è quello di concorrere a formare l’identità della Nazione; in altri termini è significativo indipendentemente dal fatto che qualcuno possa goderlo direttamente al di là dell’esperienza effettiva o potenziale da parte delle persone. È la sua mera esistenza che conta, al di là della possibilità di fruizione tanto che un cittadino lombardo ha diritto a rivendicare l’integrità del paesaggio molisano in quanto rappresentativo di un pezzo della Patria, che è un fatto unitario (non a caso si è citato il lombardo poiché i leghisti contestano tale punto, lo si fa notare incidentalmente).

Il valore, sempre in termini non economici, identitario vale a scala nazionale e pure a quella locale dove esso serve a rafforzare la coesione di una comunità che si riconosce nell’immagine del suo territorio; questo, forse, può essere misurato monetariamente contribuendo alla convivenza civile che è alla base dello sviluppo della società. Siamo giunti alla questione che ci interessa che è quella di commisurare in soldi le valenze paesaggistiche, uno sforzo necessario (contrariamente a quanto pensano quelli che ne sostengono l’inutilità secondo l’argomentazione riportata sopra) per determinare, tra l’altro, il «danno ambientale» prodotto da interventi abusivi che alterano gli scorci visivi.

Uno dei metodi proposti nella letteratura scientifica (vedi L. Fusco Girard «Risorse architettoniche e culturali: valutazioni e strategie di conservazione», Franco Angeli 1987) per stimare il quantitativo economico rapportabile ad una determinata componente dell’ambiente è quello fondato sulla «disponibilità a pagare». Appartiene alle metodologie alternative agli approcci estimativi classici le quali tendono alla ricerca di un valore economico di tipo surrogatorio da applicare ai beni ambientali, in cui cioè viene effettuata una stima indiretta del valore di tali beni. Il metodo «è basato sulla constatazione generale che se una collettività è disposta a pagare certi costi per conservare o riqualificare delle risorse, attribuisce ad esse un «valore» almeno equivalente a questi costi» (L. Fusco Girard cit. pag. 169).

Il problema, in relazione a questo modo di pensare, è, quindi, quello di determinare quanto la collettività spende per la salvaguardia del paesaggio con la specificazione che per collettività si intende tanto i soggetti privati che concorrono alla conservazione del patrimonio paesaggistico quanto l’apparato pubblico. I primi sono i gruppi sociali, i singoli e le imprese che investono nella manutenzione degli edifici tradizionali, nella valorizzazione turistica legata alle emergenze culturali, nella promozione editoriale che punta sulla divulgazione ambientale, ecc…

La spesa dell’amministrazione pubblica per la salvaguardia dell’eredità ambientale è costituita, da un lato, da una serie di azioni, per così dire, dirette (dai contributi per il recupero edilizio al restauro dei monumenti alla predisposizione dei piani particolareggiati dei centri storici alla realizzazione della rete sentieristica e così via) e indirette (dal sostegno all’artigianato tipico alla gestione dei musei, ad esempio), mentre dall’altro lato vi è il costo per il funzionamento degli organi di tutela, cioè degli uffici degli enti territoriali preposti al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche e quelli statali della Soprintendenza.

Siamo di fronte ad un impegno di calcolo particolarmente gravoso come si può immaginare che può essere sostituito ancora secondo questa teoria con sondaggi effettuati con la tecnica del campione rappresentativo nei quali si chiede agli intervistati quanto valga secondo loro un certo bene “intangibile”; è difficile, comunque, far emergere, nonostante che le interviste siano ben strutturate, il valore che si attribuisce al paesaggio e allora tanto vale servirsi di indizi rivelatori dell’interesse anche economico che la collettività ha per questo patrimonio. In qualche modo, invece del campionamento dei cittadini si tiene conto dell’espressione dei loro rappresentanti, metodo anch’esso della ricerca sociale.

Invece che con delle domande si può estrapolare l’importanza assegnata al paesaggio dagli atti compiuti. L’apprezzamento è dimostrato oltre che dalla spesa effettuata, va evidenziato, dai vincoli imposti al territorio che costituiscono restrizioni delle opportunità di una crescita differente e che perciò hanno anche un significato economico. Una indicazione del valore, in particolare del valore unitario come si espliciterà di seguito, è quella contenuta nel Decreto del Ministero dei Beni Culturali del settembre ’97 relativo all’«indennità risarcitoria del danno ambientale» nel quale è determinato un importo minimo a seconda dell’entità dell’abuso per le opere realizzate in assenza dell’autorizzazione paesaggistica; un valore unitario, dunque, perché rapportato ad un singolo intervento.

Tale importo minimo va incrementato a seconda dell’entità dell’intervento, ben maggiore è infatti l’alterazione prodotta da radicali lavori di ristrutturazione rispetto al semplice spostamento di una apertura in facciata. Una graduazione simile la si dovrebbe fare anche rispetto alla collocazione del manufatto, se in centro storico o meno, alla sua datazione, precedente, mettiamo, al 1950 o no, alla sua qualità architettonica, tutti fattori capaci di articolare l’analisi del danno ambientale prodotto. Si precisa che nella normativa in questione si fa riferimento al “profitto”, ma il valore si può legittimamente trasferire al danno.

(Foto: F. Morgillo - Baracche a Boiano)

di Francesco Manfredi Selvaggi

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