• 09/15/2016

Non solo lager, l’altra faccia dell’accoglienza

“Aiutiamo i migranti senza puntare ai soldi”

da primonumero.it

15 settembre 2016

Dopo lo scandalo del Cara di Foggia, dove oltre mille migranti vivono in condizioni disumane come testimoniato da un’inchiesta dell’Espresso e di Repubblica, il vice direttore della Caritas di Termoli Gianni Pinto dice la sua sul sistema di accoglienza italiano, mettendo a confronto quello dei centri Cas per i quali «la qualità è molto soggettiva, ma in generale sono contrario ai grandi numeri come quelli citati nell’articolo dello scandalo». In Basso Molise sta dando invece buoni frutti lo Sprar, sistema pensato per chi chiede o ottiene asilo politico e lo status di rifugiato. «Non lo facciamo per massimizzare il profitto e i soldi che passa lo Stato bastano senza problemi». Una storia che è fatta di integrazione vera e di «pregiudizi che crollano. Come i miei». 

Esiste un’altra accoglienza, che vada al di là dei numeri e consideri i migranti come persone e non come fonte di guadagno? La risposta è sì. Almeno secondo chi l’altro tipo di accoglienza, fatto di piccoli passi e grandi gesti, la vive tutti i giorni. E’ Gianni Pinto (foto in alto), vice direttore della Caritas diocesana di Termoli-Larino. «Col sistema Sprar non si massimizza il profitto. Si segue il migrante passo passo in un processo di integrazione che non vuole italianizzare la persona». Così lui e altri 20 operatori fra Termoli, Ururi e Larino, danno sostegno a persone provenienti dai posti più disparati di quello che una volta era definito il terzo mondo. 

Qualcosa distante anni luce da un qualsiasi centro di accoglienza italiano. Nell’indifferenza quasi totale della popolazione italiana, anestetizzata dalla storiella degli immigrati negli alberghi a 35 euro al giorno, un giornalista esperto in inchieste scottanti e pericolose mostra al Paese intero come si vive davvero in quelle pensioni che in molti casi – non tutti per fortuna – sono veri e propri ghetti in cui le condizioni igieniche sono sotto terra. E’ il caso del Cara di Foggia, uno dei più grandi d’Italia, dove il cronista Fabrizio Gatti si è infiltrato da clandestino fingendosi immigrato per una settimana. 

Il risultato che ne è venuto fuori è una fotografia agghiacciante delle condizioni di vita di quelle persone, tanto da scomodare persino il Ministero dell’Interno per delle necessarie, seppur tardive verifiche. «Ho saputo di Foggia – commenta Gianni Pinto, da anni uno dei volti della Caritas di Termoli -. Non ci sono mai stato, ma non mi sorprende. In generale sono contrario ai grandi numeri». 

Ma casi del genere, fatti di immigrati che dormono all’aperto, sporcizia ovunque e stanze sovraffollate, sono stati scoperti e testimoniate anche in Basso Molise, con la chiusura seppure temporanea di alcuni centri. «Sì, ma c’è anche chi lavora bene nei Cas. Perciò dico che la qualità del servizio è molto soggettiva. C’è chi avvia davvero dei percorsi di integrazione, altri fanno semplicemente da parcheggio. Certo è che è impossibile controllare mille persone. Ci troverai sicuramente il delinquente o la prostituta». 

Gianni ha una visione tutta sua, ma con uno “sponsor” di tutto rispetto. «Fosse per me estenderei lo Sprar a tutti. Faccio mie le parole di papa Francesco che ci chiede proprio di dare accoglienza a tutti quelli che lo richiedono». Ma cos’è lo Sprar? Si tratta dell’acronimo di Servizio Centrale del Sistema di Protezione per richiedenti asilo e rifugiati, istituito con la legge Bossi-Fini del 2002. «Lo ritengo l’unico tratto positivo di quella legge – sorride Gianni -. Lo è perchè parla di intercultura e non di italianizzare, nè di europeizzare o convertire al cristianesimo. Parla di rispettarsi reciprocamente». 

Attualmente il sistema Sprar gestito in Basso Molise dalla diocesi di Termoli-Larino può contare su 76 rifugiati, suddivisi fra 14 posti al centro “Rifugio sicuro” di Ururi, dove vivono donne sole o con minori, e tutti gli altri che abitano in case affittate a prezzi di mercato nei Comuni di Termoli, Larino e Ururi. Vengono da Afghanistan, Siria, Tanzania, Nigeria, Pakistan e altre nazioni dell’Africa. Proprio di recente il Comune di Termoli ha detto sì alla proroga nel tempo dell’ampliamento della rete Sprar per 5 afghani e 21 siriani. 

I fondi sono statali e arrivano alla Caritas dal Ministero per l’Interno. L’ente gestore del progetto decide che uso farne. In piazza Bisceglie, sede della Caritas a Termoli, il responsabile Luca Scatena ha messo su un sistema che mira a responsabilizzare i rifugiati. «Diamo loro del denaro che possono spendere come meglio credono. Questo per diversi motivi: perchè devono imparare a gestire dei soldi in un Paese diverso dal loro, perchè per i pasti preferiamo che siano loro a cucinare e mangiare quello che preferiscono e non menù italiani che magari ci converrebbero di più affidandoci a dei catering. E soprattutto perchè devono rendersi autonomi. Noi li affianchiamo – spiega ancora Pinto – per un periodo minimo di sei mesi fino a un anno o oltre in funzione di ciò che riescono a fare». 

L’assistenza è continua e cerca di essere a 360 gradi. «I nostri operatori danno sostegno a seconda delle proprie competenze: dall’alfabetizzazione al lavoro, dai problemi legali a quelli sanitari e psicologici. Qui i rifugiati non stanno mai senza far nulla». E l’altra faccia della medaglia ha degli evidenti effetti positivi per lo stesso Basso Molise. «Sono convinto che l’emigrazione, un fenomeno che non possiamo arrestare e che ricalca quello che facevano i nostri nonni un secolo fa, sia qualcosa di positivo, che crea ricchezza sia culturale che sociale, oltre che economica. Le ricadute sono sul territorio: le case che affittiamo sono qui, la spesa i rifugiati la fanno qui, e faccio notare che abbiamo assunto circa venti persone che lavorano con noi con contratti a tempo indeterminato.

Solo su una cosa Gianni sente che la litania del «migrante sì e l’italiano povero no» può avere un fondo di verità. «Ritengo che molto spesso anche l’italiano in grave difficoltà economica dovrebbe essere accompagnato da percorsi come quelli che offriamo noi, ad esempio con tirocini formativi e altre possibilità simili». 

Ma in generale stare a contatto con queste persone aiuta a sgretolare pregiudizi vecchi di secoli. «Spesso pensiamo al velo come immagine della donna sottomessa. Se si parla con queste donne invece viene fuori che a loro piace e che magari quel filo di capelli che resta fuori non è un caso, ma un tratto distintivo di bellezza, così come lo stesso colore del velo. Sono stato a cena da loro e posso assicurare che le figlie si rivolgono al padre come capita in tante famiglie italiane ed è sbagliato pensare siano sottomesse». E poi una curiosità. «Noi chiamiamo talebani i terroristi dell’Afghanistan. In realtà talebano per loro significa colui che conosce il Corano. Il problema è che molto spesso i media ci mostrano una piccola parte di verità, non tutto». 

Gianni indica la strada dello Sprar come «il vero sistema di accoglienza. Ha standard di qualità molto elevati sotto i quali non si può andare, con regole e controlli molto rigidi». Anche per questo la Diocesi ha lanciato il progetto “Rifugiato a casa mia”. In questo modo sette giovani che hanno ottenuto lo status di rifugiato sono stati accolti in casa da privati cittadini. Ragazzi che oggi vivono, lavorano e fanno amicizia sulla costa molisana. «E vi assicuro che per le famiglie spesso sono come figli». Intanto sta per prendere il via un nuovo progetto Sprar a Santa Croce di Magliano. «L’Italia sta facendo moltissimo da questo punto di vista e sono contento che si stia andando verso questa direzione. Nel 2001 i rifugiati erano circa 3mila, oggi più di 22mila». 

Ma non è detto che tutti rimangano qui. «Anzi, la maggior parte decide di andar via perchè magari ha contatti altrove, o semplicemente perchè nel nostro territorio trova meno possibilità che in un altro posto d’Italia o d’Europa. Ma è anche capitato che qualcuno decidesse di restare e di lavorare con noi, come mediatore. Ma mai nessuno – sottolinea il vice presidente Caritas – è tornato a chiedere aiuto dopo aver concluso il percorso avviato con noi». Segno di un’accoglienza che funziona. (sdl)

da primonumero.it