“Blue 20”
Le narrazioni di Giuseppe Pittà, poeta, scrittore e giornalista molisano
di Giuseppe Pittà
8 Gennaio 2024
La prima richiesta mi arriva dopo circa una settimana. Il nuovo “zio” mi chiede di leggere un documento, che gli è arrivato per posta da Palermo, da un paese della provincia, tal Corleone. “È scritto piccolo e poi è difficile capirlo. Tu che sei un professore, sarà più facile”. Sono parole semplici, in fondo non mi chiede niente di veramente complicato. Apro la busta che mi porge. Il foglio che estraggo riporta in alto il nome di un notaio. È un atto di vendita, che deve essere firmato e rispedito allo Studio notarile nel più breve tempo possibile. Glielo dico. “Ah, è una casa con un terreno, l’ho venduto ad un cugino. Una sciocchezza, quasi regalato”. Gli indico il posto della firma. “Ci penso io a spedirlo domani, se me lo permette?”. Lui annuisce, ma mi gela con un “firmeresti tu, al posto mio”. E li capisco quel che non avrei dovuto capire e che mai avrei dovuto dire.
La firma è perfetta. L’ho provata almeno venti volte. Credo di aver raggiunto un ottimo risultato. Ho usato la sinistra, che è la mia mano debole. È venuta tremolante, giusta per lo scopo, sicuramente efficace per lo scopo. Il mio primo vero reato. Ne sono consapevole. Non riesco a dormire. Mi giro e rigiro nel letto, sobbalzando ad ogni treno notturno che arriva e parte da Termini. Ho commento un reato, il primo, sono diventato anche io un bandito. Per giorni mi distruggo il pensiero. Un atto ufficiale, una roba da finire in galera. Che ho fatto, mannaggia a me, che non ho saputo dire di no. Mia madre se ne accorge dal tono della voce, ma è papà che mi affronta e mi chiede cosa diavolo ho combinato. Non glielo dico. “Ho fatta una grezza con il prof di Analisi, una brutta figura”. Si tranquillizza, ma io no, anche se fingo di essere sereno, ho il cuore pieno di panico.
Dieci giorni e mi arriva il vaglia da casa. Devo pagare la pigione. Vado alle Poste. A casa subito e tro in cucina per pagare la camera. La signora Italia mi dice che è tutto pagato, che questo mese è stato saldato. Resto muto, non comprendo, così lei mi spiega. “Stamattina stavo andando al mercato di piazza Vittorio. Mi ha fermato uno di quelli del bar. Ha tirato fuori dei soldi e li ha messi nella borsa. Dice che è il pagamento per tuo conto, un lavoro che hai svolto per conto del loro parente anziano. Dice che hai fatto un buon lavoro. Ah, ti chiamano il Professore, stai diventando famoso. Stai attento”.
Il mio primo lavoretto da bandito, ma giuro che sarà stato anche l’ultimo, perché non voglio avere guai, non me lo posso permettere. Intanto scelgo di non frequentare il bar per un po’. La verità è che non riesco ad entrare, mi vergogno della paura che mi sembra si possa leggere sul mio volto. Ho vergogna che loro se ne possano accorgere. Zi’ Tore sembra sapere tutto. Mi manda a chiamare. Mi fa dire che mi aspetta in una trattoria a Piazza Dante, un posto che fa anche delle pizze alla romana meravigliose, proprio come piacciono a me, basse e croccanti, quasi delle ostie, buonissime. Non posso rifiutare, ci sarò.
Siamo solo in quattro al tavolo. Lui, il suo braccio destro, Mimmo u Liuni, Giuvanni u Soru, Gamiddu (perché ha la gobba) ed io. Abbiamo le nostre pizze, le bottiglie di birra e mangiamo in silenzio. Almeno finché lui non parla. Si rivolge a me. “Sei un bravo ragazzo, perciò ti faccio una proposta. Nessuno ti creerà mai problemi. Vogliamo che tu ci assista come uno di fiducia. La maggior parte dei miei non sa né leggere e manco scrivere. Dovrai farlo per noi. Leggere le lettere da casa, scrivere le risposte. Parlare con il nostro avvocato, spiegarci meglio le faccende che ci riporta. Di te ci fidiamo, di lui neanche il minimo. Vogliamo solo la tua opinione. Niente più firme false, nessun reato, solo la tua assistenza. Sarà come un lavoro per te. Prenderai dei soldi. Senza assunzione (e qui ride alla grande) naturalmente. Ci stai?”. Certo che ci sto, ma sto muto come un pesce. Da una parte mi sento anche fortunato, ché mi arriva un gran ben di dio, ma dall’altra ho più di un timore, sono decisamente atterrito. “Un’altra cosa. Noi ci occupiamo di cavalli” – continua a dirmi – “lavoriamo alle Capannelle per il galoppo e a Tor fi Valle per il trotto. Scommesse. Siamo nel giro delle scommesse. Siamo il giro. Ti sta bene? Ah e la firma dell’altro giorno era una finta, il documento l’ho strappato, me ne hanno spedito un altro, che firmerò con la mia firma non appena arriva. In verità so leggere e scrivere e soprattutto fare tutti i conti. Direi che sono bravo in questo lavoro”. E comincia a ridere ed io con lui e poi gli altri. E il Leone mi dona una zampata sulla spalla. Sono uno di loro, ormai, la cosa mi spaventa a morte, ma non faccio una piega, sono lì e mi sento di potercela fare. Ne sono più che certo. A presto.
di Giuseppe Pittà