Ho iniziato a camminare per caso e non ho più smesso
Ciascuno di noi può fare una rivoluzione, la mia è stata camminare!
di Massimo Clementi (da trekking.it)
15 novembre 2016
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Sono nato nel lontano, si fa per dire, 1982 in una paesino della campagna Toscana. Ho vissuto li i primi anni della mia vita, fino alle scuole medie, per trasferirmi poi a Roma insieme alla mia famiglia per seguire mio padre, direttore dell’ufficio postale del paese, che era stato trasferito in città. Un grande cambiamento per tutti noi, da sempre abituati a vivere in un piccolo borgo dove tutti si conoscevano, catapultati nella capitale, in mezzo a quell’intricato mosaico di strade e palazzi inondate da un traffico costante.
Potrà sembrare strano, ma noi gente della campagna siamo abituati ad usare la macchina anche per attraversare la strada. La mancanza di mezzi pubblici, il traffico inesistente e la rivalsa sociale dell’avere un motore sotto il sedere ci hanno fatto dimenticare di avere due gambe da utilizzare per spostarci. Forse per quello mio fratello di solito, quando mangiavamo in giardino, si presentava davanti alla tavola con il suo Ciao reclamando la sua razione di pasta senza nemmeno scendere dalla sella.
Ricordo ancora quello che accadde una sera di primavera. Ero appena uscito dalla casa di Lucia, un’amica di mia madre, ci andavo ogni weekend per avere delle ripetizioni di inglese dalla figlia, studentessa di lingue. Mia madre doveva venire a prendermi per le 7 e 30 ma, quando uscii, non c’era ancora nessuno. Lucia era uscita di corsa per accompagnare la figlia in stazione e io ero rimasto li da solo ad aspettare. Il tempo passava, prima mezz’ora, poi un’ora, ma ancora nessuno si era fatto vivo.
La notte precedente mia madre era stata poco bene così quel pomeriggio, dopo avermi accompagnato, aveva deciso di tornare a casa per riposarsi un po, finendo per addormentarsi. Si risvegliò solo alle 9 passate quando mio padre rientrò con mio fratello a casa, dopo essere stato al bar per vedere la partita, e le chiese come mai non fossi a casa. Solo allora mia madre realizzò che l’ora di ripetizione era ormai ampiamente passata e si precipitò a prendermi preoccupata.
Io me ne stavo li fermo, non ero nemmeno agitato, sapevo che sarebbe tornata Lucia o che, comunque, qualcuno sarebbe arrivato a prendermi. Ai tempi non mi sembrò una situazione così drammatica, solo oggi ne riesco a cogliere i profili paradossali. Infatti casa di Lucia dista dalla mia non più di 3 chilometri e se, anziché aspettare due ore che arrivasse qualcuno, mi fossi messo in cammino probabilmente non avrei impiegato più di tre quarti d’ora per arrivare a casa.
Ma quel pensiero non sfiorò nemmeno lontanamente la mia testa era come se, al posto della strada, ci fosse un corso d’acqua impossibile da attraversare se con con l’aiuto di una bella imbarcazione. In realtà si trattava solo di una stradina poco trafficata nella campagna e la vera barriera era nella mia testa, che ormai aveva smesso (o forse nemmeno mai cominciato) di considerare le mie gambe come uno strumento utile per raggiungere una meta.
Pochi mesi dopo quell’episodio venne il momento del trasferimento a Roma. Un ambiente totalmente diverso da quello cui ero abituato, una grande città, con le sue grandi strade e il traffico a farla da padrone in ogni momento della giornata. La nuova avventura coincise anche con l’inizio del Liceo Scientifico, la scuola si trovava in un quartiere vicino al mio, ogni mattina però per arrivarci mia madre ed io ci mettevamo più di un’ora, procedendo come delle lumache nel serpentone di macchine.
Appena compiuti 14 anni iniziai a fare pressione sui miei genitori per avere un mezzo anche io. Solo dopo mesi di estenuanti (per i miei genitori) trattative ero sono riuscito nell’impresa di farmi regalare una vespetta usata. Era piuttosto anzianotta, aveva quasi la mia età, con il cambio 3 marce, di colore bianco perla e 50cc di cilindrata, ma era special, proprio come quella che avrebbero cantato i Lunapop qualche anno più tardi. Oggi costerebbe un occhio ma, ai tempi, si trovava a buon mercato, cose vecchie che nessuno voleva.
Ero al settimo cielo, il primo giorno non riuscii nemmeno a guidarla per lo stupore e l’incanto, avevo paura di toccarla. Ma dal giorno successivo questo timore reverenziale sparì e mio bolide con l’inconfondibile ruggito della marmitta bucata, mi accompagnò nel tragitto casa – scuola per tutti i tempi delle superiori, fino alla tanto agognata maturità. Nonostante avessi preso al primo tentativo la patente della macchina e avessi a disposizione la vecchia 500 di mia madre, quel giorno così importante vicino a me volevo solo lei… la mia 50 special.
Ma dal primo giorno di Scienze Politiche le cose cambiarono drasticamente, l’università non era più a portata di Vespa, e le strade erano diventate così trafficate che tra la macchina e la Vespa il divario non era più così marcato. Per arrivare in tempo alle lezioni dovevo partire di casa un’ora e mezza prima e, dopo, per tornare a casa il tempo era sempre più o meno quello.
L’ultimo anno di superiori avevo anche deciso di iniziare a giocare a Rugby, uno sport che mi aveva sempre affascinato, per la sua lealtà e il carattere dei giocatori. Però con l’inizio dell’Università andare agli allenamenti diventava sempre più difficile, perché appena tornavo a casa, avevo solo un paio d’ore per uscire di nuovo e raggiungere il campo di allenamento, che si trovava a pochi chilometri di casa, ma la strada era sempre molto trafficata.
I primi due anni di università filarono dritti tra lezioni, studio e allenamenti di rugby. Al terzo anno però le cose cambiarono un po, strinsi une bel rapporto di amicizia con alcuni compagni di corso e conobbi una ragazza che sembrava fatta apposta per me. Amici e ragazza significava uscire più spesso, andare a cena e al cinema, e magari anche qualche vacanzina in giro. Tutto questo però andava oltre il budget della paghetta dei miei genitori, decisi di trovarmi un lavoretto per arrotondare. Un amico di mio fratello aveva aperto un locale a Trastevere e nell’ora dell’aperitivo avevo bisogno di qualcuno che gli desse una mano in sala, così mi proposi e mi prese.
Alla fine del terzo anno però la mie giornate erano diventate così piene che avrei avuto bisogno di 48 ore a disposizione. La mattina all’università, poi al pomeriggio gli allenamenti, qualche ora di studio, prima di uscire di casa per andare a lavorare. Ero sempre più teso e stressato, a casa non parlavo più con nessuno, ero scontroso e irascibile. Con Monica, la ragazza conosciuta ad inizio anno, non andava più così bene. Ero nervoso, sempre più nervoso, e il weekend non mi bastava più per recuperare le energie mentali, anche perché la sera continuavo a lavorare imperterrito.
Un giorno poi, un mercoledì come tanti, durante una lezione di Economia Politica, mentre ero seduto a prendere appunti, sentii improvvisamente l’aria intorno mancarmi, la fronte iniziava a grondare di sudore e degli strani brividi si stavano impossessando di me. Tentai di lasciare l’aula, ma la vista mi si oscurò e non feci in tempo ad abbandonare la mia fila di sede che svenni accasciandomi sulle sedie vuote.
Mi risvegliai poco dopo circondato da una schiera di compagni preoccupati, mi rimisi a sedere rassicurando tutti ma, quando mi dissero che volevano accompagnarmi alla macchina, non riuscivo più a ricordare dove l’avessi parcheggiata. Rimasi in questo stato confusionale per diversi minuti, ma poi tornai in me, raggiunsi la macchina e tornai a casa.
La mattina dopo ero dal medico con mia madre che, non appena ascoltò il racconto dell’accaduto, mi disse che avevo avuto un forte attacco di panico provocato da un forte accumulo di stress e mi consigliò, prima ancora di una terapia farmacologica, di rivolgermi ad uno specialista per risolvere alla radice il problema, ovvero eliminare le cause d’ansia.
D’accordo con il medico e la mia famiglia, decisi di concedermi qualche giorno di riposo, lontano dall’Università, dal campo di Rugby e anche dal lavoro. Mi sveglia al venerdì mattina senza avere nulla fare, per la prima volta da molti mesi, e pensai di fare qualcosa di completamente nuovo per me. Uscii di casa senza prendere le chiavi della macchina o quelle della Vespa, volevo andare a fare un giro a piedi.
Mi misi in cammino per il mio quartiere e già dopo pochi minuti fui pervaso da un grande senso di stupore, a pochi passi da casa mia c’era un bellissimo negozio di dischi, pieno di Vinili e CD quasi introvabili, indugiai ad osservare la vetrina, e notai addirittura una copia di “Una donna per amico” di Battisti autografata, incredibile. Prosegui così il mio percorso e non passava metro senza che scoprissi qualcosa di nuovo, ormai erano anni che vivevo in quel quartiere, ma non lo conoscevo per niente. Sopravvivevano ancora piccole botteghe e negozietti che credevo non esistessero più, mi sentivo catapultato in una di quelle serie tv che guardavo su Sky.
Dopo un po mi trovai davanti ad uno stradone che ogni mattina percorrevo in macchina per andare in Università, decisi di attraversare per proseguire oltre, attendendo che il verde scattasse guardai il mio orologio e notai con stupore che ero uscito di casa solo da dieci minuti. Con la macchina impiegavo solitamente quasi mezz’ora per arrivare all’altezza di quel semaforo. Attraversai la strada, all’angolo dei volontari di Emrgency mi regalarono la copia di una rivista, diedi una rapida occhiata alla copertina quando un’insegna richiamò la mia attenzione, era la metropolitana.
Dato che non avevo nulla da fare, guidato dalla mia curiosità, decisi di scendere le scalett. Mi trovai davanti al disegno del tracciato della linea, lo seguì col dito indicando una stazione dopo l’altra fino a quando notai, con un pizzico di incredulità, che c’era una fermata familiare, era infatti il quartiere dove si trovava il distaccamento della mia università. Avevo davanti ancora tutta la mattinata, decisi di prendere un biglietto e salire sulla metro. C’era un posto libero e mi sedetti, ripresi la rivista che mi avevano dato prima e mi misi a leggerla. C’erano un paio di articoli veramente interessanti sul legame tra i cambiamenti climatici e le grandi migrazioni, ebbi il tempo di leggerli entrambi e di scendere comodamente alla fermata.
Salite le scale che dalla stazione potavano in strada mi guardai intorno, riconoscendo in lontananza il profilo del palazzo della’università, decisi allora di mettermi in cammino facendomi guidare solo dalla vista del palazzo in lontananza. Attraversai diversi vicoletti per cercare di disegnare il percorso più breve, ebbi anche il tempo di fermarmi in un piccolo baretto che doveva avere almeno un secolo, tutto in marmo e legno, per gustarmi un buon caffè con un dolcetto che, dalla vetrina, aveva richiamato la mia attenzione.
Eccomi davanti all’ingresso dell’Università, istintivamente controllai l’ora, la mia espressione cambiò di colpo, come se avessi assistito a qualche incredibile numero di magia, ma la mia bocca era spalancata solo a causa dell’ora. Erano passati solo 50 minuti da quando ero uscito di casa ed ero già davanti all’Università, la metà del tempo che ci impiegavo di solito con la macchina.
Avevo avuto perfino qualche minuto per leggere un po e fare una buona colazione, quanto era accaduto mi sembrava quasi un miracolo, non me lo spiegavo. Ero riuscito a fare molte più cose del solito durante il tragitto ma ci avevo messo molto meno tempo, “come mai?” mi chiedevo.
Ci ripensai continuamente fino a che non rientrai nuovamente a casa. Non riuscivo a darmi una spiegazione, così decisi che non mi sarei fermato nemmeno la pomeriggio. Non avevo intenzione di andare ad allenamento, ma decisi comunque di andare al campo, senza prendere le chiavi della macchina o del motorino. Scesi in strada e mi incamminai verso il campo sportivo, il mio quartiere è ricco di vicoletti, ne attraversai molti quel pomeriggio, cercando la via migliore per arrivare a destinazione.
Quelle stradine non le avevo mai attraversate con attenzione, o forse non le avevo mai attraversate, infatti mi sembrava di passarci per la prima volta. C’erano negozi di cui non immaginavo nemmeno l’esistenza e addirittura una piccola chiesetta, nascosta tra le case, di cui non avevo mai sentito parlare. Incontrai anche un’erboristeria e ricordai che il medico mi aveva consigliato di prendere una tisana particolare, decisi allora di entrare. Non avevo molte speranze, il giorno prima avevo già girato per 4 supermercati senza successo e invece, incredibilmente, l’anziana signora, che sedeva dietro al banco, estrasse da un cassetto proprio quello che mi serviva. Lo acquistai e uscii pensando a quante cose si possono trovare se solo si riuscisse a guardare.
Camminavo fischiettando, con l’orecchio teso ad ascoltare i discorsi delle persone per strada, quando un fischio mi riportò in me. Era il rumore del fischietto del mio allenatore quando ci soffiava dentro per dare il via alla corsa di riscaldamento intorno al campo. Ero già arrivato al campo! Con un filo di timore ed esitando per qualche secondo, guardai l’orologio. Ero uscito di casa alle 17:00 e il display del mio orologio segnava le 17 e 18. Meno di venti minuti per arrivare ad allenamento, senza dover prendere la macchina, ed ero perfino riuscito a trovare quella tisana.
La sera tornai a casa quasi sconvolto, potrà sembrare eccessivo, ma la sensazione era proprio quella. Ripensai alle mie giornate fino a quel momento, al tempo che ogni singolo giorno della mia vita avevo trascorso chiuso in auto, bloccato nel traffico per arrivare all’università, ad allenamento o anche solo in un negozio. Quel giorno invece ero arrivato alla sera andando negli stessi posti in cui andavo sempre mettendoci però la metà del tempo e, soprattutto, lo avevo fatto senza stressarmi a causa degli ingorghi nelle strade, concedendomi il piccolo ma grande lusso di trasformare i miei spostamenti in un’occasione per scoprire posti nuovi e in momenti da intimi in cui prendersi il tempo per leggere una rivista o anche solo per un semplice caffè.
La cosa che non riuscivo a digerire, di cui proprio non mi capacitavo, è che fosse così dannatamente facile, bastava farlo! Nulla di più e nulla di meno.
Era sufficiente decidere di lasciare le chiavi della macchina in casa ed uscire a piedi. Utilizzando solo le mie gambe e qualche mezzo pubblico per raggiungere le diverse mete della mia giornata, trasformando il tragitto in un’occasione per conoscere e non in un calvario colmo di stress e sofferenza. Non riuscivo a credere che la soluzione dei miei problemi fosse sempre stata li, nelle mie gambe e, io, non avessi mai avuto la forza di vederlo.
I giorni successivi ripresi tutte le mie abitudini quotidiane, dall’università al lavoro, passando per gli allenamenti di Rugby. Ma tutto era cambiato adesso, la macchina in settimana non la usavo più, facevo tutto spostandomi a piedi e utilizzando i mezzi per i trasferimenti più lunghi. Avevo acquistato un bellissimo zainetto al posto della borsa tracolla per l’università, decisamente più comodo per camminare, e ogni giorno mi muovevo libero tra le strade e i quartieri della città.
I primi mesi furono tra i più intensi della mia vita, scoprii intere vie di Roma che non avevo mai visto, avevo trovato piccoli cinema, dei teatri, dei locali in cui andare a bere qualcosa con gli amici, di cui nessuno mi aveva mai parlato. Anche la mia vita sociale era cambiata, incontravo molte persone, alcune più volte alla settimana.
Non solo negozianti ma anche altri studenti che si spostavano a piedi, avevo avuto modo di conoscere molte persone sulle strade che “camminavo” ogni giorno e avevo preso l’abitudine di fare l’ultimo tratto di strada prima dell’università con una ragazza che incontravo ogni mattina sulla strada dell’università. Non avevo più avuto attacchi di panico, l’ansia era diminuita ed ero anche riuscito a perdere qualche chiletto di troppo che nemmeno il rugby riusciva a buttare giù. Qualche mese più tardi avevo deciso di investire qualche mio risparmio per un citybike, che mi consentiva di non prendere quasi più nemmeno la metropolitana.
Insomma, da quando avevo iniziato a camminare, ero un uomo nuovo. Ero tanto entusiasta che riuscii perfino a trasmettere questa abitudine ai miei genitori, impresa difficile, specie per mio padre, che non aveva nessuna attitudine per lo sport, ma era un uomo molto curioso. Proprio questa fu la leva del mio successo, quando gli feci scoprire quel che si poteva imparare camminando per la città, anche lui iniziò ad usare un po di più le sue gambe.
Tanto che il giorno prima della mia laurea fu perfino costretto ad acquistare un nuovo abito perché, passo dopo passo, negli ultimi due anni della mia università aveva perso circa 16 chili, che si portava dietro da ormai molti anni, e i suoi abiti gli stavano ormai decisamente larghi. Tra le varie cose che aveva perso strada facendo c’erano anche il colesterolo e i trigliceridi, che erano tornati normali dopo tanti anni di cure.
Lo ricordo bene ancora oggi quel giorno. Quando riguardo le vecchie foto di quella giornata rivedo mio padre in uno stato di forma e di salute che non aveva più da anni, era ringiovanito. A fianco a lui quella ragazza con cui passeggiavo ogni mattina fino all’università che, nel frattempo, era diventata la mia ragazza. Un’immagine chiara di come la mia vita sia stata cambiata da un gesto semplice come quello del camminare, mi è servito solo trovare il coraggio di farlo.
Vi posso solo dire che ogni giorno è un giorno buono per iniziare a camminare!
Ora scusate, ma non posso continuare a scrivere, perché devo accompagnare i miei bimbi a scuola e stamattina tocca a me guidare il pedibus! No.. non si tratta di un nuovo tipo di autobus! Si tratta di un nuovo tipo di trasporto, sono i bambini che si portano a scuola da soli, con le loro gambe, camminando tutti insieme con alcuni genitori verso la scuola.
di Massimo Clementi (da trekking.it)