Economia e dimensioni esistenziali
Il neoliberismo ha creato una società ingiusta ed eticamente inaccettabile
di Umberto Berardo
28 dicembre 2016
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C’è una crisi economica in atto dal 2007 in tutto il mondo ed alcuni Paesi ancora non riescono ad uscirne.
Sarebbe stata innescata dai cosiddetti subprime, ma in realtà è il frutto di un’economia finanziaria che non sappiamo se sia più corretto definire amorale o immorale.
Quando, legata al sistema del credito, la finanza è nata con il risveglio europeo dopo il Feudalesimo, già si sono verificati i primi contrasti nella concettualizzazione della sua strutturazione tra Cistercensi, Francescani e Domenicani, anche se nel mondo cristiano in generale essa è stata associata in ogni caso al bene comune.
Le banche in seguito, spostando sempre più la loro attività dal risparmio alle attività speculative, ne hanno fatto uno strumento di arricchimento per pochi soprattutto dopo la prima rivoluzione industriale con la nascita appunto dell’economia finanziaria e della globalizzazione.
Il capitalismo neoliberista, non più controllato dagli Stati o da organismi sovranazionali, ha assunto come unico principio la massimizzazione del profitto ed allora l’avidità e la ricerca spasmodica dell’arricchimento con ogni mezzo hanno sostituito i concetti della solidarietà e della condivisione che soprattutto il Cristianesimo dei primi secoli ed il pensiero comunista avevano cercato di introdurre nella storia.
Come giustamente sostiene l’economista Stefano Zamagni, si è scelto il codice dell’efficienza per la retribuzione rinunciando a qualsiasi forma di redistribuzione della ricchezza che invece si è sempre più concentrata nelle mani di un ristretto numero di persone anche grazie ai meccanismi borsistici orientati unicamente ad operazioni puramente speculative e lontane da ogni principio di etica.
La digitalizzazione dell’economia ha dato maggiore impulso al fenomeno e le banche commerciali sono diventate strumento di vendita dei noti prodotti “derivati” suggeriti a clienti ingenui o sprovveduti che spesso sono stati portati al disastro economico.
Gli istituti di credito, finiti nello stesso tritacarne dei meccanismi innescati dal neoliberismo selvaggio, oggi vivono crisi di liquidità dovute al mancato rientro di prestiti non onorati e sono sull’orlo del fallimento che dovrebbe essere impedito dal cosiddetto Bail-in o dall’intervento dello Stato e quindi in ogni caso dai risparmiatori o dai contribuenti.
Le condizioni praticate ai correntisti o per i prestiti sono sicuramente sfavorevolissime per l’utenza; pertanto, se le banche vivono crisi così pesanti, ci saranno pure delle ragioni e delle responsabilità.
Fin qui, sul piano del controllo, della deterrenza e delle sanzioni, non abbiamo visto venire alla luce con estrema chiarezza né le une né le altre.
Se un istituto di credito ricorre in poco tempo a tre richieste di aumento di capitale non è normale che la Consob s’interroghi sulla correttezza del suo operato e che provi ad entrare negli automatismi che regolano il commercio dei titoli e dei prestiti?
Salvare le banche, allora, è un atto dovuto soprattutto ai correntisti ed a chi vi lavora, ma ci sarà poi qualcuno che le preserverà dalla possibile corruzione ed innescherà un controllo sul loro operato?
La verità è che anch’esse sono state strumento di polarizzazione della ricchezza e sono parte di un sistema economico e finanziario che necessariamente deve avere una regolamentazione e strumenti costanti di un controllo da parte delle istituzioni pubbliche spesso governate da una politica diventata raramente “altra” ed “indipendente” rispetto al mondo finanziario.
Come documentato da autorevoli economisti, le teorie dell’efficienza e dell’elitarismo hanno consentito che un alto dirigente negli Stati Uniti nel 1970 guadagnasse 25 volte più di un lavoratore, che nel 1996 il rapporto passasse a 210 e nel 2000 a 500.
È quella denunciata negli anni settanta come ” la giungla retributiva”, che ha prodotto, nonostante un aumento complessivo della ricchezza, una diseguaglianza sempre più accentuata e che purtroppo nessun sistema politico riesce non dico ad eliminare, ma neppure a scalfire.
Se il principio è l’arricchimento ed il profitto, è chiaro anche che mai alcuna impresa sarà vista come un’associazione per il bene comune, ma sarà solo merce e profitto.
Tra l’altro c’é un neoliberismo convinto che l’imprenditorialità non debba avere alcun vincolo dallo Stato, mentre ne pretende sostegno, sgravi fiscali e perfino finanziamenti.
Davvero comodo un capitalismo svincolato da regole e sorretto da fondi pubblici!
Quale può essere allora il futuro?
Ponendo al centro dell’economia lo sviluppo solo come crescita illimitata e massimizzazione del profitto, il neoliberismo ha creato una società ingiusta ed eticamente inaccettabile nella quale aumenta in modo impressionante la distanza tra benestanti e diseredati e tra Paesi ricchi e quelli poveri.
Uscire da questo pantano, che tra l’altro genera ora fenomeni pericolosi come guerre, terrorismo e movimenti migratori legati a viaggi rischiosissimi, significa ricostruire anche in economia un’immagine antropologica dell’essere umano che necessariamente, come sostiene sempre Zamagni, dev’essere legata al concetto di solidarietà e noi aggiungeremmo di fraternità.
In immediato allora occorre ricostruire un welfare che negli ultimi anni è stato sempre più destrutturato lavorando per costruire un reddito garantito collegato in ogni caso con il diritto al lavoro e la difesa dei beni comuni.
Necessita ancora dare regole al mercato del lavoro per garantire continuità ed equità a chi è impegnato nella produzione.
È necessario infine immaginare un’economia civile o sociale sostenibile in grado di porre a suo fondamento un umanesimo integrale in cui la persona sia vista non come un mezzo, ma in una concezione della vita legata sempre più a beni di carattere culturale, relazionale ed immateriale capaci di costruire per tutti libertà, eguaglianza di opportunità e giustizia sociale.
Potrebbe sembrare utopia allo stato puro se esempi di tali forme di gestione largamente partecipata del processo economico non fossero stati già creati in talune realtà industriali in Europa e soprattutto in Paesi sottosviluppati con l’esperienza del microcredito.
di Umberto Berardo