• 10/18/2016

“Restare nel gorgo”

Il Partito Democratico resta l’unico luogo di un possibile cambiamento nelle differenze

di Micaela Fanelli

21 febbraio 2017

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Oggi penso a una delle grandi figure della sinistra novecentesca: quel Pietro Ingrao che nel 1993, dopo la bolognina e la svolta di Occhetto (che non condivideva), decise comunque di “restare nel gorgo”, perché il neonato Pds era l’unico luogo di un possibile cambiamento di un’Italia devastata da Tangentopoli. Anche Cuperlo ha citato ieri quel ‘gorgo’. Come quello che dà il titolo ad un racconto dello scrittore Beppe Fenoglio, dove un bimbo di soli nove anni intuisce la disperazione del padre di non poter più sfamare i suoi figli e la sua volontà di farla finita buttandosi nelle acque del torrente Belbo, senza però dare seguito alle proprie intenzioni, tornando poi sulla via di casa insieme al figlio. Camminando adagio, tenendogli sulla spalla la mano libera dal forcone, accarezzando dolcemente “tra i due nervi che abbiamo dietro il collo”.

E allora, anche noi dobbiamo avere la forza e il coraggio di incamminarci nuovamente lungo un tragitto di speranza comune, perché allora come oggi, il Partito Democratico resta l’unico luogo di un possibile cambiamento. Nelle differenze, dentro. Per questo, domani sarò in Direzione Nazionale ed il prossimo 24 marzo fisseremo l’assemblea regionale del Partito Democratico, dove arriveremo dopo essere ripartiti “dal basso”, andando sul territorio – lunedì a Campobasso – ad ascoltare la nostra gente, i nostri iscritti, coloro che ci criticano, ma che non vogliono finire travolti dal “gorgo”, bensì ritrovare la strada comune.

E di questo parlerò questa sera a Fuoco Incrociato, alle ore 21 su Teleregione Molise.

“Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo.

In quel tempo stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a far la guerra d’Abissinia. Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente; chiamammo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne quello di Feisoglio e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della loro scienza.

Deperivamo anche noi accanto a lei, e la sua febbre ci scaldava come un braciere, quando ci chinavamo su di lei per cercar di capire a che punto era. Fra quello che soffriva e le spese, nostra madre arrivò a comandarci di pregare il Signore che ce la portasse via; ma lei durava, solo piú grossa un dito e lamentandosi sempre come un’agnella.

Come se non bastasse, si aggiunse il batticuore per Eugenio, dal quale non ricevevamo piú posta. Tutte le mattine correvo in canonica a farmi dire dal parroco cosa c’era sulla prima pagina del giornale, e tornavo a casa a raccontare che erano in corso coi mori le piú grandi battaglie. Cominciammo a recitare il rosario anche per lui, tutte le sere, con la testa tra le mani.

Uno di quei giorni, nostro padre si leva da tavola e dice con la sua voce ordinaria:

– Scendo fino al Belbo, a voltare quelle fascine che m’hanno preso la pioggia. –

Non so come, ma io capii a volo che andava a finirsi nell’acqua, e mi atterrì, guardando in giro, vedere che nessun altro aveva avuto la mia ispirazione: nemmeno nostra madre fece il più piccolo gesto, seguitò a pulire il paiolo, e sì che conosceva il suo uomo come se fosse il pri¬mo dei suoi figli. Eppure non diedi l’allarme, come se sapessi che lo avrei salvato solo se facessi tutto da me.

Gli uscii dietro che lui, pigliato il forcone, cominciava a scender dall’aia. Mi misi per il suo sentiero, ma mi staccava a solo camminare, e così dovetti buttarmi a una mezza corsa. Mi sentí, mi riconobbe dal peso del passo, ma non si voltò e mi disse di tornarmene a casa, con una voce rauca ma di scarso comando. Non gli ubbidii. Allora, venti passi piú sotto, mi ripeté di tornarmene su ma stavolta con la voce che metteva coi miei fratelli piú grandi, quando si azzardavano a contraddirlo in qualcosa .

Mi spaventò, ma non mi fermai. Lui si lasciò raggiungere e quando mi sentí al suo fianco con una mano mi fece girare come una trottola e poi mi sparò un calcio dietro che mi sbatté tre passi su.

Mi rialzai e di nuovo dietro. Ma adesso ero piú sicuro che ce l’avrei fatta ad impedirglielo, e mi venne da urlare verso casa, ma ne eravamo già troppo lontani. Avessi visto un uomo lí intorno, mi sarei lasciato andare a pregarlo: “Voi, per carità, parlate a mio padre. Ditegli qualcosa”, ma non vedevo una testa d’uomo, in tutta la conca.

Eravamo quasi in piano, dove si sentiva già chiara l’acqua di Belbo correre tra le canne. A questo punto lui si voltò, si scese il forcone dalla spalla e cominciò a mostrarmelo come si fa con le bestie feroci. Non posso dire che faccia avesse, perché guardavo solo i denti del forcone che mi ballavano a tre dita dal petto, e sopratutto perché non mi sentivo di alzargli gli occhi in faccia, per la vergogna di vederlo come nudo.

Ma arrivammo insieme alle nostre fascine. Il gorgo era subito lí, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle d’un serpente. Mio padre, la sua testa era protesa, i suoi occhi puntati al gorgo ed allora allargai il petto per urlare. In quell’attimo lui ficcò il forcone nella prima fascina. E le voltò tutte, ma con una lentezza infinita, come se sognasse. E quando l’ebbe voltate tutte tirò un sospiro tale che si allungò d’un palmo. Poi si girò. Stavolta lo guardai, e gli vidi la faccia che aveva tutte le volte che rincasava da una festa con una sbronza fina.

Tornammo su, con lui che si sforzava di salire adagio, per non perdermi d’un passo, e mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone ed ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo”.

(Beppe Fenoglio. Il Gorgo, 1911)

di Micaela Fanelli

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