Addio, mio Capitano!
In ricordo di Mons. Orlando Di Tella, che oggi avrebbe compiuto 86 anni, pubblico un mio racconto del 2016, anno della sua dipartita, a lui dedicato e pubblicato sul mio primo libro “L’ombra dei ricordi”
di Annibale Di Sarro – fb
14 maggio 2020
Il passo fermo, lo sguardo nobile, la mano robusta. Quella mano tesa sulla mia testa appena china per ricevere la benedizione, il conforto; quella mano che prendeva la mia per darmi coraggio. Il sorriso spontaneo, la risata genuina. Quel sorriso che, solo a vederlo, mi faceva star meglio. E quelle parole, sì, le parole. Chi mai potrà dimenticarle? Quelle parole tiepide che potevano sciogliere ogni ghiacciaio formatosi dentro il mio cuore; quelle parole che divenivano come un balsamo per la mia anima inquieta; quelle parole di affetto, di incoraggiamento, di sollievo, dette sempre con il tono giusto e nell’esatto momento. Anche le parole di rimprovero, gli affettuosi scappellotti dietro al collo, sempre seguiti da un sincero sorriso. Poi le parole non dette, quelle solo trasmesse dal suo sguardo, quelle che più mi sono entrate dentro, quelle che hanno penetrato la mia anima e il mio cuore fino in fondo, fino a scavarsi un angolino in cui restare. Quelle che mi hanno dato la forza per affrontare i momenti più difficili, quelle che sono state un arcobaleno nelle tenebre, quelle che mi hanno dato la speranza, la luce.
Per me è stato un faro nella notte, e la sua fede, il credo che mi ha trasmesso, lasciano in me la speranza che continuerà a essere sempre lui, da lassù, il lume che seguiterà a fare luce sul mio sentiero, quando brancolerò nel buio. Lo so che mi guiderà, come so che mi sta guardando; so anche che forse starà ridendo a crepapelle, perché ha già preso la mia mano un’altra volta per accompagnarmi lungo tutto il tragitto che dovrò percorrere. Ma è troppo grande il dolore che mi pervade in ogni momento. Mi devasta e mi svuota il pensiero che non ci sarà più l’occasione per starcene a chiacchierare per ore dinanzi al focolare che lui tanto amava; non potremo più passare le serate d’inverno a discorrere di filosofia, di storia e di letteratura con il sottofondo della legna scoppiettante, e inebriati dall’aroma del caffe bollente; non potrò più gustare il thè in sua compagnia, né più mangerò con lui alla stessa tavola. Mai più potrò stringermi tra le sue braccia forti e, quando il pendolo sul camino suonerà i nove rintocchi, non sentirò più la porta aprirsi e non lo vedrò mai più vestire quella sua lunga toga nera e, affacciandosi dall’angolo della cucina, soffermarsi a osservarmi allegramente. La sua poltroncina di vimini resterà vuota, come la mia anima, perché con lui è andata via una parte di me.
Sursum corda, mi diceva sempre, ma è troppo difficile fare mie queste sue parole proprio adesso, proprio ora che non c’è più lui a pronunciarle, ora che non c’è più lui a darmi conforto. Non c’è più lui a travolgermi come fosse un uragano, a scuotermi, a trascinarmi con il suo carisma e con la sua forza che potrei paragonare, forse, all’esplosione di una stella. E adesso è proprio tra le stelle, nei colori del cielo, nella luna e nel sole. E nelle nuvole, nella pioggia, e lo troverò anche nella neve, in quella neve che non riusciva a fermarlo e a trattenerlo in casa neanche negli inverni più gelidi. Perché lui non ci riusciva a stare fermo in un posto, non ci riusciva a stare senza passare con noi anche solo mezz’ora del suo tempo: nonostante il ghiaccio, nonostante il freddo, nonostante tutto. E aveva tante cosa da fare. Un ammalato, una persona anziana, qualcuno con un problema da risolvere, e lui correva, sempre, tra un Miserere e una estrema unzione. E ha trascurato se stesso: non ha mai pensato che la sua salute avrebbe dovuto metterla al primo posto, non ha pensato a prendersi cura della sua vita e se ne è andato via in silenzio.
Adesso la sua assenza, la mancanza, stanno provocando un tremendo dolore nel mio cuore e in quello di chi, come me, ha avuto la fortuna di vivere con lui così profondamente, così intensamente. Io non posso fare a meno di piangere, anche se so che non dovrei. Devo lasciare che la sua anima arrivi serena in Paradiso, devo lasciare che il suo spirito si elevi in alto, abbandonando per sempre questo luogo mortale, per raggiungere l’eterno. Ma con lui se n’è andata la primavera e tutti quei profumi, i sapori, i colori che facevano di un fiore appassito il più grazioso di ogni giardino.
Addio, caro MONS! Sei stato per me guida, amico, mentore, sei stato per me forza, speranza. Sei stato per me ancora, appiglio, il porto sicuro in cui poter sempre approdare. Sei stato maestro di vita, maestro di fede, il mio punto fermo, il mio solido attracco.
Vai, mio Capitano! È giunto il momento di salutarti, di lasciarti andare sereno. Vai, sali e, ti prego, non lasciarla mai questa mia mano inerme, stringila forte e accompagnami nel mio cammino come hai fatto sempre.
Vai, mio Capitano! Ti lascio andare a ricevere il premio tanto atteso; ti lascio vivere il meglio dopo questa parentesi mortale in questa piccola scheggia di universo. Risali la tua scala verso il Paradiso, ma ogni tanto, ti prego, voltati indietro a guardarmi: io sarò li, con il mio sguardo rivolto verso di te, con i miei occhi dentro i tuoi, con il mio braccio teso ad attendere che tu prenda la mia mano e che mi porga un sorriso. Ma non fermarti! Sali! Quello è il tuo posto, in alto, dove la tua anima potrà danzare con le stelle. E anche se mi vedrai piangere, non darti pena per me.
Addio, mio Capitano!
di Annibale Di Sarro – fb