• 12/16/2019

La grande Siberia

Siamo con Francesco Mignogna che ci racconterà in breve la storia della sua esperienza

di Francesco Montano (da ilbenecomune.it)

16 dicembre 2019

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Francesco Mignogna, nato a Riccia nel 1918, è stato fatto prigioniero dai russi. Ascoltiamo la sua storia entrando nelle vicissitudini e nel dramma che hanno caratterizzato gli anni dell’armistizio di Cassibile.

Sono nato a Riccia il 5 aprile 1918, nello stesso anno mia madre e mia sorella sono morte di spagnola quando io avevo solo cinque mesi (l’influenza spagnola, altrimenti conosciuta come la grande influenza o epidemia spagnola, fu una pandemia influenzale, insolitamente mortale, che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo. La letalità le valse la definizione di più grave forma di pandemia della storia dell’umanità: ha infatti causato più vittime della terribile peste nera del XIV secolo. Ndr).

Quando sono stato arruolato era il 1938, (nel 79° reggimento Fanteria); ci hanno radunato a Verona, lì siamo stati poco, poi siamo andati in Francia e da lì siamo andati in Jugoslavia. Ci si spostava un po’ a piedi, un po’ con i camion e con i treni. In Jugoslavia, durante gli scontri qualcuno mi ha sparato e invece di prendere me ha preso la nostra bandiera.

Mussolini ha dichiarato guerra alla Russia perché aveva l’appoggio della Romania; abbiamo avuto l’ordine di partire verso la Russia; fummo stipati su treni merci e affrontammo un viaggio lunghissimo in condizioni di estremo disagio (partito per la Russia il 15 luglio 1941 col IX battaglione facente parte del Corpo di Spedizione Italiano, poi chiamato ARMIR. Ndr). Quando siamo arrivati in Russia sentivamo i botti della guerra, eravamo ancora alleati dei tedeschi (che però stavano in un altro posto), c’erano anche gli aerei russi che ci mitragliavano, cercavamo di coprirci per non farci vedere, abbiamo combattuto un po’ ma i russi erano molti più di noi; in dotazione avevamo solo dei fucili, baionette e pugnaletti, poca roba.

Nella marcia, in terra russa: abbiamo incontrato quasi tutti civili che abbiamo rastrellato e fatto prigionieri, era gente inerme e ignara di quello che accadeva. Ci lasciavamo dietro centinaia di caduti e nella disperazione cercavamo di recuperare qualsiasi cosa: documenti, piastrine, orologi… (tanto avremmo comunque perso tutto andando incontro allo stesso destino). Tra i civili c’era una donna russa che aveva il marito e il figlio prigionieri degli italiani e io mi sono prodigato per scriverle delle lettere per i suoi cari, in segno di gratitudine lei, durante la distribuzione del rancio, mi offriva qualche boccone in più.

Un giorno terribile, di combattimenti, i russi ebbero la meglio e avanzando da tutte le direzioni ci accerchiarono. I carrarmati da terra e gli aerei dall’alto, ci disorientarono e ci spinsero tutti verso quella che sarà chiamata: la Valle della Morte (La battaglia di Arbuzovka ebbe luogo il 21-25 dicembre 1942, fu una delle fasi più drammatiche e sanguinose della seconda battaglia difensiva del Don. Una parte dell’ARMIR italiano, costretto ad una disastrosa ritirata dopo il crollo del fronte sul Don a seguito della potente offensiva dell’Armata Rossa iniziata il 16 dicembre 1942, venne accerchiato ad Arbuzovka dalle truppe sovietiche; tre divisioni italiane e alcuni reparti tedeschi vennero distrutti. Per le perdite e la drammaticità degli scontri, la conca di Arbuzovka divenne nel ricordo dei superstiti italiani la “Valle della Morte”. Ndr). La disperazione era tanta: il freddo e il sopraggiungere dei carrarmati tra urla strazianti, (che rimbombano ancora nelle mie orecchie), non ci davano via di scampo.

Ho visto la morte, sono sopravvissuto a quella carneficina. Con i superstiti sono stato fatto prigioniero, avevo gli arti congelati, mi hanno messo nell’acqua calda, hanno dovuto tagliare la divisa perché altrimenti veniva via tutto. I russi ci dicevano che la nostra mamma era Mussolini, sono stato quasi sei anni prigioniero, mangiavamo solo avanzi di barbabietole, insalata, patate, tutte insieme in una brodaglia.

A seguito del congelamento il piede andò in cancrena e stremato dalla fame e dalla febbre persi tutte le forze e rischiai di essere abbandonato dai russi che mi ritenevano senza speranze. Quando mi tolsero lo scarpone mezzo piede vi rimase dentro. Fu chiamato un soldato russo che si occupava dei cavalli che con una tenaglia recise di netto i lembi di carne e mi fasciarono alla meglio. Fu la pietà di una madre russa che mi nutrì imboccandomi con quel po’ che aveva giorno per giorno fino a che non recuperai un po’ di forze; senza la sua generosità sarei certamente morto.

C’era anche un mio commilitone di nome Bruno che mi voleva molto bene: un ragazzo grosso e forte che mi aiutava e mi puliva il piede come poteva; nel campo non c’erano medici, c’era solo qualche studente di medicina. Oltre alla ferita al piede portavo una scheggia di granata nella gamba, per cui potevo muovermi solo con l’aiuto di una rudimentale stampella e con l’aiuto di qualche anima buona. I russi dalla Valle della Morte ci hanno portato lontano, dopo centinaia di chilometri siamo arrivati nella grande Siberia; lì avevano i ricoveri sotto la neve, usciva soltanto un tubo per l’aria e avevano stufe a carbone e si vedeva il fumo nero.

Eravamo italiani, tedeschi, rumeni e ungheresi; siamo sopravvissuti in mezzo alla neve diversi anni, ci facevano costruire le fognature, altro non ci era dato di sapere, ci davano ordini e noi dovevamo solo ubbidire. La guerra è finita quando i governi si sono messi d’accordo, ma da noi non arrivavano notizie, eravamo all’oscuro di tutto. Un giorno ci dissero che potevamo fare quello che volevamo; io non potevo camminare ero molto magro, pesavo circa trenta chili. Timidamente, a fatica, ci incamminammo nella neve senza avere una direzione precisa, per rientrare ci sono voluti sette mesi.

Non si sentiva più sparare, ma la guerra, nel mondo, non era finita. Abbiamo, con mezzi di fortuna, attraversato il Brennero e finalmente siamo arrivati in Italia. Da Merano (BZ) siamo andati vicino Verona dove fummo alloggiati e censiti. Lì c’erano tutti quelli che tornavano quindi i parenti avevano messo centinaia di foto alle pareti perché cercavano notizie dei soldati dispersi e magari chi tornava, come me, poteva sapere qualcosa. Gli italiani facevano scrivere ai prigionieri, invece i russi no!

Ricordo che quando sono arrivato in paese (a Riccia) mi sono fermato davanti al Santuario della Madonna del Carmine, (all’ingresso del paese. Ndr), lì ho incontrato un signore che mi aveva conosciuto prima che partissi, era andato ad ammazzare il maiale e teneva il Biscotto con i Cicoli nella tasca (i cicoli, in italiano ciccioli, non sono altro che il risultato della bollitura delle parti grasse del maiale. Ndr), me lo ha dato e mi ha detto di non preoccuparmi perché i miei parenti stavano bene e che sarebbe corso ad avvisarli. Cominciò a fare voci per il paese dicendo che ero arrivato, che ero tornato ed è così che è arrivata la voce a mio padre!

Mio padre incredulo rispose che io ero disperso e si convinse solo quando mi vide, mio fratello più piccolo, che mi era venuto incontro, mi ha riconosciuto subito nonostante fossi molto cambiato; mi diedero subito da mangiare della salsiccia vicino al fuoco. Mio padre, per la contentezza, stava quasi per cadere nel camino! Così è finita l’avventura.

di Francesco Montano (da ilbenecomune.it)

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