Gilda Pansiotti
La pittrice milanese diventata negli anni trenta una presenza familiare tra i braccianti di Duronia
di Rita Frattolillo
6 ottobre 2020
L’uomo smise di affastellare la paglia da ammucchiare nella grossa meta (covone) e si appoggiò al forcone asciugandosi la fronte imperlata di sudore col dorso della mano. Strinse gli occhi per guardare il sole che saettava implacabile. La campagna intorno echeggiava delle voci dei lavoranti, dei rumori dell’opera.
Poco lontano la signora milanese, che ormai era diventata una presenza familiare per i braccianti di Duronia, stava da ore ferma come una statua davanti al cavalletto a riprendere la scena degli spagliatori armeggiando con colori e pennelli.
Una grande paglia fiorentina la riparava dal sole.
Quando, tempo prima, avevano visto la “forestiera” aggirarsi per le vie del paese con quell’aria di città e quella strana gonna tagliata come un pantalone i contadini si erano scambiata un’occhiata interrogativa chiedendosi sorpresi: Ma chia è cchessa? (ma chi è costei?).
Chéssa si ostinava ad apostrofare le capre che la intralciavano Oh!Oh! zapetté!; ciò nonostante si era guadagnata il loro rispetto da quando avevano visto che era capace di “copiare” tale quale, sulla tela, i momenti delle loro faticose giornate campestri.
La prima volta che, superando la loro naturale ritrosia, si erano decisi ad avvicinarsi al cavalletto, erano rimasti proprio ammirati:
sembrava una magara (fattucchiera), per come impastava le vernici! Ma come faceva a dare forma alle mucche alla trebbia con “semplici” macchie di colore? Erano così…vere, che sembravano vive!
La prima volta che si era avvicinata per invitarli a casa sua a vedere i quadri finiti, i braccianti erano rimasti muti per la sorpresa, non se lo aspettavano e non sapevano che dire, ma poi si erano fatti coraggio ed erano andati, in punta di piedi e con il cappello in mano. Davanti ai dolci declivi del Basso Molise, agli interni delle loro povere case contadine che guardavano con occhi nuovi perché erano resi con tale immediatezza da far venire la voglia di toccarli, erano rimasti a lungo in silenzio.
E poi non mancavano le scene rurali, né i ritratti delle giovani contadine dai grandi occhi scuri.
Davanti alle figure femminili, si soffermavano più volentieri perché riconoscevano quei volti, e se ne ripetevano i nomi a bassa voce; ma non si facevano proprio capaci: come aveva fatto, quella signora, a trasferire sulla tela l’espressione degli occhi, il colore dei capelli, di Concettina, di Teresa?
Sia come sia, nel 1938 molti di quei dipinti sparirono dalla loro vista e partirono, ben impacchettati, alla volta di Berlino, per essere esposti alla Galleria Gurlitt e alla “Casa degli italiani”. Forse la prima a sorprendersi dell’interesse del pubblico e della risonanza che ebbe sulla stampa tedesca quella mostra fu proprio Gilda.
Per comprenderne pienamente le ragioni, dobbiamo riandare allo spirito del tempo, a quel momento storico-culturale.
La pittura di Gilda rispondeva, consciamente o involontariamente, ad una ispirazione nazional- popolare molto in voga che celebrava la sacralità del lavoro della terra ed elevava la dignità della condizione contadina.
La fusione dell’iconografia fascista con il realismo socialista rendeva quell’arte gradita sia al pubblico che ai gerarchi del regime.
E non sfuggiva, naturalmente, l’evidente padronanza tecnica e la sottile capacità di indagine psicologica dei soggetti rappresentati, specialmente se erano femminili.
Gilda, che preferiva procedere per grosse pennellate, quando si trattava di ritrarre donne molisane nel loro costume, indulgeva a un descrittivismo quasi documentale che sfiorava la miniatura, tanto era precisa la rappresentazione dei monili e dei merletti muliebri.
Eppure quella signora di ottima famiglia fino alla soglia dei quarant’anni non aveva neanche lontanamente immaginato che avrebbe calpestato la terra di Molise e che quel mondo arcaico sarebbe diventato fonte di schietta ispirazione.
Proprio nulla lo lasciava prevedere, per come si era orientata la sua esistenza.
Nata a Milano il 16 febbraio 1891, Gilda Pansiotti è figlia di una signora colta, discendente dei nobili Gonzaga, che l’avvia presto verso l’arte, e di un possidente terriero piemontese che le inculca l’amore per la vita agreste. Un binomio davvero perfetto malgrado l’apparente dicotomia!
Ad appena tredici anni entra all’Accademia di Brera, frequentandola con profitto e formandosi alla scuola di Alciati e Mentessi.
Nel primo decennio del Novecento, la città lombarda vedeva tramontare la scapigliatura a vantaggio del futurismo.
Gilda, alla ricerca di un suo credo artistico, si avvicina ad entrambi i movimenti, entrando in contatto con i maggiori esponenti dell’ambiente.
Dopo l’esordio al Premio Canonica, nel 1913, ad appena ventidue anni, Gilda è presa nel vortice delle esposizioni, partecipando sempre e dovunque alle competizioni artistiche.
Conosce il triestino Glauco Cambon, raffinato uomo di cultura e stimato ritrattista, e lo sposa. Con lui condivide l’esaltazione per la pittura, che in questa fase del suo linguaggio artistico si avvicina all’ “Ultima Scapigliatura”.
A poco a poco, matura una concezione dell’arte come autentica espressione individuale.
Il segno vigoroso, la sicurezza dell’impianto, i colori squillanti dei suoi quadri incontrano sempre più il favore della critica, e – segno inequivocabile di successo – importanti enti pubblici cominciano ad acquistare le sue opere.
Al 1920 risale la prima apparizione alla Biennale di Venezia. L’anno successivo nasce il figlio Glauco, e, poco dopo, la famiglia è allietata dalla nascita di Gerardo.
In quegli anni, e fino al 1930, è la Brianza, particolarmente l’atmosfera serena del lago di Pusiano, ad ispirare la tavolozza dell’artista. Sulle sue tele compaiono quindi scene lacustri, nature morte, fiori, ritratti, tra cui quello del figlioletto Glauco (1921-1988), sensibile all’arte come la madre, e che più tardi sarà apprezzato critico letterario e d’arte presso l’Università del Connecticut
Malgrado gli impegni familiari i due artisti riescono a organizzare mostre a Venezia, Trieste, nel Trentino.
Seguono una parentesi a Roma e una in Ciociaria, prima di rientrare a Milano; poi di nuovo in Brianza.
Appartengono a questo periodo quadri notevoli come La Cenerentola e il Presepio, le mostre milanesi alla Galleria “Pesaro” (1927 e 1936) e alla “Casa di artisti” (1932), nonché i ritratti di famiglia
L’incessante e pregevole attività di Gilda non passa inosservata a lungo.
Infatti l’artista riceve la prestigiosa nomina di socia onoraria dell’Accademia di Brera e un’ambita medag1ia d’oro.
Tutto sembra andare per il meglio, e la vita scorre su binari sicuri verso un futuro denso di promesse, quando nel 1930, ad appena trentanove anni, Gilda perde in poco tempo il marito ed entrambi i genitori.
Si ritrova così, all’improvviso, senza più affetti, senza certezze.
Sola con i due figli da tirare su, Glauco e Gerardo.
I mesi passano lenti, in tetra solitudine.
A sollevarla dalla cupa tristezza che la invade, nella sua esistenza si affaccia un giudice molisano.
È Tomasino D’Amico, nato a Duronia nel 1892.
Dopo aver svolto l’incarico di pretore, una volta giunto a Milano, fonda, con grande determinazione, il Tribunale dei Minorenni. Appassionato di poesia e d’arte, entra nei circoli più esclusivi della città, divenendo presto protagonista della vita culturale meneghina. Collabora con riviste e giornali, scrive poesie, pubblica libri sui personaggi più in vista dell’epoca, tra cui Arturo Toscanini, Francesco Cilea, Ada Negri, Eleonora Duse, padre Agostino Gemelli.
Raffinato intenditore di musica lirica, rivolge i suoi interessi alla scoperta delle affinità di linguaggio tra musica e pittura.
È proprio nel corso di una mostra che ha modo di conoscere la pittrice.
Quando si rivedono, lei è vedova.
La grande affinità culturale li avvicina, tra i due nasce qualcosa, decidono di sposarsi (1932).
Tomasino si mostra lieto di assecondare Gilda, che riprende a vivere, anche grazie all’energia che attinge dalla sua arte:
“È l’energia dell’arte che mette questa donna in grado di continuare a vivere”, ha affermato il figlio dell’artista, Glauco.
Nei mesi estivi, quando Tomasino si può allontanare dagli impegni milanesi, la coppia si trasferisce a Duronia.
Prima di allora, Gilda non aveva mai messo piede nel Molise: per lei è amore a prima vista.
Incantata dalla bellezza selvaggia di una natura incontaminata, conquistata dalla gente semplice e ospitale, lei fa suo quel mondo rurale e primitivo.
Nel periodo della mietitura, la campagna diventa un campo di lavoro, dove buoi, cavalli, trebbiatori e spagliatori sono i protagonisti assoluti.
È quel mondo all’inizio così distante dal suo che lei racconterà sulle sue tele con adesione convinta e totale esternando pienamente la sua vera natura di “scapigliata postimpressionista”.
La pittrice si alza presto, assiste alla “fatìa” dei lavoranti, diventa loro amica, li dipinge in pieno sole.
Lo testimonia il figlio Glauco:
“E i contadini che “posavano” per la pittrice senza posare l’avevano tra di loro, lavoratrice tra lavoratori, s’erano abituati a quel cavalletto ramingo, a quella gonna-pantalone della forestiera di Milano che aveva sposato Don Tomasino […]. Sento ancora in faccia il vento che scompigliava i capelli e setacciava il grano inforcato nell’aria, e ancora soffia la paglia in cielo, immobile nel quadro della trebbiatura – un’impressione delle più felici.”
Di tanto in tanto, la pittrice arricchisce la propria conoscenza di ambienti e costumi viaggiando.
Dal soggiorno siciliano scaturiscono quadri di straordinaria bellezza, tra cui le marine di Acireale e Acitrezza.
Qui, in occasione della mostra allestita dall’artista nel Palazzo dei Pescatori, il pubblico, preso dall’entusiasmo, stacca i quadri dalle pareti e li porta in processione per le vie del paese.
Dopo la Sicilia, è la volta della Sardegna, delle Venezie, della Liguria.
Con l’attività pittorica e i viaggi si intrecciano le mostre: nel 1936 l’artista è a Firenze e a Monza, nel ’42 in Valtellina, nel ’45 a Como.
Intanto, il giudice D’Amico ricopre incarichi sempre più importanti nella capitale, e così Gilda per diverso tempo vive a Roma con lui.
Qui è di particolare rilievo la mostra riepilogativa presentata, nel 1962, con oltre 60 dipinti, alla Galleria “San Marco”, con l’intervento di autorevoli nomi dell’ambiente e grande risonanza sulla stampa.
Seguono, due anni dopo, le marine napoletane e la mostra alla “Barcaccia” di Napoli (1964).
Ogni volta che la coppia rientra nel Molise, tra Castropignano e Duronia, le famiglie più in vista fanno a gara per avere un ritratto o un paesaggio dipinto dall’artista milanese.
L’amato Tomasino muore nel 1972, e da allora l’artista alterna i soggiorni romani con quelli molisani.
Il suo amore per il Molise rimane intatto, e lei lo esprime nelle sue tele, immortalando scorci e persone.
Dopo due vedovanze e altri lutti, ancora una volta Gilda mostra di essere in grado di “vivere senza sopravviversi”, perché – ha affermato Glauco – “resta se stessa, continua per la sua vita, senza domandarsi se abbia ancora un senso dipingere in un certo modo o in un altro, o se abbia ancora un senso dipingere. Per lei dipingere è vivere. Disseminare immagini in un mondo sempre meno propenso alla forma e al significato, tradurre la vita in attimi durevoli, tenere gli occhi aperti sul mondo, fino all’ultimo.”
La morte sopraggiunge a Castropignano il 26 ottobre 1986.
Le spoglie dell’artista, per suo espresso volere, riposano a Duronia, accanto a quelle di Tomasino D’Amico, tra le alture da lei tante volte riprese in un baluginio di colori con impetuosa, vibrante passione.
Sulla sua lapide sono incise queste parole:
“Sotto tanto cielo,
tante stelle per illuminarci di mistero”.
RitaFrattolillo©2016 tutti i diritti riservati.
Note e Bibliografia:
PERRELLA Alfonso, Effemeridi della Provincia del Molise (già Antico Sannio), s.l., s.d.
Pietro Cimatti, Gilda Pansiotti, Nocera ed., Campobasso 1973;
Lino Mastropaolo, Arti visive nel Molise 1920-1950, ed. Enne, Ferrazzano (Cb), 2000;
Giuseppe Jovine, Benedetti Molisani, ed. Enne, Campobasso 1996;
sito “Glauco Cambon Papers”,University of Connecticut;
Glauco Cambon, saggio L’artista che è mia madre, nel volume di Pietro Cimatti, Gilda Pansiotti, cit;
Barbara Bertolini, Rita Frattolillo, Molisani milleuno profili e biografie, ed. Enne, Campobasso,1998
Gilda Pansiotti Cambon d’Amico, Comune di Duronia
di Rita Frattolillo