Grano duro e speculazione energetica
La iconica filiera grano duro- pasta di fronte a una nuova minaccia: la spietata e incontrollata concorrenza senza regole sull’uso dei suoli da parte della speculazione energetica
di Fabrizio Quaranta (già ricercatore in cerealicoltura)
16 ottobre 2024
La pasta è mirabile eccellenza alimentare tra le più iconiche e rappresentative del Made in Italy nel mondo. Un prodotto con un costo tra i più bassi dell’intero panorama agroalimentare, cui corrisponde un’elevata ed equilibrata disponibilità dei principali nutrienti (fonte CREA – Istituto Nutrizione). La sua semplice e genuina composizione (solo grano duro e acqua) la rende il principale componente della dieta nazionale e mediterranea e nello stesso tempo le ha permesso di conquistare da molti anni i principali mercati mondiali, in particolare quelli più esigenti e a maggior disponibilità economica come la Germania, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone (fonte ISMEA) verso i quali si indirizza un crescente flusso di vantaggiose esportazioni, garantendo a monte redditi, risorse e lavoro ad una filiera agricola e di prima trasformazione soprattutto centro-meridionale notoriamente con maggiori difficoltà occupazionali.
Malgrado questi collaudati sbocchi produttivi però, le superfici seminate a grano duro in Italia sono in costante, drammatica consistente contrazione negli ultimi anni, con una perdita di oltre 500.000 ettari negli ultimi due decenni (fonte ISTAT): da alcuni anni ormai, a causa soprattutto della bassa remunerazione della materia prima, vengono infatti investiti a grano duro tra 1.1 e 1,2 milioni di ettari, assolutamente insufficienti per raggiungere le produzioni necessarie (– 50% circa) a soddisfare il fabbisogno nazionale (dai 5 ai 6 milioni di tonnellate).
Le industrie pastaie ricorrono pertanto a massicce importazioni dall’estero che, se da un lato snaturano un po’ l’immagine di un prodotto tipico italiano, nello stesso tempo mortificano la redditività dell’agricoltura meridionale, in cui il grano duro ha poche alternative agronomico-colturali, e non garantiscono la sicurezza alimentare e il suo futuro approvvigionamento visti anche la crescente aleatorietà geopolitica degli ultimi anni di alcuni dei principali Paesi esportatori (Russia, Kazakistan, Turchia).
Ma la natura estensiva della coltura del grano, oltre a garantire una materia prima di conclamata qualità e semplicità grazie al ridotto impiego di input chimici e agrotecnici, ha anche modellato da secoli uno dei più struggenti paesaggi agronaturalistici del Bel Paese. L’ondeggiare prima verde e poi dorato delle messi delle pianure e colline siciliane, pugliesi e molisane è spontaneo richiamo ancestrale come la potente visione del mare, delle montagne, dei boschi, del fuoco.
Di questa ampia, maestosa (e gratuita) quinta paesaggistica beneficiano moltissime aree interne che vedono i borghi, nati e sviluppatosi nei secoli proprio in funzione agricola, ergersi a fortissimo richiamo turistico, che gli permette di contrastare abbandono e spopolamento, grazie ai redditi diretti e indiretti dell’indotto. Esempi tra i più conosciuti e apprezzati anche a livello internazionale sono la Val d’Orcia e la Tuscia (ma ce ne sono altre centinaia) dove le spettacolari emergenze antiche, medievali e rinascimentali sono potenti richiami di millenaria bellezza identitaria anche perché circondate e valorizzate da ampie, placide distese intonse di grano che creano un unicum di profonda suggestione paesaggistica che rende l’Italia ancora meta privilegiata in particolare per un turismo colto, responsabile e portatore di benessere economico alle comunità locali.
Ma questo equilibrio che ha salvaguardato nei secoli molti dei territori italiani dal degrado degli insostituibili servizi ecosistemici del suolo, della costante (e gratuita) cura e manutenzione delle sistemazioni idraulico agrarie dei terreni a prevenzione di frane ed erosioni, artefice di un’economia se non facile ma sicuramente dignitosa e protettiva contro dinamiche sociali espulsive sta rischiando di saltare, e in molti comuni sta già succedendo.
E incredibilmente la perniciosa accelerazione a questo degrado ambientale, sociale, paesaggistico, turistico, culturale viene proprio da chi si spaccia per paladino dell’”inarrestabile cambiamento verde” e che per suo interesse imprenditoriale pretende e sollecita di stravolgere radicate e motivate regole di salvaguardia del territorio, della biodiversità ambientale, della proprietà agricola, dei beni culturali, del diritto di indirizzo programmatico delle comunità locali e regionali in nome di un rinnovabilismo d’assalto senza programmazione e controllo pubblico, calpestando attività agricole, pastorali, boschive, umane che avevano mirabilmente modellato nei secoli quei luoghi.
Complice anche la stanchezza una vita di grandi fatiche sui campi non corrisposte da adeguati redditi, centinaia, migliaia di ettari di grano sono stati già stati tragicamente riconvertiti a distese di lugubri paramenti funebri in nero silicio in Sicilia, in Puglia, in Sardegna, trasformando il paesaggio rurale in squallide enormi perdute periferie industriali. E ora l’assalto ha preso di mira le più belle campagne a grano della Tuscia nei borghi tra i più belli d’Italia come Tuscania, Tarquinia, Pitigliano, Sorano, Orvieto, Bolsena con scempi già realizzati per centinaia di ettari e progetti devastatori di ancor più ampie dimensioni.
E in quei luoghi di mirabilie agroarcheonaturalistiche che si pensavano ingenuamente protetti proprio per la loro riconosciuta importanza storico culturale e paesaggistica, invece paradossalmente le migliaia di tetti di anonimi invasivi centri commerciali, di capannoni più o meno fatiscenti, di parcheggi, di case, le tante aree già consumate, dismesse, cementate, asfaltate rimangono vergognosamente prive di copertura fotovoltaica malgrado, vox clamantis in deserto, ISPRA, ente scientifico terzo tra i più seri e liberi d’Italia abbia evidenziato che questa operazione di buon senso e rispetto del territorio basterebbe a raggiungere i più ambiziosi obiettivi di energia da rinnovabili.
Fermiamo la speculazione energetica che divora frenetica l’agricoltura, soprattutto quella estensiva a grano di cui siamo fortemente deficitari, il territorio, i pascoli, i prati, i boschi, i beni culturali, la bellezza identitaria, il turismo, la vivibilità.
(Foto: Montalto di Castro, trasformazione di terreni agricoli in centrali fotovoltaiche – da Google Earth)
di Fabrizio Quaranta (già ricercatore in cerealicoltura)
16 Ottobre 2024