Rigenerare le terre alte
La chiave per contrastare il deserto dell’agricoltura e della socialità
di slowfood.it
13 Novembre 2024
Meno abitanti, meno servizi e più abbandono, in una spirale senza fine di cui l’agricoltura paga un grande scotto. Quali strumenti possiamo mettere in atto per rigenerare le aree interne?
Il pane e le filiere cerealicole hanno rappresentato per secoli uno dei capisaldi delle nostre economie e della nostra socialità, legate a ritualità che si succedono con il ritmo lento delle stagioni, alla tutela di semi antichi tramandati insieme a pratiche rispettose dell’ambiente e delle risorse.
Negli ultimi anni, con l’introduzione di varietà commerciali, abbiamo assistito a una perdita di biodiversità senza precedenti, e alla relativa crescita di una produzione industriale che riflette le sue conseguenze sulle risorse ambientali, sulla nostra salute, sulle economie di piccola scala.
Così la cerealicoltura, da filiera portante dei nostri territori, è entrata in balìa di speculazioni finanziarie che equiparano il grano a merce. Ma che succede se a ciò si aggiunge una crisi del grano senza precedenti, acuita dai drammatici effetti della crisi climatica? Molti agricoltori, specie nelle aree interne, si trovano costretti ad abbandonare i territori o a cedere i propri campi a multinazionali che investono sul fotovoltaico.
Resistere è sempre più difficile ma quantomai necessario, per custodire queste aree e restituire un futuro possibile dove la sostenibilità sociale e dei territori siano una cosa sola. Ne abbiamo parlato con Rossano Pazzagli, docente di Storia moderna presso l’Università degli Studi del Molise, direttore della scuola di paesaggio Emilio Sereni e della scuola dei piccoli comuni.
Pazzagli sarà protagonista della prossima lezione di Food to Action Academy, la formazione online dedicata a tutti i soci Slow Food: nell’appuntamento di martedì 12 novembre (a cui è possibile iscriversi cliccando qui) parleremo di strumenti e politiche per la rigenerazione delle aree interne.
E proprio da qui partiamo: analizzando le condizioni attuali di questi territori e quali chiavi di sviluppo può rappresentare oggi il recupero dell’agricoltura.
«Quelle che oggi chiamiamo aree interne per indicare i territori marginalizzati dal modello di sviluppo capitalistico, sono state a lungo luoghi centrali, ambiti produttivi e spazi di civilizzazione. Il loro paesaggio era un mosaico nel quale spiccavano i campi di grano, segale, orzo, spelta e altri cereali. Verso l’estate il giallo delle spighe mature interrompeva il verde scuro dei boschi e quello più tenue dei pascoli, circondava i paesi e i villaggi, raggiungeva i bordi delle strade e gli argini dei fiumi o dei torrenti. Poi sotto i colpi dello spopolamento e dell’abbandono quel mosaico si è chiuso, l’agricoltura contadina è venuta meno. È stato uno sviluppo squilibrato, che ha aumentato le disuguaglianze tra città campagna, tra montagna e pianura, tra costa e entroterra.
Ora è venuto il tempo di un riequilibrio, di ricostruire quel mosaico, di curare il territorio e i piccoli paesi. Per questo riprendere la coltivazione dei colli e delle pendici dei monti avrebbe un grande valore, sarebbe una delle forme di una possibile rigenerazione territoriale, alimentando filiere alimentari e valori ambientali».
A Terra Madre durante la conferenza “La crisi del grano e la resistenza della rete Slow Grains”, ha affermato che l’agricoltura senza contadini fa deserto. Ma i produttori delle aree interne sono, troppo spesso, costretti ad abbandonare i propri territori anche per mancanza di sostegni adeguati, poiché la quasi totalità degli stessi va all’agroindustria. Come possiamo oggi invertire questa tendenza e favorire la diffusione di un’agricoltura davvero sostenibile? Quali strumenti politici andrebbero implementati?
«Per prima cosa dobbiamo rileggere il territorio, individuare le vocazioni e le risorse in esso conservate. Poi dobbiamo riportare servizi, che significano diritti: innanzitutto servizi riguardanti la mobilità, la salute, l’istruzione. L’agricoltore, anche il piccolo agricoltore di montagna, deve essere considerato prima di tutto un cittadino. Senza queste condizioni di vita le aree collinare e montane (che sono quasi l’80 per cento della superficie italiana), diventano un deserto umano, che fa il paio con un’altra desertificazione, cioè quella dell’agricoltura industriale che si illude di funzionare senza contadini».
In questo contesto, quanto è importante riqualificare il cibo in un’ottica di cultura, socialità, tutela del territorio?
«Dobbiamo ripensare all’assonanza tra agricoltura e cultura. La nostra è una civiltà fondata sul pane, quindi sui cereali. Il loro valore va ben oltre il dato economico per diventare cultura, dignità sociale, paesaggio, cibo e gusto. Io penso che le aree interne non debbano piegarsi alle logiche quantitative del mercato e della competizione globale, ma giocare un’altra partita: quella della cooperazione al posto della competizione, dell’equilibrio al posto della crescita, della lentezza al posto della velocità, di un ritrovato rapporto con la natura. Non è un’utopia, come dimostrano le esperienze attive in determinate zone, dalle Alpi agli Appennini».
E come dimostrano tantissimi agricoltori, trasformatori che raccontano esempi di rigenerazione positiva: per valorizzarli e sostenerli, a partire dal 15 novembre, l’Alleanza Slow Food dei cuochi si unisce alla rete Slow Grains nella campagna Tutta farina del nostro sacco, in un percorso che coinvolge tutta la rete territoriale di Slow Food nel celebrare la biodiversità cerealicola e i suoi custodi.
(Foto: Oliver Migliore, Archivio Slow Food)
di slowfood.it
13 Novembre 2024