• 04/11/2018

L’importanza dei luoghi che non contano

La politica di sviluppo territoriale europea resta la più importante al mondo. Ma occorre che sia orientata alle specificità dei territori e che consenta uno sviluppo del potenziale che ogni luogo possiede. Se questo non accade ci sarà una tendenza a scegliere per soluzioni facili, visibili ma quasi sempre di scarso impatto sociale ed economico a medio e lungo termine

di Silvia Vaccaro (da forumdisuguaglianzediversita.org)

11 aprile 2018

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Intervista a Andrés Rodriguez-Pose*

Professor Rodriguez-Pose, lei in questi anni si è dedicato molto alla ricerca sulle politiche territoriali teorizzando, tra i primi, quanto possa essere pericoloso lasciare indietro luoghi fisici e persone che li abitano, non occupandosene o attraverso politiche e interventi calati dall’alto. La crescente attenzione alle disuguaglianze territoriali sembra essere un segnale positivo di presa di consapevolezza di quanto lei preconizzava? Siamo in tempo o è tardi?

Ci tengo a chiarire una cosa. Questi luoghi che io chiamo “posti che non contano” non vuol dire che non contino in verità. Molte di queste cosiddette “aree che non contano” sono in realtà più dinamiche di quello che si crede nei centri di decisione, nelle grandi capitali. Sono state trascurate ma non vuol dire che non abbiano capacità di crescere, e non è mai troppo tardi per intervenire. Sono state la teoria e la pratica che si sono sviluppate degli ultimi vent’anni che ci hanno spinto a pensare che queste aree avessero una piccola capacità di sviluppo. Di conseguenza, in queste zone, sono state sostituite le vere politiche per promuovere lo sviluppo con interventi molto appariscenti – tipo grandi infrastrutture – ma senza giustificazione economica o con politiche di sostenimento di reddito, tramite trasferimenti economici, che non sono sostenibili. Dunque la maggior parte degli interventi non ha funzionato perché sono state politiche sbagliate. Si è cercato di mantenere un certo livello di vita in queste aree, di trasferire fondi, senza però riuscire a dinamizzare il potenziale interno di queste aree. Altre politiche sono state molto visibili, ma con un impatto a breve termine, soprattutto legate a interventi infrastrutturali che però, se non vengono accompagnati da altre politiche di sviluppo del capitale umano, delle imprese locali e della capacità innovativa, sono politiche sbilanciate che non funzionano; anzi rendono queste aree più vulnerabili di quello che erano prima degli interventi.

Vede differenze sistematiche nel “non contare” delle aree rurali e interne e nel “non contare” delle periferie? E nel modo in cui affrontare le due “trappole”?

Sebbene nella maggioranza dei paesi europei, e altrove, ci sia stata una concentrazione dell’attività economica nelle grandi città, questo non vuol dire che non ci sia un potenziale nelle aree intermedie e meno sviluppate. Se osserviamo i dati complessivi a livello europeo, un terzo della crescita viene fondata sulle grandi città, che non sono tutte dinamiche allo stesso modo, ma in generale sono caratterizzate da un certo dinamismo. Questo vuol dire però che gli altri due terzi della crescita sono legati alle aree intermedie e periferiche. La capacità di crescere e di creare ricchezza per il benessere di tutto il paese in queste aree, se sostenute da politiche pubbliche adeguate, ha un potenziale enorme. Da un punto di vista geografico ci sono aree periferiche che sono lontane dai centri di decisione, e ci sono aree interne che sono aree rurali – che magari sono vicine alle grandi città, alle zone più dinamiche – che sono però aree comunque trascurate dagli interventi pubblici. Ambedue possono essere aree periferiche da un punto di vista economico. Io faccio una distinzione delle aree non centrali meno sviluppate: le aree intermedie che sono aree basate su un livello di crescita e anche di ricchezza abbastanza alto e che hanno delle città non grandissime ma più o meno sviluppate, come l’Emilia Romagna, il Veneto, i valli del Mittelstand svizzero ed austriaco, il Baden-Württemberg o la Baviera, che spesso sono delle aree sviluppate non solo rispetto alla media nazionale ma anche a livello europeo. Poi ci sono le aree periferiche da un punto di vista economico e sono di due tipi: aree più ricche che sono cadute perché erano aree industriali che non sono più competitive, o aree che non hanno mai avuto un livello di sviluppo abbastanza alto, ma dove negli ultimi anni si è registrato in certi casi certo dinamismo economico. Pensiamo ad esempio al caso spagnolo. La casa madre di Zara non è nata a Madrid, né a Barcellona ma in un posto che si chiama Arteixo, nei dintorni de La Coruña, una città di medie dimensioni in una delle regioni meno sviluppate della Spagna.

Cosa pensa della Brexit? La vittoria del “Leave” si può iscrivere in qualche modo nella vendetta dei “places that don’t matter”?

Assolutamente sì. Attraverso le elezioni abbiamo sentito la reazione delle zone che sono state trascurate. Se prendiamo il caso del Regno Unito, le zone dove in generale ha vinto il voto per il “Remain” nell’Unione Europea sono le zone più internazionalizzate, più dinamiche, dove vivono più stranieri, tipo Londra. Nel mio quartiere, Islington (al centro della capitale), il 75% delle persone ha votato per il Remain. Ma se andiamo nelle aree che sono state abbandonate, come il Lincolnshire – la contea col livello di crescita più basso dopo il 1990 – e, in generale tutto l’Est dell’Inghilterra, la percentuale è invertita e il 75% ha votato per Brexit. Zone che hanno conosciuto un passato più glorioso, ma che già ben prima della crisi hanno visto un livello di crescita che è stato al di sotto della media britannica: zone che sono state abbandonate dall’attività economica, da cui le persone con più capacità sono andate via e dove le politiche pubbliche britanniche, soprattutto politiche di welfare, non sono riuscite a creare l’attività economica necessaria per renderle capaci di competere in un mercato più integrato. Perciò la reazione non è stata solo un grido per dire “noi esistiamo, non dimenticatevi di noi”. Si tratta di una reazione più forte. Dopo il fallimento delle politiche territoriali, soprattutto a partire dal 2005, la politica del Governo britannico è stata di provare a concentrare lo sviluppo su Londra ed il Sud-Est. L’obiettivo e stato di attrarre i talenti provenienti da zone periferiche, cercando di “make the cake bigger”. Ma ci sono due questioni. Non siamo certi al 100% che se scommettiamo su Londra e sui dintorni, ne beneficeranno effettivamente anche altre zone del paese e tutto il Regno Unito in maniera complessiva. E soprattutto non si può certo dire per anni alle persone, che hanno dei legami familiari e amicali in un certo territorio, che il loro futuro è altrove. La reazione dunque è stata “Se non c’è un futuro per noi, non ci sarà neanche per voi”. Brexit è un atto di autodistruzione che impatterà negativamente sia sulle zone che hanno votato per Brexit ma complessivamente su tutta l’Inghilterra, Londra inclusa.

Qual è stato finora e quale potrebbe/potrà essere il ruolo della politica europea di coesione e cosa suggerisce ai futuri governanti dell’Italia nel negoziato sul bilancio europeo che si troveranno a gestire?

Secondo me la politica europea è migliorata in questi anni ed è la politica di sviluppo territoriale più importante al mondo. Ha imparato dai suoi errori, e soprattutto dopo la riforma del 2014 basata sul rapporto Barca del 2009, è diventata una politica molto più mirata, basata su obiettivi legati alle condizioni specifiche e alle capacità istituzionali dei singoli territori, fissando dei limiti importanti, ad esempio sugli investimenti. In passato ci sono stati molti interventi infrastrutturali che certo sono importanti, ma se non si fanno politiche integrate, si finisce per avere troppa infrastruttura e poche capacità di rilanciare il territorio. Occorre non più politica, ma una politica migliore, sensibile alle caratteristiche del territorio, che cerchi soprattutto di creare dinamismo economico, basato sul potenziale di ogni regione, sia interna, periferica o centrale. Una seconda cosa che bisognerebbe fare e che ancora non si fa da venticinque anni, è di cominciare a guardare le regioni in declino economico soprattutto nei paesi più centrali tipo le zone del nord della Francia o la Wallonia nel Belgio, regioni che avevano centri di sviluppo importanti ma che dopo gli anni ’70 hanno sperimentato solo un declino economico. Sono zone che per questa ragione cominciano a reagire in maniera simile alla Brexit, votando per alternative politiche che promettono delle soluzioni molto semplici basate su trasferimenti di risorse che però portano a un suicidio collettivo economico e sociale a medio termine. Nel caso dell’Italia non so che Governo si formerà, ma il risultato delle elezioni è un chiaro segnale delle zone trascurate che, malgrado abbiano ricevuto molti investimenti, hanno bisogno di un altro tipo di politica. Una politica mirata a creare un’attività economica sostenibile, sensibile al territorio, partendo dal potenziale locale che c’è più o meno ovunque. Creare dinamismo che diventi potenziale economico vero, quindi investendo in maniera adeguata al potenziale di ogni territorio nel capitale umano, nell’innovazione, nella competitività delle imprese e nel miglioramento delle istituzioni locali. Nel caso italiano uno dei problemi è stato che molti dei benefici vengono catturati dagli élite locali e non si trasmettono alla popolazione. La strategia nazionale delle aree interne è molto interessante perché va oltre questa logica: investe su aree d’importanza economica e politica dove si prova a mobilitare il potenziale endogeno senza che i benefici vadano solo a un piccolo gruppo di attori locali.

Credo comunque che i problemi italiani siano problemi locali e non europei. L’Italia è uno dei paesi che è cresciuto di meno negli ultimi vent’anni. Sicuramente quello che si è fatto a livello di politica interna è stato sbagliato. Politiche di tipo cosmetico, che non hanno un impatto reale sull’economia. Cercare un capro espiatorio nell’Unione Europea o scommettere solo sulle grandi città è molto pericoloso, soprattutto in un paese come l’Italia dove lo sviluppo è venuto spesso dalle città intermedie che hanno avuto una capacità industriale molto più forte. Il nuovo Governo dovrà dimostrare una capacità di fare le cose in maniera diversa, di creare nuove istituzioni che favoriscano lo sviluppo senza puntare sulle stesse soluzioni ‘facili’ che non sono mai soluzioni reali. Si deve guardare all’interno del paese e cercare esempi oltre le frontiere italiane, creando politiche basate sulle potenzialità latenti dei territori trascurati. Questa sarà la vera sfida per il nuovo governo.

E quale politica per le aree urbane è comunque oggi necessaria?

Non credo ci sia bisogno di fare politiche specifiche per le aree urbane. Bisogna fare politiche territoriali, specifiche per ogni territorio. Bisogna creare indicatori e basi teoriche ed empiriche che orientino tutte le politiche e tutti gli interventi, ma tutte le azioni specifiche devono essere sempre legate alle caratteristiche di ogni singolo territorio e alle sue potenzialità inespresse.

* Andrés Rodriguez-Pose è Professore Ordinario di Geografia Economica presso la London School of Economics. E’ stato Presidente della Regional Science Association International e lavora spesso come consulente per diverse organizzazioni internazionali come la Commissione Europea, la Banca Mondiale, l’OCSE, l’OIT e la FAO.

di Silvia Vaccaro (da forumdisuguaglianzediversita.org)

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