• 05/08/2018

Ermanno Olmi e il senso della vita: ‘Torniamo in campagna’

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di wwf

8 maggio 2018

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È morto lunedì 7 maggio ad Asiago il regista Ermanno Olmi. Aveva 86 anni, era nato il 24 luglio 1931 a Bergamo. Regista autodidatta, pioniere nel campo del documentario, creatore di un linguaggio personale e fuori da ogni schema fin da opere come «Il tempo si è fermato», «I recuperanti» e la «Circostanza», sperimentatore incessante ha portato per la prima volta al cinema il dialetto come lingua («L’albero degli zoccoli») e i grandi miti della tradizione cristiana («Cammina cammina»). Ripubblichiamo una sua intervista in cui raccontava l’amore per la cultura rurale, unica speranza per un’Italia in crisi

Ero convinto che la società industriale potesse sposarsi con la cultura rurale. Non solo così non è stato, ma la civiltà industriale è finita miseramente. E l’unica speranza di futuro è nel ritorno alla terra. All’esperienza millenaria dei contadini”.

Porta questo, in dono, la vecchiaia: la libertà di cambiare idea. Il regista Ermanno Olmi è metodicamente impegnato nell’impresa: separando ciò che è marginale da ciò che conta, impiegando quello che oggi sa, e che prima non sapeva, per leggere il presente. Un’Italia in crisi, a corto di valori, ma ancora incapace di reagire.

Il lusso è farlo dalla sua casa di sempre che dà le spalle al bosco: ad Asiago, anche se per raggiungerla bisogna andare in su, tra strade che scorrono come fiumi di pietra polverosa direzione Monte Zebio, sapore di soldati e di trincee, di abeti e legni a mo’ di croci sulla strada.

È da lì che Olmi sorvola sul presente che non gli piace affatto. E ragiona sulle colpe del passato, scandendo illusioni e delusioni con i suoi film. Dagli inizi, giovanissimo, in un apprendistato quasi decennale nella società di energia Edisonvolta: “La mia famiglia ha provato momenti di povertà quando mio padre, non volendosi iscrivere al partito fascista, è rimasto senza lavoro. Fu la Edison ad assumerlo: e da quel momento diventò la mia famiglia”.

Quando lui ha 13 anni, il padre muore sotto un bombardamento; la Edison assume la madre. A15 anni lascia gli studi e anche lui entra in azienda. Ma si capisce subito che quel ragazzo, che nel dopolavoro si diletta di teatro, non è fatto per stare in un ufficio: macchina da presa in mano, costoso investimento dei padroni, Olmi inaugura la Sezione Cinema Edisonvolta. Risalgono a quegli anni, dal 1953 al 1961, una quarantina di documentari e lungometraggi, riuniti e conservati nel Fondo Edison presso l’Archivio nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea. Film su commissione che mostrano uno spaccato di società italiana aperta al nuovo: la classe operaia, la rivoluzione dell’industria idroelettrica, il rapporto tra l’uomo e l’ambiente.

“C’era la fierezza di appartenere a un gruppo, a un’azienda, a un popolo che, con le sue mani e il suo sacrificio, produceva trasformazioni storiche. E c’era, nella cultura di quella generazione, un senso di onestà e di dignità perduto per sempre. Oggi, che vale più essere furbi che onorabili, anziché più ricchi ci scopriamo poveri: miseria reale e morale”.

L’aveva intuito una decina d’anni fa: certe indigestioni – di sesso, denaro, violenza – sono necessarie per recuperare il gusto. Ma bisogna che siano i nostri anticorpi a rivoltarsi, aveva detto. Ne vede, in circolazione?

“La crisi ci dà coscienza dello stato della situazione. Attendo il momento in cui l’indigestione di tutto ci procurerà un tale stato di disagio fisico da indurci a reagire. Ma è presto. Quel momento arriverà quando non ne potremo davvero più”.

Sarà la classe operaia a guidare la protesta? 

“No. La classe operaia è figlia di una civiltà che non ha niente a che fare con il senso vero, profondo, dell’essere al mondo. La civiltà industriale è partita con un exploit, come se dovesse fare chissà cosa, ed è finita miseramente in un secolo e mezzo. L’unica vera civiltà compiuta è la civiltà rurale. Oggi, se dovessi avventurarmi in un progetto nuovo, ripartirei da quei trenta centimetri di humus, che è la crosta della terra dove il cibo si riproduce”.

Lei non l’ha sempre pensata così. C’è stato un tempo, anzi, in cui dell’industria ha dato una rappresentazione epica.

“Certo, ma io sono stato persino entusiasta di Marghera, e del petrolchimico di Priolo. Tra il 1953 e il ’54, ho realizzato un documentario dal titolo “Venezia città moderna”, che esprimeva questo mio slancio per l’industria”.

L’impressione che queste opere suscitavano è evidente. Tra cavi tesi, geometria delle forme, i documentari celebravano la bellezza degli impianti.

“Ero di fronte a opere dell’ingegno. Consideravo non solo legittima, ma necessaria, la loro costruzione: c’era bisogno di energia. Individuare i luoghi dove costruire queste dighe, e dove la creatività umana arrivava ai livelli più ardimentosi, era un’esperienza esaltante. La funzionalità dava un risultato estetico bellissimo. Mi ricordo quando andai a fare un documentario su una diga in costruzione e noleggiai, con i miei soldi, una vecchia Ariflex che aveva fatto tutta la guerra d’Africa. Però funzionava, e girai a 35 millimetri “La diga del ghiacciaio”. Allora non avevo elementi per dubitare che fosse questa la via per per il progresso. Solo dopo ho capito”.

Cosa, tanto da cambiare idea?

“Le rispondo mettendo in fila i miei film. Nel primo, “Il tempo si è fermato”, c’è un uomo che appartiene alla cultura contadina, diventato operaio perché nella sua valle è arrivata l’industria idroelettrica, e c’è uno studente, figlio di operai ma destinato a diventare protagonista della nuova borghesia industriale: il conflitto fra generazioni si risolve con la reciproca accettazione. Ne “Il posto” prevalgono le aspettative di quel mondo rurale che vedeva nell’occupazione fissa, e nello stipendio sicuro, un fattore di progresso, rispetto al mondo rurale. “I fidanzati” è un film nel quale il protagonista lascia Milano per andare a Priolo e in cambio del trasferimento ottiene un aumento di carriera e di stipendio. Avendo in casa il padre anziano, lo mette in ospizio. Cosa era costato quell’avanzamento? La solitudine. Ho capito che il lavoro in fabbrica portava un costo, in termini di sentimenti e di solidarietà familiare, troppo alto. Nella mia storia cinematografica non ho fatto che raccontare i miei cambiamenti d’uomo. Fino all’ “Albero degli zoccoli”: con quel film credevo di celebrare la conclusione di un’epoca. Oggi so che è esattamente il film dal quale ricominciare: dalla terra, da quelle case, gli uomini, i campi. È l’unica storia che continuerà”.

Prima i rapporti stravolti tra le persone. Poi è stata la natura violata a reagire.

“Uno sbarramento in un bacino d’acqua, per creare un lago e produrre energia elettrica, non oltrepassava un certo livello di offesa alla terra. È quello che è accaduto dopo che ha stravolto gli equilibri tra l’uomo e l’ambiente. E la natura ci lancia segnali inequivocabili.

Dalla terra venivano gli operai che lei osservava, e filmava. Che uomini erano? 

“Uomini più veri. Spirito di sacrificio e senso del dovere. I migranti del Sud sapevano di aglio, di rosmarino, di aromi banditi dal progresso tecnologico. Lo ricordo con una chiarezza che mi è rimasta nel naso, l’odore del mondo rurale e l’odore del mondo operaio. Il mondo rurale sapeva di latte, di letame, di erba, dei profumi delle stagioni. Quando scendevo dal treno che da Treviglio mi portava a Milano, mi veniva incontro un odore di meccanismi. E mio padre, nell’abbracciarmi, aveva addosso l’odore dell’olio delle macchine. Era vivo un universo olfattivo in grado di farti capire subito dentro quale mondo ti trovavi”.

La società industriale ha funzionato fino a quando si è modellata su quella contadina?

“Esattamente. Cos’erano le periferie operaie milanesi se non il modello rurale trasferito in città? La cascina era diventata la corte con le ringhiere; il rione corrispondeva al borgo. E gli operai, nei ritagli di terreno lasciati liberi dall’azienda, facevano gli orti. A fine giornata passavano a raccogliere qualche ortaggio, e tornavano a casa. Poi è accaduto qualcosa che ha cambiato le relazioni tra le persone. Gli assetti abitativi si sono trasformati per fasce circolari, dal centro alle periferie, fatte di casermoni dove gli operai vivevano in solitudine. Quei cambiamenti architettonici hanno determinato effetti spaventosi sulla vita”.

È cominciata lì la perdita del senso collettivo del lavoro?

“Il denaro ha cominciato a governare i rapporti umani. L’ambiente di lavoro, nel quale si condividevano gli stessi valori, ha smesso di essere una patria. In Edison era ancora così: una grande famiglia. Con un clima accogliente e rassicurante. Io non riesco più a trovare situazioni simili nelle industrie di oggi. È uno spirito, semmai, che respiro in quelle in realtà che hanno a che fare con la terra. E c’è un’intesa affascinante, fra i contadini del mondo: hanno una patria di elezione, nella quale si riconoscono”.

C’era una differenza tra i padroni di ieri e quelli di oggi?

“Quelli di oggi non li conosco. Posso dire che quei datori di lavoro non solo riconoscevano un ruolo a tutte le categorie di lavoratori, ma alimentavano anche la solidarietà. Se una famiglia aveva un problema, anche di tipo economico, intervenivano. Questa era civiltà”.

Il cinema, ha detto, è restituzione di tutto ciò che lo sguardo registra. Il cinema italiano è in grado di raccontare questa Italia?

“Il cinema italiano è fatto di bravissimi giovani cineasti, in cerca del volto della madre”.

A tal punto ha smarrito le radici più intime, la sua identità? 

“E accaduto nel giro di 20-30 anni, convinti di cavalcare un modello di vita che col passato non avrebbe più avuto a che fare. Non solo i figli non hanno più memoria del volto della madre. Non riconoscendo quel volto vanno in cerca di fisionomie che, o nel ricordo o nell’immaginazione o nel desiderio, rappresentano la loro madre. È successo nella società. E il cinema italiano è così”.

Lei non ha la tentazione di raccontare, con un documentario, il presente?

“Mai. Perché non si può. È già tutta una recita, cosa c’è da rappresentare? Essere protagonisti di una rappresentazione cinematografica, poi, attira simpatia, consenso. Guai: mai farei un film su personaggi così indegni. Anzi, ultimamente ne parlo un po’ troppo. Vorrei ignorarli”.

Il villaggio di cartone è una metafora del Paese. Di cartone è l’Italia e quanto contiene: dall’economia alla cultura. Se tutto è così fragile, a cosa ci aggrapperemo? La cosa più concreta, come diceva Cesare Pavese, restano le idee?

“Le idee. E la poesia. Noi siamo di cartone soprattutto dal punto di vista morale. Se non risolviamo questo non ci sarà un nuovo inizio”. 

di wwf

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