Peppino Impastato ha vinto
Ucciso dal boss Badalamenti 40 anni fa in un attentato coperto dai depistaggi. Eppure, le parole del giornalista di Cinisi riecheggiano ancora oggi. Il fratello Giovanni: «Mettendolo a tacere hanno amplificato la sua voce»
di Lirio Abbate (L’Espresso)
9 maggio 2018
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Peppino Impastato è stato dilaniato dal tritolo non aveva in tasca la tessera da giornalista. Non era iscritto all’albo. Eppure denunciava storie illegali della politica locale attraverso i microfoni di Radio Aut, scriveva, alzava la voce, scherzava sui mafiosi del suo paese, ironizzava e li sbeffeggiava. Ora, a quarant’anni dalla sua uccisione, grida. Grida e non smette più. Come dice suo fratello Giovanni Impastato, lui voleva fare il giornalista, ma «i mafiosi hanno commesso un errore», perché «mettendolo a tacere, hanno amplificato la sua voce. E non è solo questione di quanto si fa sentire: è questione di qualità del messaggio, perché se è la vittima a parlare, tutti tacciono, perché la sua autorevolezza è indiscutibile». E per Giovanni i mafiosi fecero un altro errore: «l’avessero lasciato parlare, magari a lungo andare si sarebbe ripetuto e avrebbe stancato. Magari avrebbe perso la testa e avrebbe esagerato, si sarebbe smascherato, sarebbe caduto lui, nel ridicolo. Invece così ha per sempre ragione, ha per sempre voce in capitolo. E gli altri ad ascoltare».
Il 9 maggio 1978, quando i suoi amici di Cinisi raccolgono i brandelli di carne del corpo dilaniato di Peppino sparsi attorno al cratere dell’esplosione, i carabinieri sono decisi nella loro ipotesi, scrivendo nei rapporti investigativi che era morto nel tentativo di far saltare in aria con una bomba i binari del treno. Invece lo avevano legato alle rotaie, già morto, per farlo passare per un terrorista. La verità, come si seppe molti anni dopo, è che lo aveva ucciso la mafia, perché dalla sua radio libera prendeva in giro il capomafia Gaetano Badalamenti, uno dei boss storici dei clan siciliani, morto in un carcere americano dopo essere stato condannato all’ergastolo come mandante dell’uccisione di Peppino. Morto senza essersi pentito di ciò che aveva fatto durante la sua carriera criminale.
Peppino Impastato però ha vinto su tutti, anche sui mafiosi. Anche sullo stesso Badalamenti. Peppino è stato uno dei primi segni di ribellione siciliana. Il giorno della sua morte, nonostante la tensione che c’era in tutta Italia per il delitto di Aldo Moro, migliaia di ragazzi sono arrivati a Cinisi da Palermo e altre città siciliane per manifestare contro la mafia, gridando subito che erano stati gli uomini delle cosche a uccidere il loro compagno. Quella è stata la prima manifestazione in piazza contro la mafia, in un paese di mafia. Al suo funerale c’era più gente di quanta il militante di Democrazia proletaria ne avesse mai raccolta in piazza, da vivo, durante i suoi comizi per la campagna elettorale in cui si era candidato a consigliere comunale. E, dopo morto, anche il suo primo successo: alle elezioni del 14 maggio lo votano in 260, quasi il sei per cento della “capacità” elettorale di Cinisi. Un’affermazione senza precedenti se si pensa che nello stesso paese il Pci aveva ottenuto appena il 10 per cento dei suffragi e che quella che allora veniva definita la “nuova sinistra”, si manteneva nella zona su percentuali molto più basse.
Quando Peppino Impastato fu eletto, dalla sua morte era già passata una settimana: esploso sui binari della Palermo-Trapani assieme a quattro chili di tritolo. Dicevano: come Salvatore Carnevale, come Accursio Miraglia, militanti del movimento contadino siciliano, abbattuti poco tempo prima dalle lupare mafiose. Ma gli investigatori non ascoltavano. Un manifesto di controinformazione compilato dai compagni di Impastato accusava la mafia del suo assassinio. Ma per i carabinieri rimaneva solo un morto scomodo, e per loro una storia da chiudere al più presto. Si è impegnato tanto a ricordare in tutti questi anni la figura di Peppino uno dei suoi amici, Umberto Santino, storico e grande studioso dei fenomeni mafiosi. E poi c’è stato anche il grande film di Marco Tullio Giordana, “I Cento passi”, scritto con Monica Zapelli e Claudio Fava. Una pellicola che ha portato l’immagine di Peppino nel cuore di milioni di persone che prima non lo conoscevano.
La Commissione parlamentare antimafia ha indagato sul “caso Impastato” 22 anni dopo il delitto, arrivando a conclusioni su cosa si è opposto a fare verità e giustizia. E lo ha fatto prima ancora che la Corte d’assise arrivasse a sentenza. L’indagine della commissione, presieduta da Giovanni Russo Spena, ha dovuto ricostruire l’anatomia di una deviazione, che ha, nell’immediatezza del delitto, impedito di ricercare e di individuare i mandanti e gli esecutori materiali dell’omicidio. Il quadro mafioso che c’era dietro questo delitto era stato sin dal primo momento segnalato dai familiari e dai compagni di Peppino. Avevano indicato, reclamato, “gridato”, in un grande isolamento, anche politico: troppi avevano sottovalutato gli avvenimenti, limitandosi inizialmente ad una neutra e quasi notarile richiesta di “piena luce” sulla morte del “giovane Impastato”. La Commissione ha dunque accertato se nella fase iniziale delle indagini si fossero verificate anomalie del comportamento degli inquirenti, delle omissioni, del “depistaggio”.
L’attività svolta dalla Commissione ha evidenziato all’interno delle pubbliche istituzioni, in particolare in alcuni suoi uomini, omissioni e veri e propri vuoti di contrasto allo sviluppo del potere mafioso nella zona in cui viveva e combatteva Peppino. Perché è successo tutto ciò? Come mai ci furono quei comportamenti omissivi? Perché, di fronte a indizi e prove che confutavano l’ipotesi del suicidio e dell’attentato terroristico, questa non fu abbandonata? La risposta, data dalla Commissione, va cercata in quel contesto storico, la seconda metà degli anni Settanta, e analizzando le forze che si fronteggiavano sul campo. È bene ricordare che all’interno dell’Arma dei carabinieri convivevano opinioni e tesi diverse sull’omicidio. Chi ha subito puntato, deviando la verità dei fatti, all’attentato terroristico escludendo la mafia, è stato l’allora maggiore dei carabinieri Antonio Subranni che scrisse in un’informativa che Impastato si era ucciso o era morto in un fallito attentato. Un’informativa firmata insieme al maresciallo Alfonso Travali, nonostante quest’ultimo, cinque mesi prima, nel dicembre 1977, avesse riferito in una nota inviata al proprio comando che Impastato e il suo gruppo di Democrazia proletaria «non sono ritenuti capaci di compiere attentati terroristici».
La relazione della Commissione parla proprio di “depistaggio”, sottolineando che l’omicidio fu, allora, un “impaccio” di cui qualcuno voleva liberarsi immediatamente catalogandolo come suicidio o infortunio di un terrorista, «al di là di ogni palmare evidenza». La corte d’assise è poi arrivata a condannare il mandante dell’omicidio, il boss Gaetano Badalamenti, provando così che era stata la mafia a ordinare l’uccisione di Peppino. Mentre Antonio Subranni, ritrovato fra gli imputati del processo alla trattativa Stato-mafia, è stato adesso condannato a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. Le migliaia di ragazzi che nell’anniversario dell’uccisione di Peppino affollano le strade di Cinisi, e che anche quest’anno ritorneranno a quarant’anni dal delitto per ricordarlo, ci vogliono dire come questo “combattente” è vivo e resta sempre una spina nel fianco per i mafiosi.
di Lirio Abbate (L’Espresso)