Vie d’erba nel vuoto
Un percorso sulle tracce fantasmatiche dei tratturi molisani
di Mattia Iorillo* (da iltascabile.com)
12 Marzo 2025
Ricordo di essermi sempre chiesto cosa significasse l’orizzonte di casa. Dal balcone, al terzo piano di un palazzo, osservavo i crinali di due grosse montagne sporgenti, a sinistra e a destra, mari d’alberi e due piccoli paesini arroccati. Sotto – tra loro e me – una strada, orientata nord-sud, parallela alla linea delle alture. Mi chiedevo perché quegli accumuli di case fossero proprio lì e non più giù, o più su, e perché la strada piegasse esattamente in quella direzione. Per come era ordinato il tutto – pensavo – a me, alle montagne e ai paesi, non rimaneva che essere spettatori, in basso, di un transitare infinito. Di macchine, principalmente. Quella geometria del mio orizzonte, lo spazio vuoto, lo sguardo obbligato sulla strada, ho scoperto, non erano casuali. A Isernia vivevo, infatti, sul fantasma di un tratturo. Il che spiegava tutto, o quasi.
Una lunga via d’erba, che attraversa campi, boschi, pascoli e neviere, dalla montagna alla pianura, andata e ritorno, è questo il tratturo. Sopra, le capre e i pastori: in inverno sulla spianata, in estate sui monti. L’arteria stradale della secolare transumanza appenninica. Una forma antica e duratura di economia naturale, che spingeva a muoversi lungo tracciati segnati da un verde un po’ più pallido, smorto dal calpestio.
Il grande storico Fernand Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1965) diceva dei tratturi che sono “cicatrici, come quelle che segnano la pelle di un uomo per tutta la vita”. Braudel però era stato ottimista. D’altronde non aveva ancora assistito a tutte le tremende conseguenze dei processi di sviluppo sui territori non urbani. Alla lenta e graduale cancellazione delle loro vocazioni naturali e ambientali, avvenuta dalla seconda metà del Novecento. Da cicatrici, segni che comunque restano, i tratturi si sono trasformati in qualcosa di più simile a dei fantasmi: sono una presenza dubbia, che si fa trasparente. Quando se ne cercano le tracce, solo allora, acquistano un senso i muretti a secco diroccati, le sbieche strisce d’erba tra le campagne, i vecchi stazzi sulle cime dei monti, i santuari micaelici nelle grotte. Oggi qualche cartello, marrone e solitario, segnala la loro presenza tra i tornanti che servono a raggiungere contrade ormai quasi disabitate. Ma sono ben poco rispetto a quello che erano. Certo, hanno segnato lo spazio in profondità, ma in un modo che ormai si fa fatica a riconoscere. Rinselvatichiti, degradati o coperti dall’asfalto, ne rimangono residui, scampoli. Quasi tutti in Molise. Chiunque lo attraversi non può che cadere in una rete di piste false, strade d’asfalto nuove e incongruenti, partorite su mondi scomparsi.
Come ha scritto Gino Massullo, in Storia del Molise (2006), già dal Secondo secolo dopo Cristo infatti il Molise è una regione di passaggio, una sezione intermedia, tra due poli attrattivi, le cime abruzzesi e le pianure pugliesi e laziali: per questo la storia dei tratturi è strettamente legata a quella molisana e l’una sconfina nell’altra. Il paesaggio di questa piccola regione si è formato attraverso una danza nomade animale e umana con l’ambiente naturale. Da quando si è spenta la causa che lo originava, la transumanza, è rimasto un senso di vuoto, e in Molise l’assenza di qualcosa è più evidente che in altri posti. Niente o quasi ha riempito un orizzonte passato, di un tempo fuori dal tempo.
E frutto di una lunghissima storia. Isernia è stata casa dell’uomo più antico d’Italia, a metà strada tra erectus e sapiens (il ritrovamento di un dente di bimbo ce lo testimonia). Il sito archeologico La Pineta conserva il suo insediamento di bisonti, mammut, ippopotami, una grassa festa di carcasse fossilizzate. Durante l’antichità, fin dal Settimo secolo prima della nascita di Cristo, su quelle stesse terre era emersa un’oligarchia di pastori guerrieri che al suo massimo sviluppo li avrebbe portati a competere con i romani per il predominio sull’intera penisola. Edward Togo Salmon, nel noto Il Sannio e i Sanniti (1985), scrive che per i popoli della regione “gli animali più importanti erano le pecore, per la loro produzione di latte e per i suoi derivati, nonché per la lana”. Iniziavano quegli spostamenti regolari, e regolati, delle greggi condotte dal monte al piano. All’alba del ver sacrum, “la primavera sacra”, una nuova generazione fondava una nuova colonia. Un rito sacrificale dietro cui si nascondeva la necessità migratoria di una società pastorale che soffriva la sovrappopolazione e la conseguente mancanza di risorse (i pascoli): i sanniti si espandevano sulla scia dei loro animali.
Una vita dedita alle bestie implicava anche un abitare diverso. Il sistema paganico-vicanico (il pagus era una circoscrizione rurale legata a un culto locale, il vicus una sua parte) ha lasciato una traccia indelebile: nel Molise e nell’Abruzzo meridionale odierno rimangono i resti degli oppida, e dei castella, gli insediamenti fortificati di mura “ciclopiche” a guardia delle vie della transumanza più a valle. Sono vedette di pietra ormai nascoste dalla vegetazione, a tratti diventate tutt’uno con il verde circostante e la roccia bianca delle murge. Arrampicarsi sulle montagne per cercarle è la cosa più vicina a quel che rimane dell’esplorazione in un mondo già tutto esplorato. Vedere i grossi massi incastrati, occultati tra gli alberi, fa tornare in mente le parole dell’ecologo statunitense Aldo Leopold quando diceva che “la natura selvaggia è il materiale grezzo nel quale l’uomo ha faticosamente scolpito quest’artificio che chiamiamo civiltà”. Nelle tracce della civiltà pastorale sannita, fatta di strade e pietre, quella fatica si respira.
Anche i romani capirono abbastanza presto la forza economica nata sugli Appennini. Aprirono però l’orizzonte a quei movimenti di lungo raggio che hanno caratterizzato la transumanza. Spostamenti ritmici, cadenzati, definiti da tempi vegetali e climatici, per soddisfare le esigenze vitali delle bestie, sempre fameliche di erbe fresche, di germogli e arbusti. Le vie usate per monticare e demonticare, su e giù, e verticalmente e orizzontalmente, tra regioni diverse, iniziarono a segnare a fondo il paesaggio italico creando il saltus – un sistema di campi aperti al pascolo promiscuo delle greggi – che descriverà bene Emilio Sereni nella sua opera più celebre, la Storia del paesaggio agrario italiano (1961).
Il sacro, poi, incastonava i tratturi. Disseminate di statuette bronzee di Ercole, connesso alla forza fisica soprattutto guerriera e pastorale, sulle “strade animali”, nel Medioevo, si è sovrapposto il culto micaelico. Nei giorni della celebrazione di san Michele si parte e si torna con le greggi: “scasata” e “remenuta”. La spada dell’arcangelo ha sostituito la clava erculea, e il mantello il leonté, la pelle del leone nemeo, ucciso durante la prima fatica. Il santo viene venerato specialmente nelle grotte, dove affiorano le sorgive, che sono il riparo perfetto per i pastori e sosta obbligata per le capre: dall’Abruzzo al Gargano, all’interno della transumanza, la via micaelica rappresenta una riconoscibile traiettoria sincretica. Lo stesso può dirsi per il culto mariano. Le Vergini nere, legate in particolare ai luoghi della pastorizia, sarebbero in relazione con gli spazi già consacrati a divinità pagane. Il santuario della Madonna di Canneto, tra Abruzzo, Lazio e Molise, meta di pellegrini e luogo di apparizione, a una pastorella, della Vergine Bruna – la Stella del Monte Meta – sorge sul culto di Mefite, dea sabellica connessa alle acque e alla fertilità. La Madonna Nera, in un’altra assonanza pagana, siede sempre su troni di quercia che rappresenterebbero la Natura stessa. La madre del figlio di Dio in Molise poggia il suo corpo su quello che c’è. I tratturi in questo senso sono stati lo scenario di un crocevia religioso secolare, di un’evoluzione cultuale legata indissolubilmente alla fisicità ambientale dei luoghi. Spiegano la ricchezza sacrale in posti così raccolti.
La Regia dogana della mena (la conduzione) delle pecore di Puglia, istituita nel 1447 da Alfonso d’Aragona e sopravvissuta fino all’Ottocento, produsse le vie d’erba che si riconoscono oggi più facilmente. I tratturi divennero regi: furono stabilite le misure del passaggio, la larghezza delle strade – sessanta passi napoletani – tracciati i confini, puntellati da cippi: venne formandosi “l’erbal fiume silente” dannunziano, resistito fino al Diciannovesimo secolo, fra tratturelli, bracci, stazioni di posta e riposi. Lungo quelle strade transitavano, nel periodo di massima espansione, quasi tre milioni di ovini su oltre tremila chilometri di tracciato. Una fila animale interminabile, un traffico stagionale senza semafori, economie della lana, città di guardia.
Le narrazioni si soffermano però su un mondo arcadico irrealistico. Le vite dei pastori, affatto “romanticizzabili”, raccontano piuttosto delle partenze, dei viaggi e delle lontananze, e delle difficoltà incontrate lungo il percorso. Una di queste, sebbene ingigantita nell’immaginario collettivo, è rappresentata dal Canis lupus italicus, nemico temibile e vorace di ovini. Romolo Trinchieri nel suo lavoro sulla transumanza negli anni Cinquanta del Novecento scriveva che “nelle ore antelucane su in montagna talvolta la quiete dello stazzo è rotta ad un tratto da ululati, abbaiamenti, clamori”. Così iniziava la lotta con i lupi. Dall’altra parte i pastori e i loro bastoni, i cani dotati di “vraccale”, il collare chiodato, e i lupari, veri e propri professionisti della difesa dei greggi. Una lotta impari, come ha scritto Corradino Guacci, storico e naturalista, in La transumanza. Uomini e lupi nella Capitanata del XIX secolo (2013), che si è declinata in una ferocia così brutale, verso il nemico naturale degli ovini, che ne ha quasi decretato l’estinzione. Il lupo solo da poco è tornato ad affacciarsi in queste zone.
Anche la mitografia del pastore, del suo carattere guerriero o nomadico, possiede scarsa aderenza con le dinamiche evolutive economiche e di potere che hanno visto l’emergere, alla fine del Diciottesimo secolo, di grossi “locati” – i proprietari degli armenti – e di latifondisti. I pastori con poche greggi subivano soprusi da chi ne possedeva molte, e da chi aveva molti terreni per accoglierle. Come ha notato Potito d’Arcangelo, la “cosmovisione” del pastore transumante modellata sul movimento “fasico dei cicli naturali e degli spostamenti lungo i tratturi”, gli ha conferito in compenso “la capacità di segnare, di trasformare i luoghi nel profondo”. In questo, sta ancora una volta, propriamente, il carattere più emblematico e reale del tratturo lungo tutta l’età moderna e ai confini della contemporaneità. La sua natura contestuale, di evoluzione e trasformazione in una continuità ambientale fatta però di relazioni umane e animali. Quelle che sono praticamente sparite all’alba del Novecento, lasciando il grande vuoto molisano.
La costruzione di un immaginario fortemente negativo del mondo transumante si è imposta con lo spirito illuminista, che ha prodotto la demonizzazione degli usi civici, delle terre comuni e ovviamente di quei tratturi, che con la loro trasversalità spaziale erano nemici naturali della proprietà privata, delle chiusure dei campi e della razionalità agricola. Così che, sebbene la transumanza sia continuata in altre forme anche nel secondo dopoguerra, la rottura dei tragitti del “reame delle pecore”, ha decretato una marginalizzazione di territori ancestralmente vocati a quel tipo di sfruttamento. Il fascismo prima, con la battaglia del grano e la costruzione di un Molise “ruralissimo”, e i processi di modernizzazione poi, hanno fatto il resto, spezzando un mondo, culturale e naturale assieme, secolare.
La sostituzione di quell’antico sistema economico – con un’agricoltura intensiva e gli scarsi impianti industriali creati dall’alto – non ha prodotto, come ha rilevato lo storico Rossano Pazzagli, in Un Paese di paesi. Luoghi e voci dell’Italia interna (2021) una ricchezza tale da fermare i processi di spopolamento di quelle zone. Anzi, il Molise è l’unica regione d’Italia a contare meno abitanti rispetto all’anno zero dell’Unità. Così che il ritorno a uno sfruttamento del territorio coerente con il territorio stesso costituisce, secondo Letizia Bindi, antropologa dell’Università del Molise, non solo la possibilità di produzioni di qualità e servizi bioculturali che contribuiscono al mantenimento della biodiversità, ma anche possibilità di rigenerazione locale, di rivedere in profondità le relazioni interspecie, “un’economia morale dell’allevare in armonia con gli ambienti e i paesaggi”. Gli animali che pascolano sui tratti infiniti delle alture molisane sarebbero solo un ritorno al buonsenso.
Nel frattempo la faticosa riconoscibilità dei tratturi ha comunque attirato grandi studi di architetti, come quello di Stefano Boeri, per rilanciarne il recupero. Travolti frettolosamente da una modernità su ruote, diventano la destinazione di progetti di ripristino, proprio come avviene per le paludi, le torbiere, le saline, vittime degli stessi processi di cancellazione, colpevoli di una presunta primitività. Far rivivere però i tratturi a uso e consumo del turismo – strutture ricettive in un angolo di paradiso – è forse una strada auspicabile per chi crede che sia possibile farlo senza mettere in discussione gli stessi processi che li hanno cancellati, che hanno svuotato il senso stesso delle grandi “vie d’erba”. È, in sostanza, il pericoloso equivoco della patrimonializzazione, della musealizzazione e della romanticizzazione, che si abbattono, come sui borghi, anche sui tratturi, cristallizzando e fissando rappresentazioni stereotipate, riattualizzando quei luoghi come lo specchio dei sogni selvaggi della vita urbana.
Anche se si tratta di un fenomeno molto limitato e diverso dalla lunga marcia orizzontale – tra regioni diverse – di un tempo, sui tratturi oggi sono tornati alcuni pecorai che accompagnano le greggi al pascolo. Valerio Berardo da Roma si è trasferito a Duronia, paese dei suoi genitori. Carmine Valentino Mosesso ricorda invece piuttosto da vicino una figura particolare, come quella di Cesidio Gentile “Jurico”, poeta pastore di Pescasseroli di inizio Novecento. Non è più però solo un mestiere da uomini. Se Romolo Trinchieri parlava della patrona abruzzese come di un tipo patriarcale votata “all’unico ideale di servire il marito, e poi i figli, e poi la servitù della casa maritale”, Anna Kauber ha ribaltato gli stereotipi di genere. Un suo documentario intitolato In questo mondo (2018), segue le storie di pastore, come Carmela Colavecchio, che muove i suoi animali tra i campi molisani. Al centro delle storie raccolte da Kauber, emblematicamente, il paesaggio, il tratturo, gli animali che ci si muovono dentro, e le storie documentate dalla regista si fondono, appaiono inscindibili l’una dall’altra.
In un certo senso il Molise rimane ancora una regione di passaggio. Mirco Di Sandro e Vincenzo Carbone, due sociologi, in un volume del 2024 intitolato emblematicamente Sui bordi del qui e dell’adesso, hanno rilevato il carattere multilocalizzato dei suoi abitanti, nonostante nessuna autostrada la attraversi orizzontalmente. La transumanza si è fatta umana e basta, e tende a svuotare più che a riempire. Le vie vengono percorse per lasciare casa senza tornare. Il vuoto che è rimasto fa sempre più paura perché sembra sempre più il niente. Chi si salva? La regione rimane quella “molecola incandescente nell’universo dell’avventura”, come definiva Francesco Jovine le sue Terre del Sacramento (1950)? Il Molise conserva meglio di altri luoghi i residui di un mondo disadattato che, con tutto quello che significa anche in negativo, non è allineato perfettamente all’onnivoro modello di sviluppo economico attuale. Uno spazio appena fuori dall’uniformità devastatrice ed estrattiva di quelle attività umane che segnano il paesaggio appiattendolo in un disequilibrio di asfalto, case e lamiere, quando va bene. Qui forse si può provare nostalgia di giorni primordiali, della “sacra aria onnipresente che circonda”, come scriveva Friedrich Hölderlin. I tratturi ce lo ricordano, nella loro contraddittorietà di presenza e assenza che sono allo stesso tempo un monito e un’attesa. Aspettano quietamente di essere dischiusi da nuovi passaggi, nuovi nomadi, nuove avventure, nuove migrazioni che li riabitino. E contengono nel mentre un avvertimento contro quei pochi anni, tanto violenti quanto irrispettosi, che li hanno quasi del tutto cancellati. Il Molise, con le vie d’erba fantasma, con il vuoto che lo definisce, esiste come testimonianza – o forse ne è solo la sua pareidolia – di un lembo di terra aggrappato a un mondo ancora giovane e suo malgrado incorrotto.
di Mattia Iorillo* (da iltascabile.com)
(*): Mattia Iorillo è dottorando in Storia Contemporanea alla Sapienza Università di Roma. Si occupa principalmente dei processi di modernizzazione agricola e delle trasformazioni, ambientali e di immaginario, nelle aree marginali. Ha scritto diversi saggi e articoli su questi temi. Vive fra Roma e Isernia.
12 Marzo 2025