• 01/31/2019

L’Agricoltura molisana insieme a quella nazionale ha il fiato corto

Si “campa” alla giornata. Ormai non si può più parlare di crisi ma di disgrazia voluta

di Giorgio Scarlato

31 gennaio 2019

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E’ di qualche mese fa la grande manifestazione agricola tenutasi in Puglia davanti alla Prefettura di Bari in merito allo stato di profonda crisi  in cui versa il settore.

Un’agricoltura con poche certezze visto che non ci sono strategie per il futuro. Si “campa” alla giornata. Ormai non si può più parlare di crisi ma di disgrazia voluta.

Bisogna comprendere che la lotta agricola, pacifica, civile e democratica, serve per difendere quel mondo, soprattutto per i giovani insediati, ad avere il sacrosanto diritto al futuro e alla dignità.

E’ la lotta per rivendicare il diritto a produrre con redditi idonei, a poter vivere con nuove regole di mercato paritetiche. Una crisi che doveva essere passeggera è, invece, diventata cronica o, peggio, visti i risvolti attuali, un tumore metastatico. 

Certo, si avverte la stanchezza di questa battaglia impari combattuta in tutti questi anni ma, ancor di più ci si sente avviliti ed esasperati per la mancanza di risposte alle domande poste.

E’ tristemente sconsolante scrivere, focalizzare da anni, sempre le medesime cose sulla crisi del comparto e, peggio, di questi giovani che si sono inseriti nel settore da poco e che, malauguratamente, hanno già conosciuto la mancata redditualità in quanto non sanno più come andare avanti ( sono molti i giovani che hanno “impattato” con il Piano di Sviluppo Regionale).

Le famiglie agricole non sanno più come sbarcare il lunario. Nelle loro case, a causa dei mancati redditi, non regnano più pace e tranquillità.

L’anno appena trascorso per l’agricoltura molisana è stato un anno da dimenticare a causa del:

–  clima anomalo tropicalizzato che ha ridotto di molto le varie produzioni;

– le speculazioni sui prezzi all’origine riferiti a grano duro, ceci, lino, ortaggi, pomodoro da      industria, frutta, etc, che l’hanno fatto da padrone;

– la sperequazione di sempre tra i costi sostenuti per produrre le nostre derrate ed i prezzi dei prodotti importati.

Le nostre aziende agricole, le nostre terre non possono più essere “consegnate” alle banche, alle multinazionali, agli speculatori. Questa lunga ed immane crisi voluta dal “mondo indifferente che conta” ha lasciato al settore il giusto tempo per “inguaiarsi” in modo tale che appaiano “scelte volute” dagli stessi contadini che decidono (???) di chiudere le loro aziende e non imposte da “lor signori”. 

È la maniera soft, ottimale, del pensiero neoliberista, della globalizzazione. Strada che, in realtà, sta portato letteralmente alla fame.

Allargando il principio, il neoliberismo può essere inteso come uno stato patologico della società con una crescita continua delle disuguaglianze tra ricchi e poveri.

Gli innumerevoli errori commessi, le gravi responsabilità delle politiche, sia regionale che nazionale, non possono più essere tollerate e tanto meno ci si può ancora inchinare all’Unione Europea, miope, causa dei tanti danni arrecati in questi ultimi due decenni (Accordi con Egitto, Marocco, Messico, CETA col Canada, TTIP, ecc.).

Pare che il Italia ed in Molise ancor di più non si percepisca la gravità della situazione.

Da più parti si sente dire che il Molise dal punto di vista occupazionale è una regione “avara” nel far trovare occupazione. Una cosa è certa e verificabile.

Quando si chiudono Partite Iva di tante aziende agricole regionali o vedere cancellazioni INPS dopo 25 – 30 anni di pagamenti effettuati, o venire a conoscenza che tanti agricoltori sono in grande sofferenza con i pagamenti delle loro contribuzioni previdenziali, non si può non tenerne conto della grave situazione in cui versa il comparto.

Questa è la crudele realtà e non come ci vogliono far intendere che l’agricoltura…. tira (…le cuoia?).

Bisogna comprendere che, proseguendo su questa strada non resta altro che soccombere.  Tanti sacrifici compiuti, da generazioni, gettati alle ortiche. Si sa ma non lo si vuol dire che i macroindicatori economici (prezzi e redditi) indicano che l’agricoltura nazionale è, di più, quella meridionale “naviga” in un mare burrascoso e i “soloni”, “sparando” profezie che mai si potranno concretizzare, vogliono convincere di aver trovata (??) la soluzione. È come essere passeggeri sul transatlantico “Titanic” che imbarca acqua, l’orchestra suona e si fa finta di nulla, tanto, dice qualcuno: … ci salveremo.

L’unica cosa che resta da fare a livello regionale a questo punto è quella di far quadrato. Arrivare a fare una pianificazione coesa per uno sviluppo di stretta intesa con l’agroalimentare ed il settore turistico; unirci ed impegnarci, tutti, ad operare insieme affinché il vero Made in Molise funzioni ma in concreto e non come “Piacere Molise”.

Fare in modo che al coltivatore non diano manco le briciole (di guadagno). come a Lazzaro, ma un prezzo giusto che possa ristorarlo.

Ci stiamo rendendo conto che l’Italia sta diventando sempre più una nazione che consuma prodotti alimentari ma senza il lavoro dei suoi contadini, dei suoi “cafoni”? 

Quest’ultimi diminuiscono di numero proprio a causa dei prezzi globalizzati, di sottocosto, delle loro derrate visto che l’agroindustria pretende i prodotti, oggi tanto di moda: buoni, belli, salubri e pure nutraceutici ma a prezzi da Terzo Mondo. 

Ci stanno imponendo formaggi senza il nostro latte, pasta senza il nostro grano, succhi di frutta senza le nostre arance, salumi senza i nostri maiali, etc. Ciò non può essere più accettabile.

“Usano” il Made in Italy per etichettare prodotti, con minima parte di prodotto nazionale, che provengono da Paesi europei e non. Queste imposizioni approvate da una burocrazia asfissiante ed anomala non possono essere più sostenibili.

Si sta facendo passare il concetto, per verità già da molto tempo, che i meravigliosi prodotti della nostra tradizione alimentare siano soltanto ed esclusivamente merito dei grandi trasformatori; minimizzando o ignorando completamente “i tanti cafoni” che col sacrificio giornaliero danno vita, danno corpo, alle nostre inimitabili delizie.

Se non c’è il prodotto del vero made in Italy, se non c’è “il cafone” che lo produce, non potrà mai esserci l’agroalimentare vero italiano di cui tanti “im..prenditori” ne vanno orgogliosi!

Bisogna rendersi conto che il cibo che arriva sulle tavole degli italiani è prodotto da altri e tanti “poveri cristi”, contadini o braccianti che siano, da altri territori sfruttati dal neoliberismo globalizzato. 

La globalizzazione è una delle procedure più subdole che ha permesso ai potenti di sfruttare i deboli in ogni parte del mondo.

Ancora non si comprende che questo viaggio fattoci intraprendere col processo di globalizzazione è stato un viaggio con molti più naufraghi che naviganti?

E’sotto gli occhi di tutti lo sfascio ma tanti negano l’evidenza.

Ed è così che sulle nostre tavole, grazie alla GDO (grande distribuzione organizzata) principale canale di vendita che tende sempre a pagare di meno, il prodotto nazionale autoctono sta diventando una chimera; ci sono sempre meno derrate di produzione italiana, (fagioli dall’Argentina, ceci dal Messico, lenticchie dal Canada, dagli USA, nocciole dalla Turchia, grano duro dagli USA, dal Canada, olio di oliva dal Marocco, ecc.).

Questo punto focale non è mai inserito nell’ottica complessiva che analizza le cause; si sorvola. 

Logica conseguenza è il fallimento delle nostre aziende agricole. Gli innumerevoli sacrifici fatti per migliorare le nostre aziende sia in macchinari che in infrastrutture, con il crollo dei prezzi (bloccati, se non peggio, rimasti agli anni ottanta del secolo scorso) ed il continuo aumento dei costi di produzione ci ha “portati in braccio” alle banche che hanno avuto il compito di selezionare chi dovrà sopravvivere e chi dovrà morire. Questo non è altro che il frutto di decenni di una politica agricola nazionale che non ha saputo rispondere alle trasformazioni avutesi e vergognosamente ha delegato al mercato lo sporco compito di tagliare il numero delle imprese. Esempi? Zuccherifici, allevamenti avicoli, di bovini, di suini, cooperative ortofrutticole, ecc. 

Motivo? Inutile girarci intorno: mancanza di programmazione territoriale dovuta alla inoperatività politica la quale continua ancora ad esercitare un effetto calmierante sull’inflazione che tuttavia non riesce a trasferirsi al consumatore finale. Noi vendiamo in centesimi le nostre derrate, “loro” le vendono in euro. L’agricoltura nazionale è stata sempre merce di scambio, barattata, a vantaggio di altri settori produttivi. Il settore agricolo viene immolato sull’altare della realpolitik, a conferma che è considerato meno strategico rispetto ad altri settori. È stata, ed ancora lo è, la “cenerentola” delle varie situazioni venutesi a creare. Forse un concetto non si è compreso: si è di fronte ad un dramma sociale di ragguardevole gravità.

Si vuole una agricoltura ma senza agricoltori. Questa è la politica che impera, controllata dalle grandi aziende multinazionali dove il profitto è al primo posto mentre i “cafoni” e le loro aziende sono all’ultimo. 

La globalizzazione neoliberista ha, a poco a poco, trasformata l’agricoltura stessa, avvelenandola (concimazioni, agrofarmaci, sementi) ed impoverendo chi ci lavora (prezzi di vendita sempre più bassi).

Vergognosamente i raccolti sono considerati come merci e non più come risorse utili all’umanità per alimentarla.

Se una nazione non riesce a difendere la sua agricoltura perderà la sua sovranità alimentare e quindi il suo futuro non potrà che essere fosco. 

Saremo sempre più invasi da cibo industriale senza qualità alcuna e mangeremo prodotti che manco lontanamente si potrebbero paragonare ai nostri; globalizzati nel sapore, poco nutrienti e per nulla salutari.

Diventeremo una società malata.

Sta ad ognuno, con il proprio grado di responsabilità adoperarsi, impegnarsi, affinché ciò non avvenga, per noi ma soprattutto per le generazioni future. È nostro dovere tutelarle.

Termoli, 29 gennaio 2019                                                             

di Giorgio Scarlato (Comitato spontaneo agricolo “Uniti per non morire”)

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