• 06/25/2019

Per non dimenticare

“Terrone torna a casa tua, qui non ti vogliamo”

di Andrea Forgione – fb

25 giugno 2019

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Alla fine della prima media mio padre decise che dovevamo trasferirci a Fiorano Modenese, dove lui aveva trovato lavoro in una fabbrica di mattonelle. Ci servivano i soldi per ricostruire una vecchia casa che avevamo appena comprato. Fiorano era un posto carino: non molto grande, situato in pianura, con inverni nebbiosi ed estati afose, regno dalle zanzare. Poco male, le zanzare non mi pungono, mi possono camminare addosso ma non amano il mio sangue. La nostalgia di Paternopoli mi assalì quasi subito. Niente fiume dove fare il bagno, poche lucertole da catturare, niente piazzetta dove giocare scalzi a nascondino, niente frutta da rubare. Solo macchine, fabbriche ed un dialetto sconosciuto, quasi uno slang francese. E venne il primo giorno di scuola. Fui assegnato alla seconda media sezione B. Entrai in classe e mi sedetti in un banco singolo, l’unico libero. Pochi minuti ed entrò l’insegnante di italiano. Fece l’appello e per ultimo indicò me. Usò queste parole: “Ragazzi, quest’anno abbiamo un nuovo compagno di scuola, viene da Avelino”. Poi mi fece alzare per presentarmi.

Fu allora che in dialetto paternese articolai alcune parole che per tutti risultarono incomprensibili, compresa la professoressa. Tutti risero… qualcuno si spinse a domandare se Avellino era in Italia. Mi sedetti sul banco come se un macigno mi fosse crollato sulle spalle. Terminata l’ora di lezione vennero i 5 minuti di pausa. Una ragazzina alta e magra, Angela Beltrami, anni dopo deceduta in un incidente stradale, si avvicinò e mi toccò il braccio. Poi, con la stessa mano, toccò un’altra ragazzina dicendo di aver toccato l’animale terrone. Questa a sua volta toccò un’altra ragazzina e così via. Ognuna di loro appena sfiorata faceva una faccia schifata e gridava come in un delirio collettivo. Un gioco, sì, solo un gioco, ma crudele e razzista. Ed io lì, in piedi, fermo nel corridoio a guardare e subire i loro insulti. Uno scattò d’ira mi assalii ed allora spinsi per terra l’ultima ragazzina toccata dalle amiche che aveva avuto la sfrontatezza di dirmi “Terun, torna a casa tua”.

A quel punto tre maschi, con in testa il più grosso della classe, mi circondarono e presero a darmi botte. Fui salvato dal bidello, meridionale anche lui di Nardo’ (Lecce), che mi portò in bagno per mettermi l’acqua sul viso e per consigliarmi ‘di sopportare tanto alla fine mi avrebbero accettato’. Per due giorni non andai a scuola poi mio padre mi impose di tornarci. Appena entrato in classe riprese il gioco crudele con la gang sempre più in vena di angherie. Una mattina eravamo tutti davanti alla scuola in attesa del suono della campana, io da solo appoggiato ad un muretto, quando quattro ragazzini si fecero avanti per ordinarmi di tornare a casa. Questa volta, però, prima che il capo potesse mettermi le mani addosso gli applicai la tecnica appresa in piazza Angelo da Scipione, al secolo Volpe Giovanni, attuale comandante dei vigili urbani di Paternopoli: appena fu a tiro gli detti una sonora testata sul naso. Il ragazzo cadde a terra con il sangue che usciva copioso dalle narici. Disteso a terra con la faccia sanguinante non faceva più tanta paura.

Alla vista del sangue gli amici del piccolo boss scapparono mentre gli altri si girarono a guardarmi. Io, invece di fuggire, li sfidai: “Qualcun altro vuole fare la stessa fine?” Suonò la campana ed entrammo. Il ragazzino fu portato in ospedale e di lì a poco giunsero i suoi genitori ed io fui convocato in Presidenza. Fui redarguito pesantemente ma nessun provvedimento fu preso, perché l’episodio era avvenuto fuori dall’orario di lezione, ad esclusione del fatto che mio padre dovette andare dal preside il giorno dopo. Da quel giorno nessuno più si prese gioco di me, anzi, mi evitarono totalmente. E questa cosa mi feriva più del giochino crudele delle ragazzine, che nel frattempo avevano smesso di praticarlo. Furono settimane di disagio e riflessione. Infine compresi che un problema esisteva: non sapevo scrivere e parlare in italiano. Fu così che un pomeriggio mi recai al comune di Fiorano, dove mi avevano detto c’era una fornitissima biblioteca comunale. Era un ambiente grande, a due piani, con scaffali enormi pieni di libri, divisi per letteratura.

La signora, gentilissima, mi accolse e mi chiese di cosa avevo bisogno. Io risposi: “Voglio imparare l’italiano”. Lei allora disse: “Ragazzino, per imparare l’italiano devi leggere, leggere e leggere”. Fu così che mi fece l’iscrizione e mi consegnò tre libri di avventura. Dopo pochi giorni ero di nuovo in biblioteca per restituirli. Le settimane passavano e la signora mi guidava nella lettura scegliendo i libri per me. Finite le ore di scuola prendevo i miei libri e salivo al santuario-castello di Fiorano, una chiesa posta su una piccola collina da dove si godeva il panorama del paese e dell’intera pianura. Poi, un giorno chiesi alla signora la “Disubbidienza” di Moravia. La signora me lo diede e aggiunse: “Da oggi in poi scegli da solo i libri”. In un anno lessi Verga, Svevo, Pirandello, Montale, Proust, Joice, Kafka, Hemingway, Dostoevskij e il mio preferito Hermann Hesse. Il risultato fu che verso la fine dell’anno i miei risultati scolastici erano cresciuti in maniera esponenziale, fra lo stupore dei compagni. L’anno volgeva al termine ed un giorno la professoressa di italiano diede tre tracce per l’ultimo compito in classe. Io scelsi la traccia di attualità che verteva proprio sulle nuove emigrazioni.

Dopo tre giorni venne il momento della consegna del compito. L’insegnante era solita chiamare per nome l’alunno che doveva andare alla cattedra per ascoltare il giudizio e ricevere il voto. Chiamò tutti fuorché me. Allora chiesi di sapere il mio voto. Lei, rivoltasi alla classe, disse: “Ho tenuto per ultimo il tema di Andrea perché è bellissimo, il più bel tema che abbia corretto negli ultimi anni. È un elaborato scritto in un italiano corretto e dai contenuti profondi che denotano una sensibilità rara e preziosa. Bravissimo Andrea in questo anno hai fatto un ottimo lavoro. Ti do il massimo voto nella mia materia”. E poi lesse il tema e nel tema c’ero io, il ragazzo del naso rotto, le ragazze, la professoressa… c’eravamo tutti, compresa Nadia Frigeri, la più bella ragazzina della classe. C’era Paternopoli, Fiorano, mio padre, il padre del ragazzo sanguinante, il preside… c’erano le nostre storie. Finii la scuola e fui promosso. Al quel punto mio padre mi permise di tornare finalmente a Paternopoli per le vacanze. La partenza era fissata per il lunedì successivo. Nel pomeriggio salii come al solito sulla collinetta del santuario. Ero seduto sulla panchina a leggere quando vidi tre ragazzine in bicicletta. Si avvicinarono. Erano tre compagne di scuola ed una era Nadia, la biondina. Scesero dal sellino, Nadia mi salutò e disse: “Andrea, ti farebbe piacere venire sabato al mio compleanno?” 

La guardai e rimasi in silenzio, temendo uno scherzo di cattivo gusto, ma Nadia insistette: “Mi farebbe piacere, davvero. Lo faccio a casa mia sulla strada per Spezzano. Puoi venire in bici se vuoi”. “Nadia, – risposi- io non ho la bicicletta, ma verrò’”. Le tre ragazzine risalirono e si allontanarono. Sabato sera andai a casa di Nadia a piedi. Aveva una casa bellissima: una villetta con giardino e diverse macchine costose parcheggiate nel viale. Suonai e subito venne ad aprirmi la festeggiata. Era davvero la più bella della classe. Fu cordiale e mi fece entrare. Mi presentò ai suoi genitori, due persone perbene. La madre, forse di origine austriaca, disse: “Andrea, Nadia ci parla spesso di te. Eppure non sembri un meridionale. Sei biondo con gli occhi chiari. Pensavo che eri scuro con i capelli neri. Mio marito una volta, durante il servizio militare, è stato ad Avellino, è molto lontano da qui?” “Signora circa 700 Km” le risposi. Cominciò la festa, mangiammo poi misero su la musica. Io uscii fuori in giardino e covavo l’intenzione di andarmene, quando Nadia mi raggiunse fuori e mi invitò a ballare. Un ballo veloce di gruppo, ma nel gettarmi in pista mi teneva per mano, la stessa mano che pochi mesi prima mi aveva trattato come un lebbroso. Per quel gesto non l’avrei mai più amata ma, adesso, quella stessa mano mi restituiva la dignità di essere umano. Alla fine della terza media io mi iscrissi al liceo scientifico mentre la maggior parte di loro preferì scuole con diplomi finiti. Non cercai mai di somigliargli. Anzi, mi sforzai di rimanere me stesso, lo scienziato di sempre. Cambiai compagni e mi feci qualche amico vero ma a volte, nonostante siano passati 40 anni, qualcuno di quella scuola media ancora mi telefona per gli auguri di Natale. I bambini e gli adolescenti sanno essere molto cattivi ma lo sono sempre perché le famiglie e la scuola insegnano ad aver paura dell’estraneo, paura che genera l’incomprensione e la diffidenza, l’anticamera del razzismo.

Eppure il nostro Cristo è ebreo

e la nostra democrazia è greca.

La nostra scrittura è latina

e i nostri numeri sono arabi.

Le nostre moto sono giapponesi

ed il caffè è brasiliano.

Il nostro orologio è svizzero

e il nostro cellulare è cinese.

La pizza è italiana

e la nostra camicia hawaiana.

Le vacanze sono turche,

tunisine, marocchine, egiziane…

Siamo cittadini del mondo,

non possiamo rimproverare al nostro vicino

di essere straniero.

Apparteniamo tutti all’unica razza conosciuta, quella umana… diceva Albert Einstein.

Ecco perché proibisco categoricamente ai miei figli termini quali negro, scimmia, zingare etc. Siamo tutti fratelli. Se bisogna rompere il naso a qualcuno lo devi fare senza pensare al suo credo religioso, al colore della pelle o alla sua provenienza. Bisogna romperglielo solo perché quel naso è il naso di uno stronzo ed un violento e non ci sono margini per una discussione civile.

di Andrea Forgione – fb

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