Un metro e novantaquattro di musica
Il racconto ai lettori della rivista “Il Bene Comune” di alcuni momenti decisivi del percorso umano e professionale di Giuseppe “Spedino” Moffa
di Antonio Fanelli* (da ilbenecomune.it)
22 gennaio 2020
Domenica mattina ci ascoltiamo un promo o demo: un cd di canzoni scritte e musicate da Giuseppe Moffa da Riccia (Campobasso). Un metro e novantaquattro di timidezza e di pudore. Un metro e novantaquattro di musica, alla grande, ricca di memoria e di storia e di presente. Giuseppe suona chitarra e ciaramella e zampogna e organetto diatonico e chi manda il piano ha il blues dentro nella testa e nel cuore e nelle dita e le voci sono ricche e piene …”. Fu Ivan Della Mea con la sua straordinaria curiosità intellettuale a ‘scoprire’ e ‘lanciare’ sui media nazionali il talento musicale di un allora sconosciuto Giuseppe “Spedino” Moffa. Sulle pagine dell’ “Unità” aveva recensito la finale del Festival di Sanremo del 2006 con un titolo avvincente ed emblematico: “Ascoltando il Moffa s’è perso chi ha vinto Sanremo. Ne valeva la pena”. Quel “gigante buono” – come lo chiamava scherzosamente Ivan – era giunto all’Istituto Ernesto de Martino per ascoltare dei nastri magnetici con la speranza di trovarvi delle registrazioni sul campo utili per il nostro lavoro di ricerca sulle musiche tradizionali di Riccia. Giuseppe era timoroso al cospetto di quel “personaggio” così burbero ma generoso che invece colse immediatamente la forza musicale del suo progetto. Eravamo nel marzo del 2006 e l’esordio discografico di “Spedino” con il disco “Non investo in beni immobili” sarebbe avvenuto nel 2010 con un album che mise subito in evidenza il connubio vincente tra la rielaborazione in chiave blues di brani tradizionali e la creazione di brani d’autore intrisi di suggestioni colte e di influenze decisive della world music. In quell’articolo c’era anche un’altra intuizione di Ivan che Giuseppe recepì immediatamente, quella di immaginare una formazione musicale aperta e variegata con amici e compagni di strada definiti “compari”.
In realtà c’erano state due “anticipazioni”: un disco “artigianale” interamente autoprodotto, “Produzione propria” (2007), con composizioni originali dedicate ai repertori tradizionali per zampogna, una sorta di preludio della Zampognorchestra e del bellissimo “Bag to the future” (2012), uno dei frutti migliori e più affascinanti del lavoro di “Spedino”; e nel 2005 un primo “esordio” che ci vide assieme come collaboratori di Ciro De Rosa nella compilation dedicata al Molise dalla rivista “World Music Magazine” per la collana “Tribù Italiche” sia nella veste di ricercatori sia in quella di interpreti-innovatori di licenziosi “Stornelli” in dialetto riccese.
Nel 2008 su indicazione di Pietro Clemente il comitato scientifico del Mibact presieduto da Paolo Apolito lo scelse fra gli artisti della rassegna del Vittoriano di Roma dal titolo “Ieri, oggi e domani. L’Italia delle tradizioni” e in quella occasione si tenne anche un omaggio speciale al Molise e al grande studioso della nostra terra, Alberto Mario Cirese, con una esecuzione della “Pagliara” di Fossalto frutto delle ricerche ciresiane del dopoguerra.
Nel 2011 vide la luce il nostro libro “Acque e jerve in comune. Il paesaggio sonoro della Leggera contadina di Riccia” con le Edizioni Nota. Le irripetibili giornate dedicate a registrare gli anziani contadini della nostra comunità si concludevano inevitabilmente con delle lunghe e picaresche nottate nei bar riccesi per cantare quegli insoliti boccacceschi, poetici e scurrili brani che per molti decenni erano stati rimossi e dimenticati. Un caro amico ci disse a un certo punto che secondo lui l’obiettivo del nostro lavoro era quello di far scoprire “l’orgoglio contadino” alle persone del nostro paese. Aveva ragione. E prima di farlo scoprire agli altri dovevamo impararlo noi stessi, scavando nelle nostre memorie familiari per ricucire i fili della memoria in una comunità rurale attraversata da trasformazioni sociali repentine e da fratture culturali che ci separavano inesorabilmente dal vissuto delle generazioni precedenti.
Ma “Spedino” ha fatto molto di più.
Ha deciso di tornare, di vivere e lavorare in Molise. Di impegnarsi nella didattica per diffondere la zampogna, di collaborare con scuole di musica e associazioni culturali, festival e feste paesane. Di animare incessantemente la scena musicale molisana grazie alla collaborazione con gli amici della Riserva Moac e al recente e fruttuoso sodalizio con Stefano Sabelli e con il Teatro del Loto. Tra Riccia, Roma e l’Abruzzo ha rinsaldato delle collaborazioni preziose con alcuni “compari” musicisti, con incursioni nei repertori kletzmer e manouche grazie ai “Taraf de Gadjo” e ai mille matrimoni in giro per la nostra regione e poi l’incontro fondamentale con Simone Talone e Primiano Di Biase che hanno aperto la strada ad altre avventure musicali con Neri Marcorè, Maria Pia De Vito, Canio Loguercio e Alessandro D’Alessandro. La candidatura per la Targa Tenco e il riconoscimento ricevuto al Premio Loano suggellano poi il successo del secondo e impegnativo cd dal titolo emblematico “Terribilmente demodè” (2015).
Ma c’è qualcosa in più in questa “musica, alla grande, ricca di memoria e di storia e di presente”, come scrisse Ivan Della Mea, ed è la sua creatività incessante che si lega alla scelta coraggiosa, libera, spregiudicata e finanche rischiosa di non confinarsi negli steccati angusti ma più rassicuranti del folklorismo romantico e bucolico o del purismo settario e anacronistico di certo folk revival di maniera. “Spedino” sfugge a queste categorie e soprattutto si ostina a smarcarsi strenuamente dalle scelte più modaiole perseguendo una cifra autoriale che vede riemergere carsicamente la passione per la scrittura musicale e il gusto magistrale per l’arrangiamento e per le orchestrazioni sinfoniche, senza per tale motivo posizionarsi in una sfera colta e autoreferenziale che snobba e disprezza i contesti locali.
Infatti sulla carta d’identità di Giuseppe c’è scritto “zampognaro”. E non si tratta di un vezzo e lo sa bene chi lo vede percorrere da 15 anni le strade di Riccia per la “Novena” di Natale con l’immancabile Cristian Panichella avendo così il privilegio di ricevere in casa l’omaggio musicale di un artista del suo calibro.
Giuseppe ha scelto con coraggio di porre Riccia e il Molise come base e come perno della sua vita professionale e il nostro paese e la nostra Regione hanno ricambiato la sua scelta con un pieno e solidale sostegno. Se il Molise c’è, come recita uno slogan identitario diffuso in regione, e resiste al degrado, allo spopolamento e alla crisi lo deve anche ai suoi straordinari artisti che riescono a collegare la nostra terra e il suo vissuto locale con scenari culturali e artistici di rilievo internazionale.
Grazie pertanto alla rivista “Il Bene Comune” per aver dedicato a Giuseppe Moffa un posto d’onore e in copertina. Grazie inoltre ad Antonio Ruggieri per avermi dato l’opportunità di raccontare ai lettori della rivista alcuni momenti decisivi del percorso umano e professionale di Giuseppe che ho avuto il privilegio e la fortuna di seguire molto da vicino.
di Antonio Fanelli* (da ilbenecomune.it)
*Università di Firenze (Dipartimento SAGAS) Istituto Ernesto de Martino (Giunta Esecutiva – Comitato Scientifico)