Il Convito di S. Giuseppe
I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre
di Vincenzo Colledanchise
5 marzo 2020
Annualmente, in casa dei suoceri, in occasione della festività di San Giuseppe, si rimetteva in funzione l’antico forno di casa e le due fornacelle, sulle quali si cuoceva la verdura di stagione e a fuoco lento il baccalà origanato, che per non farlo scuocere, lo si adagiava sulle canne spezzettate nel ruoto.
Nel vecchio camino il suocero alimentava la fiamma per far cuocere i maccheroni, che poi sarebbero stati conditi con la mollica sbriciolata giorni prima dai grandi panelli mediante l’ausilio della tavola di bucato, e intrisi di olio d’oliva, aglio e prezzemolo.
A ridosso del camino, dominavano le due grandi pignatte piene di fagioli, i migliori, quelli “bianchi a confetto”.
Il gorgoglio della bollitura dei fagioli nelle pignatte, inondavano la casa di quel tipico odore che faceva venir l’acquolina in bocca.
Venivano serviti a tavola anche gli spaghetti con le alici e il riso col latte, e infine la zeppola di S. Giuseppe.
Si ritrovavano sempre gli stessi ospiti, seppure in passato venivano invitati i più poveri, per tener fede alla tradizione della carità cristiana di consumare per devozione quel pranzo di magro, cosi definito perché le carni vi erano bandite.
Il grande quadro del santo dominava la piccola saletta, nella quale si teneva il convito. Davanti al quadro si recitavano le preghiere dei commensali, dopo che la tavola era stata benedetta dal sacerdote.
Dopo aver consumato il pranzo ci si sentiva sazi ma dolenti; non si resisteva al fascino di rimettere piede nel passato gastronomico degli avi che, evidentemente, dovendo zappare e fare lavori pesanti, smaltivano molto più facilmente quel lauto pranzo contadino.
(Foto: Paolo, padrino della nostra Angelica)
di Vincenzo Colledanchise