• 11/03/2020

Vicinanza sociale

La distanza fisica e la distanza sociale non sono la stessa cosa

di Rossano Pazzagli (da “La Fonte”, novembre 2020)

3 novembre 2020

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Il distanziamento sociale è un concetto inaccettabile, adatto alle società stratificate e gerarchiche, verticali e immobili. Si legge ormai comunemente nei decreti e negli avvisi pubblici, scritti o sonori che siano. Mantenere la distanza sociale significa cristallizzare i ruoli, le differenze tra il ricco e il povero, il cittadino e il contadino, l’operaio e l’imprenditore, il proprietario e il nullatenente. Perché, in un momento come questo, in cui sarebbe necessario incoraggiare la solidarietà e l’uguaglianza tra le persone, si è scelto l’uso e l’abuso di questa terminologia come strategia per combattere il diffondersi dell’epidemia? Non si poteva, più semplicemente, indicare il distanziamento fisico come forma di resistenza al contagio? Fisico, anziché sociale. Le parole non sono mai neutre e il linguaggio tradisce il modello di organizzazione della società che si ha in mente. La distanza fisica e la distanza sociale non sono la stessa cosa: la prima è una grandezza oggettiva e misurabile, necessaria in certi casi; la seconda è una condizione che implica una collocazione nella scala sociale, collegata a un senso di superiorità o di inferiorità. Distanziamento sociale è, in un certo senso, anche un invito all’isolamento: degli individui, delle famiglie, dei paesi, delle comunità. Sempre, nella storia, le epidemie sono state l’occasione per affermare un disciplinamento sociale che poi è sopravvissuto al contagio, rendendo gli individui meno inclini al cambiamento, più timorosi di Dio o della natura, schiacciati dalla paura della morte e dalle ansie del domani. Sono stati sempre i più deboli e i più poveri a pagare il prezzo più alto, anche se qualche volta le pestilenze hanno contribuito a spazzare via i soprusi e le contraddizioni del sistema vigente, a scuotere nel profondo pratiche e attitudini consolidate, come ci ricorda ne I promessi sposi l’immagine della scopa riferita all’epidemia del ‘600 raccontata dal Manzoni: “E’ stata un gran flagello questa peste – fa dire a Don Abbondio – ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più”.

La storia umana ci fa vedere come le crisi dovute alle pandemie possono essere superate, rendendo la crisi un’opportunità, ma anche facendo tesoro degli errori e degli effetti sociali dei provvedimenti per contrastarle. Ogni tanto, voltarsi indietro per guardare la scia può servire per proseguire sulla retta via. È evidente che nel loro insieme le misure adottate per contenere il virus approfondiscono le differenze sociali e le rendono più palesi. Più o meno dure che siano, esse hanno infatti minore impatto sui ceti megliostanti della società, mentre risultano più pesanti per tutti coloro che sono in condizioni sociali più disagiate. Una quarantena, ad esempio, non è la stessa cosa e non comporta gli stessi pesi per chi ha una villa con giardino e per chi abita in un modesto appartamento in un condominio urbano al quarto o quinto piano, tra chi ha un reddito garantito e chi no; una lezione a distanza non ha la stessa efficacia per chi dispone di reti e dispositivi avanzati e per chi ha deboli connessioni e computer obsoleti, per chi abita nelle città e per chi abita nei paesi e nelle campagne; lo smart working privilegia il lavoro intellettuale e/o le attività terziarie rispetto a chi opera nei settori produttivi (industria, agricoltura) o che svolge lavori manuali. Trattare tutti alla stessa maniera non è un buon modo per produrre uguaglianza. Ciò vale per i gruppi sociali, per le persone e per i territori.

In una società stratificata e in un territorio variegato come quello italiano, per generare uguaglianza occorre applicare i principi della differenziazione e della sussidiarietà, come indica anche la nostra Costituzione. E occorrono linguaggi appropriati, che non generino abitudini mentali tesi al mantenimento dello statu quo, cioè alla cristallizzazione delle disuguaglianze. Per affrontare l’emergenza sanitaria sarebbe stato meglio parlare di distanziamento fisico e favorire la vicinanza sociale, la solidarietà. Così assieme alla salute avremmo meglio tutelato e promosso anche una società più equa e coesa.

di Rossano Pazzagli (da “La Fonte”, novembre 2020)

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