• 03/30/2021

Architetture calate dall’alto

Da molto in alto, cioè dallo Stato centrale che con queste opere risponde a proprie esigenze, piuttosto che al fabbisogno della cittadinanza 

di Francesco Manfredi Selvaggi 

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30 marzo 2021

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È già un passo in avanti quello che fecero i Borboni con la costruzione di attrezzature statali in periferia 2 secoli fa rispetto al passato nel quale non si era mai provveduto da parte del governo nazionale a promuovere la realizzazione di alcunché in zone periferiche come la nostra. Si prescinde dai Romani.

Nella nostra regione è solo nel XIX secolo che iniziano a costruirsi opere pubbliche da parte delle autorità nazionali, in precedenza ogni, diciamo così, attrezzatura di interesse collettivo era realizzata dai governanti locali, cioè i feudatari che, però, si limitavano ai castelli i quali erano manufatti per la loro difesa personale e, insieme, della comunità che qui si rifugiava nei momenti di pericolo. Per le cinte murarie, incluse le torri, si può ritenere che la loro edificazione fosse stata promossa direttamente dalla popolazione.

Come ogni buona regola c’è un’eccezione ed è il Castello Svevo di Termoli voluto da Federico II per proteggere la costa la quale rappresentava, e rappresenta, un confine del regno contro le incursioni/invasioni via mare, quindi a tutela dell’integrità dello Stato più che dei villaggi rivieraschi. Finora abbiamo parlato di manufatti a finalità militare, non facendo cenno a quelli a scopo civile e la ragione è che da noi non si è vissuta la stagione della «civiltà dei comuni» con i suoi palazzi civici, sedi delle amministrazioni comunali.

La stessa cosa, cioè la mancanza di strutture espressione della volontà degli organi centrali, la si ritrova anche nel campo degli edifici religiosi. Mentre altrove si ritrova qualche esempio di fabbricato cultuale fondato ad iniziativa di papi o cardinali, sia pure a titolo di mecenatismo, magari nelle località di origine, nel Molise non è successo niente di simile. Pure in questo caso, a conferma che la regola è esatta, c’è l’eccezione che è costituita dai monasteri, prendi quello di S. Vincenzo al Volturno, i quali nascono per azione degli ordini conventuali in maniera indipendente rispetto alle determinazioni dei rappresentanti istituzionali del posto in cui si installano, cioè senza essere invitati, per così dire, ma si sa che l’organizzazione monastica è distinta e separata da quella ecclesiastica.

Finito questo lungo preambolo riguardante la situazione ad esso precedente ritorniamo al 1800 e ci concentriamo sul capoluogo regionale che per il suo ruolo è il punto privilegiato per il verificarsi delle novità. La prima metà del secolo è l’ultima fase del reame delle Due Sicilie e forse, proprio perché è quella finale, una maggiore vitalità è sempre legata all’avvicinarsi della fine, si ha una produzione superiore di infrastrutture; queste ultime sono servite, prendi la ferrovia Napoli-Portici, a non lasciare un ricordo del tutto negativo dei Borboni.

Nella nostra regione abbiamo il ponte dei “25 archi” di scavalcamento del Volturno, di cui il numero di arcate ci rivela l’imponenza, e il carcere provinciale. È un’architettura innovativa di matrice illuminista, tutt’altro che di stampo ancien regime come ci si sarebbe stato da aspettare da una monarchia, quella borbonica, che, per antonomasia, è considerata retrograda. Essa è impostata sullo schema del panopticon, letteralmente l’occhio che tutto vede, affermatosi in terra americana a partire dal prototipo di Filadelfia, città in cui, significativamente, è stata firmata la Costituzione di questa nuova nazione, impregnata di ideali progressisti.

I corpi di fabbrica destinati alla detenzione, suddivisi per età, sesso, reati, sono disposti a raggiera intorno ad una cappella di forma, appunto, oculare dalla quale le guardie carcerarie, poiché vetrata, possono controllare agevolmente i movimenti dei detenuti nei vari bracci. A loro volta costoro non riuscivano a scorgere colui che li sorvegliava il quale poteva pure non esservi e tale sottomissione allo sguardo è assunta quale condizione emblematica degli individui nella società contemporanea. Il controllo sui singoli comincia a diventare altamente pervasivo e dalle prigioni questo sistema viene trasferito, nell’epoca attuale, in altri settori della vita sociale con telecamere di videosorveglianza agli ingressi di banche, municipi, ecc..

In definitiva, il modello panottico partendo dall’applicazione carceraria dettata da esigenze di sicurezza si estende man mano in qualsiasi campo della nostra esistenza fino a diventare ciò che oggi chiamiamo il Grande Fratello. Non dovevano, di certo, essere queste le intenzioni del re di Napoli, ma, ad ogni modo, egli contribuì a gettare le basi dell’invisibilità del potere, sempre presente anche se la sua presenza non è verificabile. Dopo l’unità d’Italia si intensifica l’azione statale in termini anche di visibilità nelle Provincie, soprattutto nelle loro “capitali”, tra cui Campobasso, attraverso una rappresentazione fisica che rendesse ben percepibile da parte della popolazione l’entità statuale unitaria.

Tra i diversi palazzi che spuntarono (non dal nulla in quanto si sovrapposero ai vecchi conventi, ormai soppressi) oltre alla Prefettura e al Convitto Sannitico vi è quello delle Poste sul quale, di seguito, ci soffermeremo un po’ perché, prima abbiano toccato il tema della privacy, quello della trasmissione delle comunicazioni è una questione che è altrettanto vitale, per ciò che qui interessa, per la diffusione delle notizie, un tempo a mezzo stampa essendo i giornali spediti per posta. Stavamo per fare l’ingresso nell’era dei mass-media in cui oggi siamo calati fino al collo.

Non era sicuramente efficiente la catena delle taverne (a Vairano c’è la «taverna catena» che ci ricorda il fatto che formano una rete), una, la Taverna del Procaccio, la figura incaricata del servizio postale, stava a Campobasso, non garantendo la rapidità del trasporto. Le poste, così si chiamano nell’uso comune, sono collocate nella parte centrale dell’agglomerato urbano per permettere alla cittadinanza di accedervi con facilità, da un lato, e, dall’altro, tale ubicazione appare come una scelta simbolica perché, insieme ai caratteri stilistici di pregio in facciata, ne sottolinea il peso che il governo nazionale intende attribuire a tale attività la quale svolge un ruolo unificante del Paese.

Infine, si vuole segnalare tra le costruzioni, adesso il salto temporale è notevole, quasi 100 anni, comparse nel panorama cittadino, per esattezza in periferia, lo stadio, pur se esso non è qualcosa di impulso ministeriale, con l’apposito Ministero dello Sport, che si limita, si fa per dire, ad assegnare, tramite il Credito Sportivo, i fondi. La competenza è municipale nonostante che, date le sue cospicue dimensioni, la sua capienza risulti proporzionata per la popolazione della regione invece che della città che lo ospita (a differenza, si noti, del “vecchio” Romagnoli).

Di comunale ha, comunque, ben poco escludendo l’approvazione del posizionamento urbanistico, il finanziamento è esterno, l’esecuzione dei lavori ha a supporto la società calcistica, con il presidente della squadra che è un imprenditore edile, la sua grandezza non è rapportata, lo si ripete, agli abitanti della città. Tutto ciò non conta, se l’operazione è stata eterodiretta oppure condotta direttamente dal Comune, importa il significato di cui lo stadio è carico, quello di essere il templio del calcio di cui ogni regione è indispensabile sia dotata per officiare il rito del pallone, ogni domenica, un fenomeno dei tempi moderni, che è a metà tra i consumi di massa e la distrazione delle masse. È un mondo quello del tifo dietro il quale si nasconde un enorme business dal quale Campobasso, volente o nolente, non ha la facoltà di escludersi per cui sarebbe stata obbligata, nell’ipotesi che non lo avesse voluto, ad accettare lo stadio.

di Francesco Manfredi Selvaggi (da ilbenecomune.it) 

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