• 12/23/2022

Città/campagna

Due termini antitetici che si riferiscono a realtà geografiche separate e nello stesso tempo spalla a spalla l’una all’altra

di Francesco Manfredi Selvaggi

29 dicembre 2022

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Il territorio rurale appare il complemento di quello urbano il quale non può fare a meno di esso sia per il fabbisogno alimentare sia per lo svago all’aperto sia per l’ubicazione di impianti per il trattamento dei reflui urbani solidi, le discariche, liquidi, i depuratori.

Città e campagna è un binomio che in molte fasi storiche è apparso indissolubile. Non lo è, di certo, oggi poiché l’approvvigionamento alimentare dei centri urbani non è più affidato al contesto rurale che sta ad essi intorno, la fornitura di cibo essendo ora assicurata da mercati delle produzioni agricole di scala nazionale se non internazionale. In verità non lo è stato sempre anche in passato e la realtà specifica che vogliamo esporre lo dimostra seppure lo si ammette si tratta di una situazione a parte.

Termoli, è questo il caso, ha fin dalla sua origine un rapporto flebile con la campagna ad essa circostante almeno dal punto di vista, quello che ci interessa, del soddisfacimento del fabbisogno nutritivo della popolazione. Fino all’esecuzione dei lavori di prosciugamento dei terreni compresi nella fascia costiera avvenuta appena un secolo fa inondati dalle acque del Biferno che frequentemente straripava l’unica cittadina molisana affacciata sul mare risultava, sul lato verso terra, circondata da estese paludi, Pantani Alto e Basso, per cui il suolo coltivabile era di estensione ridotta.

La relazione della città con il suo agro che abbiamo visto sopra essere esile non cambia con l’intervento di bonifica e ciò per due ordini di ragioni. La prima è che tale azione di “redenzione delle terre” come fu definita all’epoca venne condotta dall’autorità centrale e non da quella locale e, tanto meno, da quella municipale, un’iniziativa, il bonificare il territorio, assunta dallo Stato autonomamente, senza la partecipazione fattiva del Comune. Altrove, nello stesso Molise, sono state le classi abbienti presenti nei nuclei di rilievo a investire per migliorare l’assetto agrario del circondario, vedi i “casini di campagna” nella piana di Venafro, nel contempo ville e fattorie, mentre qui, lo si ribadisce, tutto è partito dal centro.

Il governo nazionale non ha coinvolto nelle decisioni sulla trasformazione territoriale le istituzioni del posto tenendo da parte la cittadinanza su quanto avveniva in casa nostra. Nemmeno il ceto borghese con le sue capacità finanziarie che si sarebbero potute indirizzare verso investimenti sulla terra è stato reso partecipe del progetto in corso di trasformazione dell’area. Gli appezzamenti coltivabili recuperati vennero assegnati a coloni, in maggioranza persone provenienti da fuori e, addirittura, vi è stato un accenno di realizzazione di agglomerati insediativi a sé stanti, indipendenti dalle realtà abitative esistenti nel comprensorio bassomolisano.

Nuova Cliternia sorta all’interno dei confini amministrativi di Campomarino, insieme a Melanico che sta a S. Croce di Magliano, risponde al modello delle company town del Nord America o, se si vuole, dei villaggi operai del Nord Italia creati da imprenditori filantropi, entrambe unità residenziali con marchio aziendale, nella fattispecie l’azienda è l’Ente di Riforma Agraria. In definitiva si verifica che non è la campagna in dipendenza della città, ma che è vero esattamente l’opposto, è la seconda, non conta la dimensione, ad essere a servizio della prima.

Questo fenomeno di un ambito, in riguardo dell’agricoltura, etero diretto ovverosia dipendente da scelte nel campo agronomico effettuate da soggetti esterni ad esso si intravede pure in altre parti della regione. Si pensi alle tante imprese zootecniche molisane che stipulano contratti con industrie lattiero-caseario di fuori alle quali si impegnano a cedere in una data quantità il latte prodotto sulla base di un prezzo concordato in anticipo e nei confronti delle quali si sentono obbligate a seguire, al fine di garantire una determinata qualità dei latticini, protocolli definiti per l’alimentazione delle bestie.

Come è ben possibile vedere ciò non ha niente a che vedere con il prodotto tipico, con la valorizzazione dell’enogastronomia tradizionale, segmento importante del marketing turistico nostrano. Le società industriali promotrici di tali accordi con gli allevatori assumono un ruolo abbastanza decisivo nello sviluppo zonale, acquistando un peso superiore a quello degli organi istituzionali deputati nella gestione del comparto dell’agroalimentare. Quanto si va delineando appare quale possibile futuro per questa terra, una tendenza su cui non è facile esercitare un controllo da parte degli organismi rappresentativi della comunità.

Non è, però, una questione di contrapposizione tra forestieri e indigeni, già in precedenza si era sperimentato qui da noi qualcosa di simile con protagonisti operatori “autoctoni” (SAM, Conservificio, Zuccherificio) con la differenza non da poco, comunque, che con questi ultimi la filiera si completa in loco, una “filiera corta”, mentre quando fan capo a entità imprenditoriali extraregionali si ha una “filiera lunga”, il ciclo si chiude al di là, anche di molto, del perimetro regionale. Le imprese allogene sembrano godere di una sorta di extraterritorialità, di indifferenza al luogo; vi è una labilità nelle connessioni tra queste il contesto sociale a cominciare da quelle con le agglomerazioni urbanistiche.

Il mercato cittadino era il mercato contadino, a Campobasso quello delle Erbe di piazzetta Palombo prima e poi il Mercato Coperto di via Monforte sono stati, il secondo ancora lo è, il punto di approdo dei coltivatori con le loro merci, un valido anello di congiunzione tra città e campagna. Da qua occorre partire per valorizzare tali scambi e le premesse favorevoli oggi ci sono. Si comincia a leggere, da qualche tempo, un cambiamento delle preferenze culinarie di tantissima gente, urbanizzata o campagnola fa lo stesso, che ora si indirizzano verso le produzioni tipiche e verso, è quanto nella discussione in corso più ci interessa, i consumi a Km. 0.

Privilegiare nel fare la spesa familiare i beni alimentari di prossimità spinge a incrementare le colture nelle vicinanze dei poli urbani. È, da un lato, aumentata l’attenzione alla sostenibilità, il trasporto da lontano delle derrate è fonte di inquinamento, e, dall’altro lato, si ha la maturazione del gusto che porta a rifuggire dalla cibaria massificata dando così una spinta all’ampliamento di un’offerta mangereccia di pregio, ancor meglio, se connotata da tipicità. In questo senso la città può tornare ad influenzare la campagna incentivando i contadini a praticare determinate coltivazioni, magari ritornando alle colture di un tempo, particolarmente apprezzate quella della Campagna Campobassana.

La crescita del consumo alimentare di qualità deve accompagnarsi, di necessità, alla decrescita del consumo di suolo, due tipologie di consumo che non vanno affatto a braccetto. Occorre limitare l’espansione dell’urbanizzazione la quale equivale a riduzione degli spazi coltivabili, a sottrazione all’agricoltura della superficie su cui esplicarsi e, quindi, a privazione per noi dei frutti della terra sotto casa.

di Francesco Manfredi Selvaggi

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