• 03/07/2025

Da Toscanelli a Cavicchi

Giochi di campagna tra Ottocento e Novecento

di Francesco Manfredi-Selvaggi

7 Marzo 2025

 

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Due libri, distanza più di un secolo l’uno dall’altro, danno conto in modo dettagliato nella vita delle campagne, degli aspetti tecnici e colturali, ma anche degli usi e costumi delle famiglie contadine. L’economia rurale descritta nella provincia di Pisa di Giuseppe Toscanelli e La mia terra. Memorie di un tempo che fu di Coraldo Cavicchi. Nell’800 e nel primo ‘900 della provincia di Pisa facevano parte anche i territori dell’Alta Maremma, cioè quell’area compresa tra Rosignano e Volterra a nord e Piombino e Suvereto a sud. Erano territori rurali con già qualche barlume di industria, che poi si sarebbe sviluppata nel corso del secolo, dove prevaleva ancora una civiltà contadina fatta di fatiche e di rapporto con la natura, ma non scevra del gioco e della festa. Questi costituivano, anche nelle epoche passate, una dimensione significativa della vita delle persone, bambini o adulti che fossero.
Nel mondo contadino si lavorava molto, ma ci si divertiva pure. Si lavorava alacremente e continuativamente, seguendo le ore del giorno e le stagioni dell’anno, senza alcuna distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero. Si può dire che il tempo libero non esisteva e che tale concetto apparirà solo con l’affermarsi dell’era industriale.
Si lavorava e si mangiava per accumulare energie e per lavorare ancora: “Appena mangiato – scriveva il Toscanelli a proposito dei contadini nei campi – si rilavora di nuovo finché lo consente la luce, e la sera a casa con la tavola apparecchiata si mangia la minestra di pane, cavoli e fagiuoli”. Durante la cena si discuteva dei lavori e degli interessi della famiglia, ma finita la cena e detto il rosario, “i giovanotti vanno a veglia in qualche altra casa vicina”, mentre le ragazze si mettono a fare qualche lavoro di filatura o di cucitura e a loro volta “ragionano con quelli che vengono a veglia dalle case vicine”. Le “veglie” erano dunque un momento centrale del divertimento contadino, strumento di svago e di socialità. Durante la veglia – continuava Toscanelli – si giuoca all’oca, a semolino, alle noci, a tombola, alle castagne coi dadi ed a brucino col formaggio”.

Dunque, la tombola e il gioco dell’oca erano praticati nelle famiglie contadine delle campagne toscane dell’Ottocento; un altro gioco di dadi praticato era quello con le castagne. Alle noci si giocava cercando di colpire con una noce un piccolo castello fatto sul tavolo con quattro noci; il tavolo era usato anche per giocare a semolino: si facevano tanti piccoli mucchi di semola (crusca) nascondendo in alcuni dei denari: chi li trovava erano suoi. Ricordo d’aver visto ancora, ben oltre la metà del ‘900, questo gioco elementare nelle campagne intorno al Monte Calvi: mentre un individuo faceva i mucchi inserendovi monete da 5 o 10 lire, gli altri giocatori restavano nascosti sotto il tavolo e una volta usciti a turno scavavano i mucchietti di semola. Il gioco del “brucìno” si svolgeva invece sul pavimento: si disegnava un cerchio per terra e da lontano si faceva rotolare una foma di formaggio; “se la forma lanciata si ferma tutta entro il circolo, il giuocatore vince la forma.”

Nei giorni festivi alcuni contadini andavano alla messa nel paese più vicino, che era un buon motivo per andare “a far festa”, come dicevano. In effetti, è sempre il Toscanelli ad informarci che “il concorso alle grandi feste che si fanno nei paesi è numeroso” e che, sempre nei dì di festa “i giovanotti vanno in qualche casa a fare all’amore”; qualche volta – aggiungeva – “gli amanti durano anni ed anni senza sposarsi, e spesso si lasciano con una incredibile facilità.” Come si vede la società contadina era tutt’altro che immobile e statica.

Poi c’era il carnevale, un periodo dell’anno in cui vi erano quelle che Toscanelli chiamava “le veglie solenni ove si balla e si suona col violino o colla chitarra, e si beve, e si mangia fino a notte inoltrata”. Occasione di giochi, di balli, di trasgressione e di rovesciamento dei valori imperanti, il carnevale costituiva nella Toscana rurale anche il periodo preferito per la celebrazione delle nozze: in due parrocchie rurali della Valdinievole (Buggiano e Borgo a Buggiano), ad esempio, la maggior parte dei matrimoni tra il XVI e il XIX secolo risultano celebrati in gennaio e febbraio, mesi in cui le operazioni agricole da compiere erano minori e meno impegnative, perlomeno rispetto ai prolungati e intensi lavori della semina, della fienagione, della raccolta dei cereali e della vendemmia che si svolgevano nel resto dell’anno; anche un’inchiesta napoleonica relativa a quest’area confermava che all’inizio dell’Ottocento le persone “si maritano nel carnevale”, che è anche il periodo libero dai divieti canonici dell’Avvento e della Quaresima.

Il quadro dei giochi e delle feste contadine presenta una sostanziale persistenza nel tempo, almeno fino al periodo del boom economico della seconda metà del Novecento. Nei Ricordi del tempo che fu scritti da Coraldo Cavicchi verso la fine del secolo scorso, ma riferiti principalmente al periodo che va dagli anni ’30 agli anni ’50 del ‘900, si ritrova un quadro articolato delle feste e dei giochi praticati nelle case e nelle aie dei poderi mezzadrili. Anche i poderi descritti dal Cavicchi facevano parte di quella che a lungo fu chiamata Maremma pisana e che durante il fascismo entrò a far parte della provincia di Livorno.

Se la famiglia contadina, legata essenzialmente alle condizioni del tempo e alle stagioni, “non fa mai una festa completa” – come ricorda l’autore – non mancavano i giorni e i momenti felici. Era innanzitutto nelle feste comandate e in qualche domenica che si riusciva a ricavare una pausa dal lavoro, a volte frequentando il paese vicino, andando a trovare qualche parente, partecipando alle messe religiose e a qualche fiera o mercato. Nei giorni festivi anche il cibo segnava la differenza e l’alimentazione cambiava rispetto all’ordinario: l’allegria gastronomica trionfava nel carnevale con il Giovedì Grasso che era il giorno dei migliacci (farina e strutto cotti in padella) e il Martedì Grasso con i cenci o fiocchi (farina, uova e zucchero fritti). Così per le frittelle di riso a San Giuseppe, tanto che il proverbio recitava “San Giuseppe frittellaio leva l’ova dal pollaio”.

Oltre alle feste si giocava, tra adulti, ma soprattutto tra i bambini e le bambine. I primi “ruzzavano” sull’aia, mentre le femmine giocavano alle mamme con bambole fatte di cencio o con le spighe del mais, adagiate in piccole culle ricavate dalle zucche. Si giocava con quel che c’era. Le bimbe più grandicelle giocavano a campana, disegnando cerchi o rettangoli sulla parte pavimentata dell’aia (piaggione), oppure a filetto, sempre tracciando una griglia per terra e riempiendola con ceci, fagioli o lupini per fare tris. Altri giochi, più praticati dai maschietti erano il rimpiattarello (nascondino), la mortesecca (a spavento), lo stioppo (fucilino fatto di canna) e la strombola (fionda). I ragazzi dei tempi del Cavicchi “ruzzano con la trottola di legno a puntale aguzzo in ferro”, oppure a palline, o ancora a buchetta, una modalità che ricorda quella del semolino già descritta un secolo prima dal Toscanelli: invece dei mucchietti di semola, qui si facevano delle buchette sul terreno con dentro qualche monetina; si lanciava una palla e si perdeva o si vinceva a seconda di quale buca andava ad occupare. A riga, a lastra, a balzello erano altri giochi con le monete. La domenica “quando è stagionaccia” – aggiunge Cavicchi – si resta a casa e ci si riunisce in carraia sul carro a giocare a carte, ai quadrigliati o a sette e mezzo”. I giochi si fanno più adulti e gli uomini contadini, quando pioveva o per le feste, si ritrovavano nella stalla e giocavano alla mora (morra).

La lista sarebbe lunga, con tante pratiche ludiche che si diversificavano molto – nelle regole e nei nomi – da una località all’altra, ma che avevano tratti e significati in comune: il legame con le stagioni e con il calendario dei lavori agricoli, la distinzione tra bambini e adulti, la spiccata divisione sessuale, l’inclinazione ricreativa ed educativa tendente a riprodurre i valori del mondo rurale. “Questi giochi – concludeva Coraldo Cavicchi – sono stati praticati per generazioni più come divertimento che per lucro”, però una volta che da ragazzo giocando perse la paghetta della domenica, “il babbo mi spedì di volata a letto senza cena”. Ma ormai era il tempo delle bambole di plastica e dei giochi animati, delle macchinine e dei trenini a pile, della pubblicità e della televisione… un modello di vita urbano che avrebbe presto eclissato la lunga storia dei giochi contadini.

Fonti
G. Toscanelli, L’economia rurale descritta nella provincia di Pisa, Tip. Nistri, Pisa, 1861.
C. Cavicchi, La mia terra. Memorie di un tempo che fu, Tip. Falossi, Venturina, 1997.

di Rossano Pazzagli (da ultimo n.ro di Nautilus)

 

7 Marzo 2025

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