• 02/11/2021

Elogio della capra

Le capre non si sono mai spostate di molto dai posti di origine. Se si vogliono sviluppare questi allevamenti è necessario incrementare le aree a pascolo 

da Letteratura Capracottese

11 febbraio 2021

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Prologo

La capra domestica (Capra hircus) è un ruminante dell’ordine degli ungulati del genere Capra.

La presenza dell’animale nel mondo è notevole. La parte del leone la fa l’Asia con il primato della Cina seguita dall’India. Anche in Africa vi sono molti esemplari, un po’ meno in Europa.
La maggior parte degli studiosi raggruppano le capre in tre categorie: le capre d’Europa, d’Africa e d’Asia. La nostra capra è naturalmente compresa fra quelle d’Europa.
L’allevamento della capra risale a un tempo molto lontano: essa è infatti, tra gli animali di più antica domesticazione, avvenuta verso il 9000-10000 a.C. nel Medio Oriente.
In Italia è giunta dalla Grecia, dopodiché si è diffusa nel resto dell’Europa.
Le razze italiane sono: la Maltese, la Ionica, la Girgentana, la Sarda e la Garganica. Ad esse sono associate numerose popolazioni locali e tipi genetici variabili da zona a zona, soprattutto nel meridione. Inoltre in Italia è presente anche allo stato selvatico sull’isola di Montecristo dell’arcipelago toscano.
Ha sviluppato, per vivere in ambienti severi e difficili, una serie di peculiarità anatomiche, morfologiche e fisiologiche che la rendono adatta a particolari condizioni di vita.
Ha un vello formato da peli lunghi; un ciuffo di essi è posto alla regione del mento ed è chiamato barba, mentre due piccole appendici cutanee sono poste ai lati del collo, detti bargigli.
Possiede arti forti, asciutti, solidi nelle articolazioni, terminanti con due dita forniti di unghioni. È agile, irrequieta, curiosa, “intelligente”, non affatto pigra come la pecora.

La voce è un belato, a tono vario. Si muove a testa alta con atteggiamento regale, come i suoi parenti cervi, caprioli, daini, camosci, stambecchi.
La coda è rivolta sempre verso l’alto.
Al pascolo ha l’istinto di evitare le piante nocive, superiore a qualsiasi altro animale.
Le femmine vanno in estro verso la fine dell’estate-autunno, quando le giornate cominciano ad accorciarsi e partoriscono nella primavera successiva. La gestazione dura 150 giorni. Durante il periodo dell’estro i maschi (becchi) adulti si sfidano e cozzano perla supremazia sulle femmine.
Il vento di settembre diffonde l’odore sgradevole degli ormoni della riproduzione emessi dalle ghiandole sessuali.
La capra, sin dall’antichità, è stato ritenuto il migliore animale produttore di latte. Si racconta che lo stesso Giove, il padre degli dei della mitologia greca, sia stato nutrito con il latte della capra Amaltea.
Essa ha la capacità di trasformare in latte gli alimenti vegetali anche grossolani, ciò per l’azione cellulosolitica della flora del rumine: più rapida, più efficiente e più economica sia della specie bovina che ovina. Pur in presenza di queste ottime attitudini, la stessa non ha mai costituito grossi allevamenti, almeno in Italia, come è stato ed è ancora per la pecora, con la quale è invece quasi sempre aggregata in numero limitato. Ulisse di Omero la trova insieme alla pecora nella grotta del ciclope Polifemo.
Il latte è particolarmente digeribile per le ridotte dimensioni dei globuli di grasso, per la friabilità e le dimensioni dei coaguli. È più ricco di vitamine, di sali minerali e di proteine rispetto a quello bovino. Queste qualità lo rendono adatto per l’alimentazione degli anziani, dei malati, dei convalescenti e soprattutto dei bambini.
Insieme al latte offre anche la carne. Dalle sue pelli si possono ricavare vestiti, tende, otri e strumenti musicali, come la cornamusa; in Asia perfino zattere per attraversare torrenti in piena.
Lo stomaco è quello dei ruminanti formato da quattro cavità: rumine, reticolo, omaso e abomaso.
Per tutte le citate qualità, la capra presso molti popoli è stato il simbolo dell’abbondanza e della prolificità.
La presenza della capra in forma consistente sul nostro territorio inizia dalla fondazione dei primi nuclei abitativi da parte dei Longobardi. Per tale motivo scrivere della capra è raccontare del nostro paese e lo stesso nome Capracotta deriverebbe «da un rito medioevale inciso sullo stemma civico raffigurante una capra che fugge dal rogo».
Può far discutere e non essere condivisibile, tuttavia voglio raccontare a quei quattro lettori di questo scritto come la mia immaginazione riesca a dare ulteriore colore e forza sulle origini del nome.
Il territorio di Capracotta è posto in alto, adatto, per le sue caratteristiche rocciose e alpestri, alla vita delle capre. La stessa parola capra deriva dalla radice sanscrita “CA” che significa “in alto” e da “PRU”, “andare”; quindi “CAPRU” equivale a capra “quella che mangia in alto” e il toponimo di Monte Capraro (luogo delle capre) non può essere casuale.

>Inoltre, insieme alla capra, vi sono i boschi da cui deriva anche l’energia del fuoco. Quindi capra e fuoco uniti come elementi simboli e rappresentativi del territorio, utili e necessari per la vita delle popolazioni presenti. Favoleggiando ancora, la capra non fugge dal fuoco, ma volteggia e gioca, secondo la sua indole, con lo stesso, come il re dei camosci con il proprio bracconiere.
Ma con l’arrivo dell’inverno e del manto bianco sulla Maiella, le divinità pagane del posto decidono che il patto di solidarietà tra il fuoco e la capra venga sciolto a vantaggio del primo. La capra deve essere sacrificata e cotta sul fuoco per il rito propiziatorio in loro onore. Capra-cotta. Ecco il nome a noi pervenuto.

Il capraio della terra

Si ricorda che, nei tempi passati, quasi tutte le famiglie che vivevano a Capracotta, avevano una o due capre, come gli abitanti delle Alpi avevano le arnie poste sui costoni delle montagne e perfino sulle cime dei larici per la produzione del miele che mescolavano con il latte di capra.
Il paese era pieno di mestieri: boscaioli, pastori, allevatori, bastai, falegnami, muratori, pittori, sarti, calzolai, mulattieri, fabbri, mugnai, fornai. Più persone per lo stesso mestiere. Ma è stato anche il paese della capra, con l’asino, gli animali dei poveri, sempre con un solo capraio. Un mestiere antico, quanto la terra. Il capraio della terra. Così veniva chiamato.
Il primo capraio di cui si ha memoria è Concezio Venditti. Poi Fiore, il fratello di Lucia ed Irene Milione (De Renzis), che morì, insieme al figlio Emilio, di dieci anni, per lo scoppio di una mina, nel mese di novembre dell’anno 1943 mentre pascolavano gli animali.
La notizia della morte di Fiore rese triste tutto il paese, ancora pieno di macerie prodotte dalla guerra. Si racconta che all’abituale ora della sera, le capre furono viste fare ritorno al paese senza la presenza del capraio. Alcuni uomini del quartiere di S. Giovanni si misero alla ricerca di Fiore e del figlio. Furono trovati, senza vita, nel bosco della Difesa. Sul posto, a ricordo del tragico evento, fu messa negli anni successivi una piccola croce di ferro.
A Fiore subentrò Pasqualino Di Nucci e di seguito Vincenzino Santilli, detto “La Cavuta”, che lasciò il mestiere di capraio nell’anno 1960 e partì per la Germania in cerca di un nuovo lavoro, come tanti altri capracottesi.
Il mestiere di capraio smise di esistere. E anche le capre che avevano aiutato la piccola e povera economia locale.
Il capraio era pagato dai proprietari delle capre ed aveva anche la facoltà di mungere, per sé stesso e per un solo giorno dell’anno lavorativo, le capre che portava al pascolo. A suo carico però c’era l’obbligo di acquistare e sostenere i maschi per la riproduzione.

La sua giornata di lavoro era dura e solitaria. Mestiere a cielo aperto, come quello del pescatore: figure dei Vangeli care a Gesù di Nazaret. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, con le capre, in solitudine a guidare il gregge.
Al mattino uscivano dalle case al richiamo del corno suonato dal capraio che passava per la strada principale del paese; l’uomo portava a tracolla lo sbiadito ombrello e il tascapane con dentro il frugale pranzo giornaliero. Le capre, uscendo dalle abitazioni, si univano alle altre che passavano e, a mano a mano, formavano il gruppo che andava a sostare nello stazzo posto all’uscita del paese, al di sopra della prima curva. Per questo, tuttora, detta la curva delle capre.
Era la donna, l’anello forte della famiglia, che le mungeva due volte al giorno, mattino e sera e le accudiva con un rapporto umano come se fossero componenti della famiglia.
Le capre, spinte dal capraio con l’aiuto del cane, raggiungevano le zone ad esse assegnate per il pascolo: Colle Cornacchia, Costa della Rughetta, a monte del bosco della Difesa. Pascoli marginali e poveri. Impervi, più rocce affioranti che fili d’erba da brucare, con discontinuità di copertura vegetale sulla quale le capre si nutrivano e si muovevano con sicurezza e l’armonia di una farfalla. Sollevavano spesso la testa, per integrare il menù e nutrirsi delle bacche (ricche di proteine) e degli apici vegetativi, in particolare dei biancospini (Crataegus) e rosa canina. Quando poi le disponibilità alimentari diminuivano, come accadeva spesso durante il periodo estivo, cercavano di alimentarsi nel bosco, perché l’istinto della sopravvivenza è più forte di qualsiasi divieto. Questa attitudine non le rendeva gradite alla Autorità Forestale che ha sempre ritenuta la capra “distruttrice” del bosco. Su di tale convincimento, nel tempo, sono state emesse dalle varie autorità norme per limitare la presenza della capra. Tra queste si possono ricordare quelle della Repubblica di Venezia dell’anno 1762 che proibirono di tenere le capre, pena l’uccisione immediata delle stesse. Per restare ancora in Italia si può citare un R.D.L. del 1927 che istituì una tassa speciale “sugli animali caprini”.
È la stessa tassa che ricorda Carlo Levi nel suo libro “Cristo si è fermato ad Eboli” e per la quale i contadini erano costretti ad ammazzare le capre, perché non avevano i soldi per pagarla.
È condivisibile la considerazione che i fabbisogni alimentari degli animali devono essere soddisfatti con le produzioni erbacee che si trovano fuori dal bosco.
I silvicoltori ritengono che ogni azione perturbatrice – in questo caso il pascolamento – può determinare nell’ecosistema forestale, una serie di effetti negativi che si manifestano in processi di degradazione del soprassuolo forestale ed una progressiva riduzione della densità dello strato arboreo.
Purtuttavia il pascolo nel bosco, in alcune particolari situazioni, può essere tollerato e consentito, coniugando le esigenze zootecniche con quelle silvicolturali, con l’aiuto del sistema giuridico degli usi civici. La legge principale (n. 1766 del 16 giugno 1927), inerente alla gestione degli usi civici, pone nella stessa categoria i boschi e i pascoli, come risorse naturali di uno stesso sistema, in modo che l’uso civico di pascolo possa integrare, insieme a quello di legnatico, l’antichissima abitudine delle popolazioni di trarre dalla terra le utilità essenziali per la vita. A tal fine, sempre sotto la direzione dell’Autorità Forestale, possono essere messi in atto interventi selvicolturali per agevolare la crescita del sottobosco erbaceo necessario per il pascolamento.
Un piccolo segno dell’orientamento selvicolturale sopracitato si riscontra nella tecnica della capitozzatura (considerata una forma di ceduazione oramai scomparsa) che ha dato origine ai cosiddetti alberi “a candelabro”, presenti, anche in pochi esemplari, nel bosco a monte di Colle Cornacchia e Costa della Rughetta, già zone di pascolo nel passato.

La testimonianza più evidente e significativa di questa tecnica è quella adottata nel bosco di S. Antonio del Comune di Pescocostanzo (AQ), dove c’è stata l’antichissima consuetudine locale di utilizzare il bosco non per taglio, ma come pascolo arborato di uso civico per bovini ed equini. Infatti in quel bosco non sono stati eseguiti i tagli, ma delle periodiche capitozzature che, nel tempo, hanno prodotto alberi monumentali ed alcuni a forma di candelabro. Per queste testimonianze di un paesaggio di altre età, il Bosco di S. Antonio è stata la prima riserva naturale istituita dalla Regione Abruzzo (1985).

Tutto ciò per dire che l’unica via ragionevole è quella di abbattere i pregiudizi (a carico della capra sono stati sempre molti), perché in natura le certezze non sono sempre da una sola parte.

A Capracotta la capra non c’è più. I boschi possono stare tranquilli, ma siamo certi che sentiranno la mancanza del rumore delle sue labbra. E il capracottese? Non è scomparso, ma si è sparpagliato qua e là sul pianeta Terra. Irrequieto, alquanto senza legge. Come la capra. Sicuramente diverso da quello dei tempi del capraio della terra, ma porta con sé, nel cuore e nella mente, la capra come simbolo-mito della sua originaria identità. L’animale ci possiede e ci tiene uniti. Un grazie la capra lo merita.

Lorenzo Potena

Fonte: L. Potena, Elogio della capra, in AA.VV., I racconti di Capracotta, vol. III, Proforma, Isernia 2013.

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