• 01/17/2025

Essere stati “comunisti” nei nostri paesi

Essere stati “comunisti” nei nostri paesi
Un monito a conoscere anche la storia recente delle nostre piccole realtà per quanti, giovani e meno giovani, hanno a cuore la Rigenerazione dei nostri paesi

di Giovanni Germano

17 Gennaio 2025

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Eravamo in tanti i “comunisti” e da “comunista”, come sono stato sempre definito a Duronia, ho sempre cercato, professionalmente, politicamente, socialmente e culturalmente di trovare e proporre collaborazioni per irrobustire le sinergie necessarie per la rigenerazione del nostro paese, dei nostri paesi.
Tanti altri a Duronia, ed anche fuori, sono memori di tante iniziative.
Dalla fine degli anni 60 del secolo scorso con la Festa dei Giovani, prima e seconda edizione, con le Feste dell’Unità, e poi con la Pro Loco, con l’ArcheoClub, con le Feste di “Anziembra p’ Pazzieà”, varie edizioni, con il mensile “la vianova”, con “cammina, Molise!”, etc, ho dimostrato, insieme a tanti amici residenti e no, che il paese era ancora vivo e voleva continuare a vivere.
Tanti anni di lavoro volontario spesi convintamente e con passione per il bene comune della nostra comunità, non ripagato però dalla collaborazione necessaria dell’amministrazione comunale, che invece ha quasi sempre ignorato e spesso ostacolato ogni iniziativa che nasceva a Duronia, capace di aggregare la popolazione ed in particolar modo i giovani.
Sto parlando degli anni che vanno dal 1970 fino ai nostri giorni. Una eternità.

Qui voglio ricordare parte di quegli anni con un mio articolo sul mensile “la vianova” (n.4/1996: vedi allegato), per contribuire a far conoscere la storia recente di Duronia necessaria ad arricchire il bagaglio culturale e sociale dei giovani e di quanti a Duronia credono ancora nella Rigenerazione del nostro paese, dei nostri paesi. Anche senza i “comunisti”, perché non esistono più.

“COMUNISTA!”
Era scuro in volto, come mai prima mi era capitato di vederlo, quella mattina di tanti anni fa.
Eravamo all’inizio dell’estate ed io avevo compiuto da poco quattordici anni. Antonio, mio fratello, di nove anni più grande di me, voleva parlarmi. Io, la sera prima, ero stato presente, lì in camera da letto, dove era uso prendere le grandi decisioni sull’avvenire di tutti e cinque i fratelli, quando con candore confidò a mia madre e a mio padre che lui, ormai prossimo ad essere ordinato sacerdote, aveva deciso di diventare missionario. Purtroppo la reazione di mamma e papà non fu quella che lui si aspettava. Mamma fu colta da una crisi di pianto, che ancora adesso a ricordarla mi si stringe il cuore; papà, che era un duro, non pianse, ma sbottò dalla disperazione: ”Ho fatto tanto per costruire un palazzo e tu adesso lo demolisci!”. Si, papà pensava, ingenuamente, che Antonio sacerdote potesse essere d’aiuto nella ricerca di qualche lavoro agli altri fratelli.
La nostra era una famiglia di origini contadine, gli stenti erano tanti ed un prete in casa poteva far comodo. Non credo che Antonio quella notte abbia dormito; entrò presto nella mia stanza da letto, mi svegliò e all’istante mi chiese: ”Giovanni, hai sentito mamma e papà ieri sera, che devo fare?”. Il suo sguardo, che avevo imparato a conoscere sereno e sorridente, mi apparve triste e supplichevole, quasi perso. La responsabilità, che in quel preciso istante e con quello sguardo mio fratello mi scaricava addosso come un macigno, mi resero all’improvviso adulto: la mia risposta, a quell’interrogativo così angosciante, pensavo, poteva valere una scelta di vita! Sinceramente non ricordo di preciso le parole che usai per confortarlo nella sua scelta (cosa che fecero il giorno dopo anche mamma e papà), quello che ricordo molto bene invece è l’umiltà con la quale mio fratello seppe rivolgersi a me, annullando la sua ragione ed aprendo il suo cuore.

Con Antonio, ora missionario in Bangladesh, oltre al grande affetto che ci lega rafforzato anche dai gravi eventi luttuosi che hanno colpito la nostra famiglia, ho sempre avuto e continuo ad avere un rapporto paritario, basato sulla reciproca stima e sul reciproco rispetto delle idee e delle passioni. Rispetto delle idee e delle passioni! Io comunista, prima da studente poi da architetto, sempre ‘contro e fuori’ rispetto ad un sistema di governo del mondo che ho sempre visto, non certo per una mia visione pessimistica, carico di ingiustizie e di sopraffazioni verso i più deboli e caratterizzato dagli scempi perpetrati nei confronti del territorio e delle città, ma anche ‘dentro e per’ il popolo dei meno abbienti alla ricerca dei propri diritti ed in lotta per una vita migliore. Io comunista, mio fratello missionario cattolico.
Antonio, in nome della fede, con gioia ha voluto dedicare la sua vita al riscatto degli ultimi nel mondo, vivendo insieme a loro, come loro. Su questo giornale, rivolgendosi a credenti e non credenti, in una sua riflessione di fede ebbe con umiltà ad affermare che “la giustizia, la solidarietà e la fratellanza sono valori eterni che vengono da Dio e chi lotta per essi e si sforza di realizzarli nella propria vita appartiene già al Regno di Dio, come dice il Vangelo.”
Ecco, il riconoscimento della universalità di certi valori! Per questo Antonio mi ha sempre compreso e rispettato, proprio come feci io con lui quella mattina di tanti anni fa.
Eppure l’essere stati comunisti dalle nostre parti, nei nostri paesi, quasi sempre è equivalso all’essere condannati alla discriminazione, all’isolamento e spesso anche alla persecuzione.

“Comunista!”. Quante volte questo appellativo è stato lanciato come un insulto! No, non c’è stato alcun rispetto ed alcuna comprensione per chi, comunista o non comunista, ha avuto l’ardire e l’ardore di schierarsi “contro”, “per” il riscatto di un popolo, da decenni invischiato nel muschio umido e appiccicaticcio della mafia bianca dell’assistenzialismo e del clientelismo politico, che ha avuto la colpa storica di annientare una cultura millenaria e di tarpare le ali ad ogni forma di sviluppo , costringendo prima intere generazioni ad emigrare e poi ad annichilire i giovani, nell’attesa passiva di un “posto”.
Su la vianova abbiamo sempre spronato i nostri lettori a raccontare prima di tutto se stessi ed i loro problemi, perchè siamo convinti che le proprie esperienze siano il veicolo più adatto per far capire meglio le varie problematiche che interessano le realtà in cui viviamo. Anche io, entro queste righe, sto cercando di raccontarmi, nella speranza di riuscire a farvi afferrare il senso delle mie riflessioni. Per questo, e per quello che possano contare le mie citazioni autobiografiche, contenute nella sfera così ridotta del mondo duroniese, voglio ricordare qualche episodio, credo emblematico rispetto a quanto detto finora, anche se riferito esclusivamente all’ambito professionale.

Tutti possono capire quanto sia stato, e sia tuttora difficile, intraprendere la libera professione per uno come me, appena laureato, di idee comuniste ma non intruppato con nessun partito, con una famiglia di origini contadine, con nessuna disponibilità finanziaria, nessun parente, amico o conoscente influente. Terra bruciata su tutti i fronti. Che la vita non mi sarebbe stata resa facile, ebbi modo di capirlo già da subito, con la laurea fresca in tasca, durante il servizio militare. Una brutta storia. Finito il CAR a Orvieto, ero pronto per essere trasferito a Roma: già mi avevano confermato ufficiosamente la caserma di destinazione, dove, mi avevano assicurato, avrei potuto dare il mio contributo in un ufficio del Genio. Invece no. Mi mandarono a Gaeta! si a Gaeta, nel fatiscente castello angioino, dove erano alloggiate le carceri militari: il posto peggiore in assoluto (così si diceva nell’ambiente, ed io poi ebbi modo, mio malgrado, di constatarlo personalmente) dove un ragazzo potesse prestare il servizio militare. Ma cosa avevo fatto di tanto grave per essere spedito lì? Lo scoprii dopo qualche mese tramite un mio compagno che lavorava alla Compagnia Comando: insomma risultavo schedato (‘Qualcuno’ aveva dato dal Comune informazioni ai Carabinieri) come soggetto pericoloso, in quanto ‘capo’ (sic!) della sezione comunista del mio paese. Comunque non l’ho trascorso invano quell’anno (per inciso era il 1975 e Kappler e Reder, i criminali nazisti di via Rasella e di Marzabotto, erano lì ospiti incensati): per me fu carico di esperienze, che segnarono me e i miei compagni commilitoni ed anche i detenuti obbiettori di coscienza; con scioperi della fame, azioni di informazione clandestina a mezzo stampa e poi con interrogazioni parlamentari riuscimmo a far chiudere l’anno successivo il carcere militare di Gaeta.
Finito il militare, decisi di dedicarmi a tempo pieno alla mia professione. Il mio primo committente fu mio fratello e poi sono arrivati altri parenti, amici e così via. Da subito iniziò la mia carriera di architetto ‘condotto’ nel mio paese: piccoli, ma interessanti interventi mirati per lo più al recupero funzionale e culturale dell’esistente, e, comunque, sempre a disposizione della gente, per i tanti piccoli problemi legati al groviglio mostruoso delle leggi che regolano la materia urbanistica. Vita tranquilla si direbbe, no, purtroppo. Ho resistito a lavorare al mio paese, perchè visceralmente legato ad esso e perchè credevo e credo nelle piccole realtà quali possibili alternative, in un futuro più o meno prossimo, allo sviluppo disordinato e non a misura d’uomo delle grandi concentrazioni urbane.

Il cosiddetto “bastone in mezzo alle ruote” per me è diventato nel tempo un attrezzo che ho imparato a conoscere molto bene, a mie spese naturalmente. Personaggi più o meno anonimi, convinti che la mia attività politica e culturale potesse in qualche modo rovinare la “pace” negli orticelli clientelari, hanno cercato di ostacolarmi sul lavoro con ogni mezzo consentito e no. Frequenti le azioni intimidatorie, molti i cantieri sospesi per esposti anonimi, insistenti i ricatti più o meno espliciti e ricorrenti le subdole lusinghe per ammorbidire certe posizioni politiche, esclusione sistematica dagli incarichi pubblici (tranne alcune eccezioni, collocate per altro nel periodo in cui avevo deciso di collaborare tecnicamente e non politicamente con l’amministrazione comunale, spendendomi senza riserve e spesso gratuitamente, nella convinzione, purtroppo rivelatasi ingenua, di operare per gli interessi generali del paese e non certo per gli interessi particolaristici dell’Amministratore).
Avere certe idee politiche, lo scegliere di non andare all’ammasso o, peggio ancora, di non prostituirsi, ha significato per tanti, come me, spesso di non potersi esprimere compiutamente nella professione, per le tante esperienze negate e nel settore privato e maggiormente nel settore pubblico.

Circa cinque anni fa, siccome avevo superato il decimo anno di iscrizione all’Ordine, decisi di inserirmi nell’Albo dei collaudatori degli IACP di Campobasso; un mio amico ingegnere, che lì lavorava, me lo aveva consigliato e, per questo, mi aveva fissato un incontro con il Presidente, a cui avrei dovuto chiedere istruzioni in merito. Non sapevo che la carica di Presidente fosse ricoperta da un politico: ero convinto infatti che all’appuntamento mi trovassi di fronte un collega. Invece no. Dopo le presentazioni, il “Presidente” a bruciapelo mi chiese se ero democristiano, al che, un po’ frastornato, senza nemmeno avere il tempo di sedermi, gli risposi che democratico lo ero sicuramente, cristiano chissà forse col tempo potevo pure divenirlo, ma democristiano non lo ero nè lo sarei mai diventato. Gentilmente salutai, scordandomi per sempre l’iscrizione all’Albo dei Collaudatori degli IACP di Campobasso.

Quanti episodi di questo genere! Ma il mio non vuole apparire come vittimismo. Chissà quante persone hanno vissuto le mie stesse esperienze, anche e spesso molto più duramente! Vivere in armonia con i propri ideali non ti fa sentire vittima, ma vincitore, anche quando credi di essere così prostrato, da essere quasi sommerso dalla polvere. Così, nel mio caso, volendomi distruggere professionalmente, pensavano di distruggere la mia persona e quindi il mio stare “contro”, si contro la pace degli orticelli, contro la pace dell’inerzia, contro la pace del “vogliamoci tutti bene”, contro la pace imposta da chi ha creduto di volere più bene degli altri, paternalisticamente chiudendo in una botte di ferro un paese intero preservandolo da ogni sviluppo economico, sociale e culturale.
“Comunista!” Questo epiteto mi ronza ancora alle orecchie, e sorrido: i comunisti finalmente, dopo cinquanta anni di lotte e di duri ostracismi, hanno avuto la fiducia, il rispetto ed il riconoscimento di tanti Italiani ed ora sono al governo del Paese. Addirittura anche la nostra Regione, le nostre Provincie e i nostri Centri più importanti sono amministrati da coalizioni dove sono presenti i comunisti: il terreno è quindi pronto per la semina, non facciamoci cogliere dal maltempo. Le nostre terre, “storicamente”, non sono fertili: dobbiamo rassodare bene il terreno e preparare le sementi giuste e non essere impazienti nell’attesa della raccolta. Ma più di ogni altra cosa dobbiamo essere, noi, seminatori diversi e più accorti in campi così aridi. Vorrei tanto aver vicino in questo momento Elio, mio fratello, morto nel ‘72 a solo vent’anni il giorno stesso del suo compleanno, dopo essersi speso giorno dopo giorno in dure battaglie, in paese e fuori, da comunista, per un mondo senza ingiustizie e più libero. Vorrei dirgli: “Hai visto ce l’abbiamo fatta, finalmente! questo è il momento di mettere a frutto le nostre energie più belle per continuare ad impegnarci più di prima e dimostrare che possiamo essere capaci anche noi di “fare”, nel pieno rispetto delle idee e delle passioni altrui, senza essere più discriminati, isolati e perseguitati”.

di Giovanni Germano

17 Gennaio 2025

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