I luoghi bisogna conoscerli
“Il pianeta si salva se si preservano i suoi ecosistemi: uno per uno, monte per monte, valle per valle, fiume per fiume, bosco per bosco, campo per campo…”
di Paolo Cacciari (da comune-info.net)
30 Gennaio 2025
I luoghi bisogna conoscerli, abitarli, viverli per non danneggiarli. Il pianeta si salva se si preservano i suoi ecosistemi; uno ad uno, monte per monte, valle per valle, fiume per fiume, bosco per bosco, campo per campo. Questo è quanto dicono essenzialmente e con semplicità oltre quaranta tra comitati e associazioni locali riuniti nella Coalizione Tess (Transizione energetica senza speculazione) dell’Appennino centro settentrionale (Marche, Umbria, Toscana, Emilia-Romagna) i cui crinali sono investiti da una sventagliata di progetti per la costruzione di grandi torri per l’installazione di pale eoliche. Mugello, Valtiberina, Montefeltro, Val Cornia, Foreste Casentinesi, solo per citare le zone più note, la cui vocazione è agricola di qualità, agroforestale, pastorizia e turistica “lenta” (cammini e ciclovie). Luoghi, soprattutto, belli e apprezzati non solo dalle popolazioni “resistenti”, ma anche da chi cerca di allontanarsi dal delirio dell’urbanizzazione selvaggia della pianura.
Il 25 gennaio la Coalizione Tess si è riunita a Borgo San Lorenzo, presenti e solidali il sindaco e amministratori di altri comuni, in un convegno molto partecipato tra cui naturalisti, urbanisti, ingegneri, giuristi.
Anche le rinnovabili hanno controindicazioni
La costruzione di impianti e infrastrutture per la generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili (in particolare eolico e fotovoltaico, ma anche idroelettrico, geotermico e da biomasse) presenta evidenti e inevitabili impatti lungo tutta la filiera produttiva e durante tutto il tempo di vita (pulizia, manutenzione e smaltimento) dei macchinari. Il fatto – intuitivo – che l’energia da fonti rinnovabili abbia comunque un bilancio energetico, di materia e di emissioni nocive infinitamente migliore di quello dell’energia prodotta da combustibili fossili (gas naturale compreso), per non parlare di quella da fissione nucleare, non ci deve consentire di sottovalutare il problema. La logica del “meno peggio” non porta molto lontano e non rende onore alle tecnologie verdi, ecocompatibili. Quindi, se vogliamo davvero – come vogliamo – sostenere la superiorità strategica delle rinnovabili dovremmo evitare che producano danni sul territorio. Si vince o si perde tutti assieme.
Tralascio qui la questione dell’approvvigionamento delle materie prime necessarie a costruire pannelli solari e pale eoliche. È certamente la questione più rilevante, ma non è questo l’argomento di oggi. L’accaparramento delle “terre rare” (dei minerali necessari alle industrie high-teck, definite dai cinesi il “nuovo petrolio”) sta ridisegnando la geopolitica e provocando conflitti commerciali e armati in tutto il mondo. Hanno quindi ragione coloro che affermano che vi è un legame stretto tra i sistemi economici industriali particolarmente assetati di energia, le guerre, la giustizia ambientale e la democrazia. Limitiamoci qui a prendere in considerazione il caso specifico degli impatti che si verificano alla fine della filiera con l’installazione di grandi torri per rotori utili a catturare e trasformare l’energia eolica in elettricità.
È evidente che le pale vanno localizzate dove c’è più vento, quindi su alti crinali (ma anche in mare). Tali impianti dovrebbero essere progettati tenendo conto di tutte le interferenze con le diverse matrici ambientali. Tra gli impatti ambientali (metto per il momento tra parentesi quelli più hard: geologici e geomorfologici, biologici e naturalistici) ci sono quelli visivi, che riguardano la forma e l’aspetto dei luoghi, il paesaggio. Si apre qui un potenziale conflitto con un principio costituzionale.
Il paesaggio
Vale la pena ricordare ancora una volta l’art.9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali». Così è scritto.
Prendo ora una delle tante possibili definizioni di paesaggio: il paesaggio è costituito dalle strutture organiche e inorganiche che coniugano storia e natura. Cioè, ogni angolo del mondo, colonizzato o selvaggio. Bisogna quindi riuscire ad attribuire valori specifici ai diversi paesaggi. A questo fine ci viene in aiuto la Convenzione europea del paesaggio (firmata proprio a Firenze nel 2000): «”Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni [sottolineature mia]». (Convenzione Europea del Paesaggio, versione italiana, Capitolo 1, art. 1 lettera a). Certo un concetto qualitativo molto soggettivo, ma chiaro, poiché mette la responsabilità della tutela in capo alle popolazioni insediate, che vivono in quei luoghi, o che per lo meno li conoscono. Zero apprezzamento? Zero tutela. Molta considerazione? Molta cura.
Dobbiamo quindi accettare e rispettare l’esistenza di sensibilità diverse e farcene una ragione. Nel nostro caso non serve essere pittori di paesaggio della scuola dei macchiaioli per soffrire alla vista delle pale eoliche sulle vedute toscane. Così come non serve essere storici dell’arte per escludere l’istallazione di pannelli solari sulla cupola del Brunelleschi.
Alle Regioni è stato attribuito il compito di normare e concretizzare tale principio attraverso i piani territoriali a valenza paesaggistica partecipati. Quello della Toscana (assessora Anna Marson) è noto non solo in Italia per essere stato un buon esempio di coprogettazione. La questione, sul piano del diritto, quindi si potrebbe chiudere qui: sono gli enti territoriali più prossimi ai luoghi (comuni, comunità montane, autorità di bacino, enti parco, demani collettivi) i primi interpreti e i titolari degli usi del territorio. Decentriamo le decisioni, attuiamo davvero il principio della sussidiarietà dal basso. Game over. E invece no!
In punta di diritto
La giustificazione usata da questo come dai precedenti governi per scavalcare quanto il diritto ordinario prevede, nel caso degli impianti energetici, ma già sperimentata altre volte con le “grandi opere” di berlusconiana memoria, è la prospettazione di un interesse nazionale superiore, di una emergenza per la sicurezza pubblica, come una epidemia o una guerra. Nel caso degli impianti energetici, così come delle trivellazioni a mare, dei rigassificatori, dei gasdotti, degli impianti di cattura e stoccaggio del carbonio e così via, la “superiore necessità” sarebbe rappresentata dalla lotta al cambiamento climatico condotta con la decarbonizzare della produzione di energia. Secondo questa impostazione si apre quindi un conflitto tra due esigenze ugualmente tutelate dalla Costituzione: il paesaggio, da una parte, e, dall’altro, la tutela dell’ambiente, inteso in senso ampio, come la preservazione delle condizioni della vita sulla Terra, oltre che “nell’interesse delle generazioni future”. Due esigenze che secondo alcune interpretazioni (la più nota quella dell’ex ministro Enrico Giovannini) andrebbero quindi mediate e tra loro equilibrate: in pratica, un po’ meno di paesaggio e un po’ più di rinnovabili. Questa è anche la posizione contenuta nel disegno di legge della Giunta regionale della Toscana (Proposta di DDR della Regione Toscana del 2/12/2024) lì dove si dice che va trovato un punto di “equilibrio” tra “la produzione di energia da fonti rinnovabili” e la “tutela del patrimonio culturale e del paesaggio”. Sembra un discorso di buon senso, ma non lo è, né in punta di diritto, né praticamente.
È evidente che ci troviamo di fronte a un errore giuridico sulla base di un presupposto sbagliato. I valori elencati nella prima parte della Costituzione (cultura, ricerca, patrimonio storico e artistico, paesaggio ed ora anche ambiente, ecosistemi, biodiversità e animali) si sommano e si completano a vicenda, senza un ordine gerarchico di importanza e godono ognuno del medesimo status e rango. Sono intangibili e inalienabili. Non sono a disposizione di alcun interesse particolare. Tocca agli organi di governo della Repubblica trovare delle soluzioni che contemplino l’insieme dei diritti costituzionali, il sacrificio di alcuni sarebbe comunque arbitrario.
Sembra invece che lo schema bellico del sacrificio, più o meno legittimato da normative speciali, venga usato troppo spesso dai governi per aggirare gli ostacoli. Ha scritto un filosofo che amo, Roberto Mancini: «Il sacrificio è sempre sacrificio di vittime, così come il potere è sempre potere su qualcuno» (Un pianeta al collasso, l’altrapagina, 2024).
Occorre quindi sfatare l’idea che la tutela del paesaggio e la lotta al cambiamento climatico siano obiettivi impossibili da raggiungere contestualmente. Secondo alcuni ci troveremmo di fronte ad un dilemma insolubile, come nel gioco crudele dalla torre dovremmo scegliere chi buttare di sotto. Ma si tratta di una convinzione per fortuna del tutto indimostrata.
In punta di scienza
Se l’obiettivo è la diminuzione più veloce possibile delle emissioni dei gas climalteranti, da una parte, e l’aumento delle capacità della Terra di metabolizzarli, dall’altra, (“net zero”) allora vanno predisposti precisi piani energetici capaci di individuare e quantificare gli effettivi fabbisogni (domanda) e di soddisfare quelli necessari con appropriati sistemi di produzione e di distribuzione (offerta). Peccato che non vi siano piani di questo tipo, dettagliati a tutte le scale: famigliari, di condominio, di unità produttiva, di ufficio, di “cabina di distribuzione”, di comune, regione, nazione, continente e oltre. Siamo sicuri che valga la pena soddisfare indiscriminatamente tutti gli attuali consumi energetici? La domanda di energia, forse, potrebbe essere contenuta a monte e vagliata in forme democratiche e consapevoli. Oltre allo sviluppo delle “tecnologie pulite” andrebbero incentivati sistemi organizzativi meno energivori attraverso regolamenti edilizi (tetti fotovoltaici obbligatori su edifici e parcheggi), assetti urbanistici (città dei “15 minuti”, vede urbano), modalità (riduzione dei limiti di velocità), eco design (riciclabilità, riutilizzabilità, riparabilità, ecc.), ecc. ecc.. Tutte questioni che non metterebbero in discussione alcun valore costituzionalmente protetto (se non quello della libera iniziativa economica privata), anzi, li rafforzerebbe a costo zero.
Così come sul versante dell’assorbimento. Sono i mari, il suolo, la vegetazione ed anche i grandi animali selvatici i migliori “servizi naturali ecosistemici” in grado di catturare e metabolizzare la CO2 (vedi, Adrienne Buller, Quanto vale una balena. L’illusione del capitalismo verde, add 2024). Le “soluzioni basate sulla natura” (come piantare alberi) sono sicuramente quelle più efficienti e più gradevoli. Il loro difetto è di costare meno, come vedremo poi.
Senza politiche economiche, produttive, ecologiche integrate e convergenti nemmeno le FER (Fonti energetiche rinnovabili) basteranno a realizzare la “transizione energetica”. Senza una contestuale diminuzione dei consumi energetici le rinnovabili semplicemente si aggiungeranno a quelle fossili senza riuscire nemmeno a coprire gli incrementi della domanda. In questo Trump ha tristemente ragione. Se tutto il sistema economico (e di conseguenza politico e sociale) continuerà ad essere quello che vuole lui, allora l’apporto delle FER, per quanto in spettacolare crescita anche negli Stati Uniti, non basterà ad alimentare i suoi bitcoin, i razzi dell’amico Musk che porteranno la bandiera a stelle e strisce su Marte, i magazzini e i furgoni di Jeff Bezos che ci portano i calzini a domicilio, i data center di Mark Zuckerberg che permettono di “messaggiarci” e, soprattutto, il comparto militare-industriale che sostiene eserciti che producono da soli e in normali tempi di pace più emissioni di CO2 di tutti i paesi dell’Unione europea.
Rimanendo in casa nostra in attesa dei prossimi conti ambientali che l’Istat pubblica ogni anno vorremmo capire come sta andando il consumo netto di energia e le emissioni climalteranti. Per sapere se stiamo davvero facendo la nostra parte per salvare il pianeta non dovremmo guardare solo alla percentuale della quota di FER sul totale, ma se questa quota va a diminuire effettivamente quella prodotta da combustibili fossili.
Insomma, quello che non ci dice né il Piano energetico nazionale, né la proposta di legge della Regione Toscana, e che ci fa rimanere dubbiosi sulle pale eoliche e sul solare sui campi, è in nome di cosa dovremmo sacrificare le colline del Mugello e non solo queste.
Trump non ha ragione. Le rinnovabili non sono “ridiculus”
La contestazione alle pale eoliche e al solare sui campi si presta ad essere confusa con la demonizzazione che la nuova amministrazione degli Stati Uniti e le forze politiche reazionarie di tutto il mondo, governo italiano compreso, hanno messo in scena contro qualsiasi iniziativa di stampo ecologico. Sarebbe necessario, quindi, per i movimenti, i comitati e le associazioni ambientaliste essere molto franchi e chiari ed uscire rapidamente da una situazione a dir poco imbarazzante.
La narrazione delle destre suprematiste, nazionaliste, iperliberiste è nota: non negano più direttamente l’effetto serra provocato dalle emissioni antropiche (i fatti sono troppo evidenti), ma contestano le politiche messe in atto a favore della transizione ecologica (a partire dalla Germania e dalla Ue attraverso il New Deal – Next Generation) che, a loro dire, “metterebbero in ginocchio” le imprese (industriali e agricole) facendo aumentare i costi di produzione ed esponendole alla concorrenza della Cina e degli altri paesi in “rapido sviluppo”. Indi, i costi della transizione finirebbero per ricadere sui ceti popolari dei paesi occidentali in termini di occupazione e di reddito. Anche questa narrazione, ripetuta fino a diventare “senso comune” nel discorso pubblico e mediatico (che fa il paio con quello del pericolo rappresentato dall’immigrazione), si basa sul rovesciamento della verità e porta al nascondimento della realtà.
Il New Deal si è arenato non perché i suoi obbiettivi fossero sbagliati (sostenibilità, mitigazione, rinaturalizzazione, riduzione dell’impiego di materie prime, risparmio ed efficienza energetica, aumento della biodiversità, disinquinamento, ecc.) o “troppo ambiziosi” e, tantomeno, per essere stato realizzato “troppo velocemente” (sic!) o perché le imprese abbiano avuto troppi vincoli, “lacci e lacciuoli”. Non c’è stato nessun “furore ideologico” nel portare avanti deboli e stentate politiche di tutela della salute e dell’ambiente. I magri risultati lo stanno a dimostrare! L’errore grave – che prosegue da oltre mezzo secolo, dalle prime conferenze dell’Onu sullo “sviluppo umano” – è stato quello di credere di poter raggiungere tali obiettivi usando la logica e gli strumenti del mercato. Come dire, lasciare guidare il gregge dal lupo.
I grandi poteri economici e politici, pur assistendo al rapido deterioramento delle condizioni biofisiche del pianeta tanto da mettere in pericolo le condizioni stesse di vivibilità di ampie zone del pianeta, hanno preferito non attuare le necessarie correzioni di rotta e modificazioni strutturali del modello economico esistente fondato sulla crescita indiscriminata. La verità è che il sistema governato dal capitale (profitti, accumulazione, investimenti da remunerare a tassi finanziari superiori e così via e sempre più rapidamente) non ha voluto o saputo confrontarsi per tempo con la crisi ecologica. Ignorandola, sperando che presto o tardi arriverà il sacro Graal della fusione nucleare o si preleveranno i metalli preziosi dagli asteroidi, ha continuato a saccheggiare questo pianeta rendendo sempre più difficili, complesse e costose le produzioni delle merci. Al pari, le condizioni di lavoro e di vita delle persone sono più stressate, precarie, insoddisfacenti.
Come ho detto prima, l’errore delle politiche del New Deal è stato quello di aver creduto che la “green economy” – se bene incentivata – avrebbe potuto affermarsi in un gioco competitivo di mercato contro il sistema di produzione tradizionale fossile-dipendente. Ma si è trattato di una doppia tragica illusione. Primo, perché i capitali si muovono dove pensano di realizzare maggiori ritorni. Secondo, perché le nuove tecnologie sono tutt’altro che “fossil-free”.
Nel tentativo di orientare i mercati finanziari a sostegno della riconversione degli apparati produttivi a minor impatto ambientale la Ue, gli Stati Uniti e gli altri paesi più industrializzati hanno messo in essere una larga gamma di strumenti: aste e commercializzazione dei permessi di inquinamento, carbon trading, compensazioni. Il tutto nella logica detta del “cap-and-trade”: stabilisci dei prezzi nell’uso dei “servizi ecosistemici” e metti il “capitale naturale” sul mercato. Tutto ciò non è bastato a convincere i cartelli della chimica, della farmaceutica, dell’agroindustria, del cemento, dell’acciaio… a cambiare registro. Imbattibili i margini di profitto che i fossili ancora oggi possono garantire a tutto il settore industriale, high-teck compreso. La strana alleanza tra uno come Trump e Elon Musk e i compari della Silicon Valley si può spiegare solo con la comune sete di energia che li divora.
(Foto tratta dalla pag. fb TESS – Transizione Energetica Senza Speculazione)
di Paolo Cacciari (da comune-info.net)
30 Gennaio 2025