Il molisano Tiberio prima di Fleming
Tiberio, l’italiano che scoprì il potere curativo delle muffe 35 anni prima della penicillina di Fleming. Era un medico militare della Regia Marina, originario del Molise. E’ ora che il mondo ne riconosca i meriti”
di Andrea Cionci
21 settembre 2017
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Vera rivoluzione per la medicina mondiale fu la creazione della Penicillina. Praticamente tutti sanno che questa si deve al medico inglese Alexander Fleming che, nel 1929, scoprì casualmente il potere battericida del fungo Penicillium.
Va però sottolineato che, fuori da ogni dubbio, la scoperta degli antibiotici spetta a un molisano, medico militare nella Regia Marina.
Un pozzo di scienza
Il dottore era nato nel 1869 a Sepino, in provincia di Campobasso, da una agiata famiglia notabilare. Iscrittosi alla facoltà di Medicina presso l’Università di Napoli, il giovane Vincenzo andò ospite dallo zio, ad Arzano, nei pressi del capoluogo campano.Nel cortile di questa casa vi era un pozzo dove veniva raccolta l’acqua piovana che era utilizzata, per bere, dai contadini. A causa delle particolari condizioni di umidità, la cisterna veniva spesso invasa da muffe verdastre – poco gradevoli a vedersi – e doveva essere periodicamente ripulita. Tiberio notò che, per qualche strano motivo, non appena avveniva la ripulitura del pozzo, le persone che ne bevevano l’acqua si ammalavano di gastroenteriti. Le stesse persone, invece, guarivano non appena la cisterna veniva nuovamente invasa dalle muffe. (Oggi il pozzo è ancora visibile, per quanto sia stato chiuso da un tappo di cemento. Sarebbe interessante capire se, una volta riaperto, le formazioni fungine possano riprodursi come allora).
L’intuizione e la creazione del farmaco
In uno di quei passaggi mentali intuitivi chiamati in gergo «lampi di genio» il giovane assistente di medicina capì che ci doveva essere una connessione tra i due fenomeni. Prelevò alcuni campioni di muffa e scoprì che alcuni Ifomiceti (muffe) liberavano sostanze capaci d’inibire lo sviluppo dei batteri, nonché di attivare la risposta chemiotattica (lo spostamento dei patogeni) nell’organismo infetto. Tiberio non si limitò a registrare il dato biologico, ma passò decisamente alla sperimentazione. Prima ottenne dei risultati in vitro e, successivamente, dopo aver individuato il terreno di coltura adatto, estrasse un siero concentrato e lo iniettò in alcuni topi da laboratorio, che erano stati da lui precedentemente infettati. I roditori guarirono. Mancava, a questo punto, solo la sperimentazione sull’uomo e la messa in produzione dell’antibiotico. Entusiasta, Tiberio comunicò la relazione sulle sue ricerche in facoltà, ma riscosse scarso interesse. Solo nel 1895, dopo la laurea, poté finalmente pubblicare negli «Annali di Igiene sperimentale» (una delle più importanti riviste scientifiche dell’epoca) la sua ricerca in un saggio dal titolo «Sugli estratti di alcune muffe». Ecco quanto scriveva: «Ho voluto osservare quale azione hanno sugli Schizomiceti i prodotti cellulari, solubili in acqua, di alcuni Ifomiceti comunissimi: Penicillium glaucum, Mucor mucedo ed Aspergillus flavescens. […] Per le loro proprietà le muffe sarebbero di forte ostacolo alla vita e alla propagazione dei batteri patogeni».
Il genio incompreso
Anche dopo la pubblicazione, nessuno degnò di attenzione questa sensazionale scoperta, nemmeno il suo nuovo professore che, con tipico atteggiamento da «barone» universitario, non amava le persone che lo potessero mettere in ombra. Vincenzo Tiberio, amareggiato e deluso, abbandonò l’Università: partecipò al concorso per medico nel Corpo sanitario marittimo e lo vinse. Si arruolò, così, nella Marina militare allontanandosi definitivamente dalla carriera accademica. La Marina gli avrebbe consentito di portare avanti le sue ricerche con maggiore dinamismo e possibilità. Indossando l’uniforme, infatti, l’ufficiale medico compì altri studi importantissimi sull’importanza dell’alimentazione dei marinai e della ventilazione nelle navi.
La “demeritocrazia” storica italiana
Ci si consenta una parentesi: come mai, nel nostro Paese, non è raro imbattersi in straordinarie scoperte rimaste nel cassetto? Ne abbiamo parlato con il sociologo Francesco Mattioli: «C’è un fattore culturale – spiega il professore – in Italia, il positivismo si è sempre scontrato con un idealismo prevalente, e nel ‘900 ha fatto legge il pensiero di Benedetto Croce il quale sentenziava che il sapere scientifico era secondario rispetto a quello filosofico e umanistico-letterario. Non che l’Italia non abbia prodotto scienza e scienziati, ma certo l’ambiente culturale italiano non è stato aperto come quello “laico” francese e soprattutto quello empirista anglosassone. Tuttavia, l’esempio di Tiberio, o anche quello di Meucci, soffocato dalla lobby scientifica angloamericana, o quello di Fermi, costretto ad abbandonare il Gruppo di Via Panisperna e a lavorare negli Stati Uniti, o ancora quello di Olivetti, che avrebbe potuto ingoiarsi tutta la Silicon Valley, stanno a dimostrare che la scienza italiana è apparsa debole a livello di potere internazionale, cioè in quella comunità scientifica internazionale descritta da Robert Merton come un organismo con le sue gerarchie e le sue regole, oltre che con il suo ethos».
Amalia Graniero
Una tenera e travagliata storia d’amore
Vincenzo Tiberio era probabilmente anche spinto dalla voglia di conoscere il mondo e di allargare la propria cultura e le proprie esperienze. Nonostante fosse ritenuto da alcuni un poco introverso, quasi un «orso», era un giovane infervorato da un ardente spirito patriottico ed era orgoglioso di appartenere alla Regia Marina, così come traspare dai suoi diari.
Ma ciò che spinse il giovane a questa scelta radicale, fu anche la volontà di allontanarsi da Amalia, sua cugina, figlia dello zio che lo ospitava ad Arzano. Pur essendone profondamente innamorato e soffrendo moltissimo di questa lontananza, da uomo di scienza, ben sapeva quali potessero essere i rischi della consanguineità per un’eventuale prole. Amalia, aveva ben due sorelle portatrici di handicap. Vincenzo Tiberio ne doveva tener conto. Così, sperava che la lontananza avrebbe spento nel suo cuore quell’affetto che ardeva, ricambiato, per la giovane e bella parente. Si sa che la lontananza mette alla prova il vero amore; in questo caso accrebbe ancor di più il sentimento tra i due giovani, cosicché il 5 agosto del 1905, Vincenzo ed Amalia coronarono il loro sogno, con una splendida cerimonia, nella Parrocchia di Sant’Agrippino, ad Arzano. Tuttavia, gli obblighi della vita militare, insieme all’impegno umanitario, continuavano a portare Vincenzo in giro per il mondo per mettere a disposizione dei marinai italiani e delle popolazioni sfortunate che questi incontravano le sue conoscenze mediche e la sua esperienza. «Come sarei felice se potessi rimanere sempre con Amalia, sarei allora un uomo normale» annotava nei suoi taccuini. Tiberio fu in prima linea per portare soccorso alle popolazioni nell’eruzione del Vesuvio e del terremoto di Messina dei primi del secolo, eventi di cui lasciò toccanti testimonianze nei suoi diari. Con la conquista della Libia, il medico svolse il suo ultimo incarico a Tobruk dove compì le prime vaccinazioni contro il tifo. In questa occasione dimostrò grande acume come igienista, salvando le vite di tanti nostri soldati. Aveva appena 46 anni quando un infarto troncò la sua vita operosa (e le sue promettenti ricerche) il 7 gennaio del 1915.
Altri sfruttarono le scoperte di Tiberio?
Solo nel secondo dopoguerra ci si accorse che Tiberio aveva anticipato Fleming di trent’anni, ma data la posizione dell’Italia di nazione sconfitta, comprensibilmente, i tentativi di rendere giustizia internazionalmente allo scienziato molisano furono vani. Alcuni studiosi affermano che i collaboratori di Fleming, l’australiano Howard Florey, e il tedesco Ernst Boris Chain, fossero a conoscenza degli studi di Tiberio. Questo sarebbe stato possibile perché all’epoca Napoli era uno dei centri culturali di maggior rilievo a livello europeo. Niente esclude che il suo lavoro sia stato preso come spunto per nuove ricerche. Alcuni hanno contestato a Tiberio il fatto che non avesse pubblicato lo studio in inglese. «All’epoca, dopotutto, non si usava, spiega il patologo Salvatore Maria Aloj, professore emerito dell’Università di Napoli – – e lo dimostra il fatto che Koch pubblicava i suoi studi in tedesco, e altrettanto faceva Pasteur in francese. Per Tiberio non sarebbe stato difficile dato che conosceva perfettamente inglese, francese e tedesco e questo è dimostrato dalle molte traduzioni che pubblicò. Personalmente ritengo plausibile che Chain avesse letto gli studi di Tiberio, ma non sappiamo se questo avvenne prima o dopo la messa a punto della Penicillina».
Ernst Boris Chain
Un documento probante
Secondo la signora Anna Zuppa-Covelli, nipote di Tiberio, ci sarebbe un documento definitivo: «Mio padre, il prof. Armando Zuppa (il primo radiologo a utilizzare i raggi X per rallentare lo sviluppo delle cellule tumorali n.d.r.) annotava tutto quello che, nel dopoguerra, veniva fuori sulla questione del nonno. Ho trovato un suo appunto in cui si cita il fatto che in una puntata de “La Voce”, una trasmissione radio del 1946, il dottor Chain ammise pubblicamente di aver letto gli studi di Vincenzo Tiberio». Il dottor Chain, dal 1948 al 1964 risiedette a Roma, dove aveva un incarico presso l’istituto Superiore di Sanità. «Colgo l’occasione – continua la signora Covelli – per chiedere pubblicamente agli archivisti della Rai un aiuto nel ritrovare questo documento importantissimo. Di sicuro Fleming non aveva letto gli studi di mio nonno perché non era riuscito a trovare il terreno di coltura adatto e non era riuscito a mettere in produzione un farmaco. Per quello ci volle, appunto, l’intervento di Chain e Florey che ebbero il supporto dei Rockefeller per cominciare la produzione della Penicillina. Nel 1945 venne loro giustamente tributato il Nobel, ma Vincenzo Tiberio non ebbe nulla di tutto ciò». Il dottor. Giulio Capone, dermatologo e nipote di Vincenzo Tiberio specifica: «Molti pensano che noi cerchiamo di propagandare la scoperta di nostro nonno per trarne benefici economici. Dei soldi non ce ne importa assolutamente nulla. Quello cui davvero terremmo è che le Istituzioni italiane riconoscessero pubblicamente la scoperta di Vincenzo Tiberio e dessero adeguato risalto alla sua figura anche a livello internazionale, come già avvenuto per Meucci che tutti conoscono, oggi, come il primo inventore del telefono. (Solo nel 2002 il Congresso americano ha riconosciuto il primato a Meucci rispetto a Bell n.d.r.). Il mio sogno sarebbe quello di vedere il Presidente della Repubblica, o il Ministro della Salute, portare un semplice fiore alla tomba di mio nonno a Sepino, a nome di tutto il popolo italiano».
Faticosi tentativi di riscoperta
Nel 1951 il Piccini, illustre farmacologo, così scriveva: «L’attuale “era antibiotica” ha in Tiberio il precursore glorioso. Il valoroso microbiologo italiano ritrovò di proposito – e non per caso, come sir Alexander Fleming 34 anni dopo – l’azione preventiva e terapica delle muffe». Qualche anno più tardi, Giuseppe Pezzi, un illustre storico della Medicina, scrisse: «Questi dati di fatto, pur non infirmando il grandissimo valore di Fleming e degli altri studiosi, dimostrano tuttavia, con evidenza inoppugnabile, come Tiberio sia stato precursore nel campo della penicillina e le altre sostanze ad azione antibiotica. A un italiano, finora ignoto, spetta l’onore di aver dischiuso alla terapia umana il nuovo campo degli antibiotici». Fra i più recenti alfieri di questa opera di riscoperta che ancora non riesce a «sfondare», l’ammiraglio Vincenzo Martines (ex Capo del Corpo sanitario della Marina) autore, insieme ad Anna Zuppa Covelli, del volume «La vita e i diari di Vincenzo Tiberio» (Adel Grafica, 2006). Anche l’Associazione «Agrippinus», di Arzano, da dodici anni cerca in tutti i modi di rivalutare un tale personaggio. Il Prof. Gennaro Rispoli ha dedicato a Tiberio due stanze del Museo della medicina, sito presso l’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Nel tentativo di far conoscere al pubblico internazionale il contributo di Vincenzo Tiberio del 1895, il prof. Salvatore Maria Aloj, ha tradotto per intero in inglese i suoi studi e li ha sottoposti per la pubblicazione alla famosa rivista inglese British Journal for the History of Science, che – stranamente per una testata di quel livello – non ha mai risposto sull’opportunità di pubblicarli. Tentativi meritevoli, dunque, ma isolati, compiuti grazie all’intraprendenza di singole persone, lasciate prive del supporto e del coordinamento che le Istituzioni dovrebbero fornire per un piano di comunicazione di proporzioni adeguate all’importanza del personaggio. Vale la pena, a tal proposito, di ricordare una delle frasi annotate da Vincenzo Tiberio nel suo diario: «Lunga e difficile è la via della ricerca, ma alla base di tutto c’è l’amore».
di Andrea Cionci (da lastampa.it)