Il Molise come Macondo
Una realtà caratterizzata ancora dal feudalesimo
di Domenico Di Lisa
20 dicembre 2017
Back
Un signore molisano, partito per andare oltreoceano quaranta – cinquanta anni fa, non ha mai fatto ritorno in Molise e non ha seguito le vicende politiche della nostra regione. Preso dalla nostalgia, decide di fare un viaggio nella terra di origine e lo fa in questa fase preelettorale. Ascoltando i nomi dei potenziali candidati alla Regione o al Parlamento ha un sobbalzo ed arriva alla conclusione che il Molise è una terra magica nella quale esiste il dono dell’immortalità. Almeno in politica.
Infatti, associa immediatamente il cognome Frattura a Fernando, Di Giacomo a Pietro, Iorio a Raffaele, Ruta a Nunzio, Vitagliano a Giuseppe, Totaro a Mario, Veneziale a Gabriele. E la lista potrebbe continuare.
L’iniziale stupore si trasforma rapidamente nel convincimento che nella terra che aveva lasciato esiste una ereditarietà delle cariche istituzionali e che, contrariamente a quanto aveva immaginato, è rientrato in un Molise che fa fatica a trasformarsi in una regione avanzata, attardato a livelli rurali o post rurali, pre-moderni, dove dominano ancora clan familiari. Constata che la politica è fondata su una cooptazione familistica e clientelare e non conosce il criterio della selezione meritocratica. Soprattutto la politica, infatti, sembra riprodurre situazioni che riportano indietro nel tempo, a quei rapporti sociali e di produzione tipici del vecchio Mezzogiorno preindustriale in cui una ristretta cerchia di latifondisti si contrapponeva ai contadini salariati che da essi dipendevano senza alcuna speranza di emancipazione. Insomma una realtà quasi feudale.
Il Molise come Macondo, la immaginaria cittadina della Colombia caraibica di Cent’anni di solitudine che narra la storia delle sette generazioni della famiglia Buendia, ambientata in un microcosmo arcano e segregato in cui la linea di demarcazione fra vivi e morti non è affatto nitida, il tutto sullo sfondo di un drammatico messaggio di isolamento e arretratezza.
Il nostro “turista di ritorno” realizza che il Molise assomiglia ad una palude la cui bonifica sembra una vera e propria impresa perché manca di una classe dirigente in grado di gestire una equilibrata modernizzazione; che nel Molise la politica è un incubo democratico: lo è per i cittadini che dalla politica si attendono legittimamente un miglioramento della vita civile e quotidiana e che invece non ottengono mai (a parte pochi fortunati) e lo è per quelle coscienze infelici che guardano con rassegnata impotenza allo sperpero del denaro pubblico, al malgoverno, alla corruzione, alle prepotenze dei privilegiati e ai loro ingiusti profitti e al comportamento della magistratura e delle forze dell’ordine che quasi sempre volgono lo sguardo altrove.
Intuisce che la politica molisana è fatta di intrighi, agguati, tradimenti, separazioni ed improvvise riappacificazioni, vendette, regolamenti di conti; è umorale, senza progetti e senza disegni strategici. Come spesso accade al Sud. E’ legata alle persone e non alle organizzazioni e soprattutto guarda agli affari. Per questo motivo si verificano così frequenti e spregiudicati cambi di casacca.
La politica come sovrastruttura fondata sui giochi di corridoio, che trascura gli impegni presi con gli lettori, i quali vengono considerati non cittadini ma sudditi o, al massimo, clienti.
Il nostro corregionale si spiega perché non si è mai sviluppata una vera e propria opinione pubblica, a sua volta indispensabile per esprimere scelte politiche basate su valori e ideologie, e perché in Molise non esiste un voto di opinione ma solo di interesse.
Non fa alcuno sforzo per individuare la risposta alla totale indifferenza dei giovani nei confronti della politica. E, pur avendo grande nostalgia dei caciocavalli e delle mozzarelle, senza alcun indugio, e senza alcun rimpianto, prenota il primo volo utile per ripartire.
di Domenico Di Lisa