• 07/15/2020

Italie agricole

Sappiamo che l’agricoltura non è soltanto un settore economico, ma anche un primario strumento di costruzione territoriale

di Rossano Pazzagli (da lafonte.tv) 

15 luglio 2020

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Per governare un Paese bisogna conoscerlo. Pochi anni dopo l’Unità, nel 1877, il parlamento del Regno varò una grande inchiesta sull’agricoltura italiana e sulle condizioni dei contadini, affidandone la direzione al senatore lombardo Stefano Jacini. Analizzando i risultati, fu lo stesso Jacini a sottolineare come l’Italia, seppur unita politicamente ormai da tempo non presentasse ancora, e non presenterà mai, un quadro unitario da un punto di vista agricolo: “…invano cercheremmo, dopo un quarto di secolo dacché fu proclamata l’unità politica, una vera e obbiettiva Italia agricola. Noi troviamo ancora parecchie Italie agricole differenti fra loro”. Di queste differenze, che potremmo definire fondative e che permangono al giorno d’oggi, non si è tenuto abbastanza conto; esse sono state trascurate o, peggio, considerate come un elemento di debolezza o di arretratezza, mentre avrebbero potuto essere e possono ancora essere la forza dell’Italia: un mosaico di prodotti, di paesaggi, di modelli sociali e culturali che rendono unico e irripetibile il nostro Paese. Differenze come ricchezza, che hanno innervato di sé l’intera società, che è in gran parte di origini rurali, più o meno lontane nel tempo.

C’erano parecchie Italie agricole, dunque, differenti tra loro. La relazione di Jacini è del 1880, ma sessant’anni prima Giacomo Leopardi, dava un’idea molto chiara di come si dovesse guardare al territorio rurale italiano e al suo paesaggio, da osservare non come un prodotto della natura, ma come il risultato di un incontro fecondo tra la natura e l’uomo. A volte i poeti colgono la realtà prima degli altri, in anticipo rispetto agli studiosi e ai politici:

“…una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili… è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura”. Non è un caso che Emilio Sereni abbia scelto proprio questo passo delle Operette morali come incipit della magistrale Storia del paesaggio agrario italiano pubblicata nel 1961 dall’editore Laterza.

Sappiamo che l’agricoltura non è soltanto un settore economico, ma anche un primario strumento di costruzione territoriale, quello che chiamiamo processo di territorializzazione e che sul lunghissimo periodo trasforma lo spazio naturale in territorio, con la sua dimensione visibile costituita dal paesaggio. Questo paesaggio – scriveva Sereni – è “il farsi di una società in un certo territorio”, rispecchia cioè il modo di essere e di organizzarsi della società e degli individui, il lavoro e la cultura contadina in primo luogo, la fatica della campagna e i bisogni alimentari delle città.

Dall’inchiesta Jacini emergeva un’Italia plurale. Dalle fresche valli alpine dove i piccoli nuclei abitativi erano circondati da un’area di coltivazione e poi da pascoli e terre comuni, con un’ economia di tipo silvo-pastorale (come il maso), alle terre aride della Sardegna in cui si alternavano boschi mediterranei, seminativi e pascoli per le pecore, si poteva rilevare una pronunciata varietà di paesaggi: le piantate della Pianura Padana che facevano da cornice ad una agricoltura integrata ceralicoltura-allevamento, con i prati e qualche risaia. Le alberature con filari di viti e gelsi della pianura asciutta e delle colline dell’Italia settentrionale. Ancora, la distesa di piantate, con vite maritata all’olmo, che spezzava la prevalenza dei seminativi nell’Emilia Romagna. Il paesaggio mezzadrile delle regioni centrali caratterizzato dal tipico insediamento sparso del podere e dalla cultura promiscua, con la vite e l’ulivo intercalati ai seminativi e alle case coloniche. Poi dalla Maremma e dal Lazio in giù un’altra campagna: quella dei boschi e del latifondo, con prevalenza di cereali e pascoli legati alle migrazioni e alla transumanza; un paesaggio più estensivo che contrassegnava le ampie regioni del Mezzogiorno, con la rarefazione di alberi e case, una campagna più vuota, lavorata da braccianti e coloni che abitavano le cosiddette “città contadine”, cioè le grandi borgate dell’insediamento accentrato. Tuttavia neanche il Sud presentava un volto uniforme: la monotonia del latifondo era spezzata qua e là da zone di agricoltura più varia o intensiva, come i giardini mediterranei della penisola sorrentina, i vigneti e gli oliveti della Puglia, gli agrumeti ai piedi dell’Etna, in Sicilia, le geometrie irregolari dei campi molisani o lucani. Sopravvivevano tra i cereali, pascoli e boschi e un forte retaggio feudale nell’organizzazione della terra. Caratteristiche ben riscontrabili in Molise, regione piccola ma con una agricoltura a più dimensioni che nel tempo ha cercato caparbiamente di adattarsi alle complesse e difficili condizioni ambientali. Cereali, viti e olivi erano anche qui una presenza costante, lo sfondo di un paesaggio disegnato dai percorsi tratturali della transumanza, costellato di paesi e di montagne, verso oriente stemperate in colline degradanti verso l’Adriatico.

Abbiamo bisogno di questo, di uno sguardo storico che serva a recuperare e a rispettare il senso di questa pluralità di paesaggi e di vocazioni, di un Paese che deve alle sue radici agricole e pastorali gran parte del patrimonio di cui ancora oggi dispone e che potrà ancora utilizzare in futuro. Se solo sapessimo vederlo, conoscerlo, tutelarlo e apprezzarlo.

di Rossano Pazzagli (da lafonte.tv) 

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