• 03/03/2020

L’Orfanotrofio domestico del Pio Maresciallo

I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre

di Vincenzo Colledanchise

3 marzo 2020

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Anna si era sposata a venti anni, nel 1942 a S. Elia, con il barbiere del paese.

La vita era grama e si viveva poveramente. Bisognava attendere i raccolti per poter vedere qualche soldo, mentre un taglio di capelli veniva pagato con tre uova o un chilo di farina.

Ma il barbiere venne arruolato in guerra e dopo inenarrabili vicende, fu fatto prigioniero in Germania.

Dopo tre anni trascorsi lontano da casa, tornò in famiglia molto malconcio e in seguito morì, lasciando tre teneri figlioli.

Anna per loro si sottopose a mille umiliazioni, purchè fosse assicurato un pasto ai suoi ragazzi lei sopportava di tutto.

Un giorno, intenta a portare le olive del suocero al frantoio, scambiò due chiacchiere col titolare dell’opificio. Costui le disse di conoscere un maresciallo in pensione che a Roma accoglieva gli orfani presso la sua casa. Fu contattato il maresciallo, che inizialmente prese solo il secondogenito di Anna. Per non lasciar solo il figlioletto era rimasta qualche settimana nella capitale rendendosi utile nella casa del suo benefattore.

Anna si mise a fare la pasta di casa e le varie pietanze tipiche contadine che sapeva preparare con perizia, teneva pulita e in ordine la casa trasformata in orfanotrofio e stirava tutto il pomeriggio, fino a tarda ora.

Fu tanto apprezzata dal maresciallo e dai suoi familiari che la invitarono a portare anche gli altri suoi due figli rimasti a casa dai nonni. In paese tutti la prendevano per pazza e temeraria, ma lei sapeva bene cosa facesse, soprattutto perché tesa ad assicurare un avvenire ai suoi figli.

La sera, nel grande camerone divenuto refettorio, erano in quindici bambini a mangiare intorno al tavolo, di cui tre, figli del maresciallo. Costui preparava ogni giorno molti biglietti che provvedeva a far recapitare da Anna e da altra inserviente della casa-orfanotrofio presso gli Istituti bancari, Opere Pie, Chiese e addirittura alcuni indirizzati direttamente al Vaticano.

Presso un grande istituto sul Gianicolo, servendosi di grossi contenitori, andavano Anna e la sua amica a prelevare il vitto preparato per gli alunni dell’istituto. Le due donne con i due grossi contenitori riprendevano il tram, e via al quartiere Quadraro ad alimentare i loro piccoli.

Il maresciallo donava ad Anna anche 5.000 lire al mese, ma alla donna importava soprattutto rilevare i tanti pacchi doni che giungevano in quella casa ricchi di indumenti, scarpe, giocattoli e libri.

Quando i figli di Anna furono costretti, in seguito, a prendere altre vie per altri istituti scolastici, ad Anna quella casa alla quale aveva donato tutte le sue energie le sembrò fredda, seppur il maresciallo e la moglie l’adorassero e la tenessero in gran conto per tutte le cose di cui la vedova era capace di fare.

Il primogenito, grazie all’OMNI, aveva preso dimora presso un Istituto di Forlì, dove lei si recava mensilmente. Gli altri due erano in altre due scuole separate di Roma.

Tentò di guadagnare molto di più andando in servizio presso un albergo, come consigliatole da una amica, ma la vita immorale che vi dominava la fecero resistere solo quindici giorni.

Allora il maresciallo le aumentò lo stipendio a quindicimila lire, e in seguito l’aiutò a comprare una piccola casetta sull’Appia, dove è vissuta ultranovantenne, amatissima dai figlioli che lei aveva provveduto a far diplomare con tanti sacrifici. 

Uno di loro, l’ultimo, divenuto nostro condomino e compare di battesimo, in piena notte, durante una crisi cardiaca, fu prontamente soccorso da mia moglie tentando di salvarlo con interminabili massaggi cardiaci, ma dopo qualche giorno Paolo è deceduto, e mentre consolavo Anna per la perdita del figlio, lei, senza piangere, mi ha raccontato queste sue mille disavventure che solo una mamma è capace di affrontare.

(Foto: Paolo, padrino della nostra Angelica)

di Vincenzo Colledanchise

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