• 04/12/2022

La memoria del mondo contadino 

L’esodo rurale verso le città e verso l’industria tra il 1950 e il 1970 segnò il tramonto dell’Italia contadina

di Rossano Pazzagli (da nautilusriivista.it) 

12 aprile 2022

Back

Quando nelle campagne arrivarono la televisione, l’acqua in casa e la luce elettrica eravamo già negli anni ’70 del secolo scorso. A quel tempo mia nonna non voleva vedere in tavola lenticchie, né cicerchie. Diceva che ne aveva mangiate troppe da giovane, quando non c’era altro, e che quei legumi le ricordavano la miseria e la guerra. Era una donna piccola e mite, proveniente da una famiglia di mezzadri che per sopravvivere aveva cambiato diversi poderi, tutti in collina tra Monteverdi, Suvereto e Campiglia, nell’Alta Maremma toscana. Si sposò nel 1931 con un contadino come lei, che non era mezzadro ma piccolo proprietario, troppo piccolo per non fare altri lavori, dal bracciante al pastore. Erano famiglie sempre in bilico: bastava un matrimonio o una morte per sbilanciare tutto, perdendo braccia da lavoro, aumentando le bocche da sfamare o per vedere la poca terra divisa in parti ancora più piccole, talvolta insufficienti a mantenere anche una sola persona.

La Tv era un oggetto misterioso, una novità che entrava nelle case verso sera, e qualcuno pensava perfino che fosse un occhio che ci osservava. Un contadino di Monte Calvi, come tanti rimasto celibe per non sbilanciare quegli equilibri con la terra, prima di accendere la televisione si cambiava, indossando abiti puliti e stirati, perché era convinto che i personaggi dello schermo ci vedessero, come noi vedevamo loro. Dove non era ancora arrivata l’energia elettrica, il piccolo elettrodomestico era alimentato da una batteria di automobile appoggiata sotto, sul piano ammezzato del carrello, lo stonato articolo d’arredamento che nelle cucine di campagna andò a fare compagnia alle madie, alle stufe economiche e agli armadietti con la moscaiola. Per le famiglie contadine la televisione fu il nuovo focolare, il motore di una trasformazione casalinga: si passò dal “tutti intorno al camino” al “tutti intorno alla tv”. All’inizio fu addirittura un modo per rinverdire la tradizione delle veglie e dei rapporti di vicinato che hanno sempre contrassegnato il mondo rurale: attorno a quel Phonola si riunivano a gruppi i contadini e le contadine nelle lunghe sere d’inverno per guardare La freccia nera, Canzonissima o Rischiatutto; si ritrovavano nella casa di chi per primo aveva avuto la possibilità economica o i contatti giusti (es. un parente in città) per acquistare quella che a prima vista sembrava poco più che una scatola di legno con un vetro davanti, due pulsanti e un’antenna. Ma la televisione significò anche altro. Era innanzitutto un segno del benessere.

Oltre a mandare in pensione la vecchia e voluminosa radio a pile che a lungo aveva accompagnato le cene contadine, specialmente all’ora del “comunicato” (come allora chiamavano il giornale radio), la televisione fu il mezzo che veicolò nelle case di campagne il modello e lo stile di vita urbano, il principale strumento di propaganda “visibile” della società dei consumi. In questo senso finì per accelerare un processo già in atto: quello dell’esodo rurale verso le città e verso l’industria che tra il 1950 e il 1970 segnò il tramonto dell’Italia contadina. Si trattava di un fenomeno di vasta portata, che si svolse innanzitutto sul versante sociale, ma che era legato anche a motivi di ordine economico. Attratti dalle possibilità di lavoro del settore industriale e dall’aria apparentemente libera delle città, spinti da diffuse condizioni di arretratezza e dalla grave carenza di servizi e infrastrutture nelle campagne, fuggendo quell’odor di stalla vissuto come inferiorità sociale, furono soprattutto i giovani a lasciare l’agricoltura, con la conseguenza di un invecchiamento degli addetti all’attività rurale e di crisi della struttura familiare dell’azienda agraria. In vent’anni il numero dei contadini diminuì drasticamente, con la riduzione delle aziende agricole che fu particolarmente forte negli anni ’60, ma proseguita anche dopo. I risultati dei censimenti agricoli, dal primo (1961) all’ultimo (i cui risultati stanno per uscire) non lasciano dubbi su questo trend discendente. 

Questa è storia, la storia di una grande trasformazione italiana – da Paese contadino a Paese industriale e consumistico – che ha comportato anche una frattura nella memoria, quasi una dimenticanza, la rimozione di un mondo che si voleva lasciare definitivamente alle spalle.

Per qualche decennio, dopo il boom economico, la memoria del mondo contadino è così divenuta soprattutto il ricordo della miseria, della fatica e dell’arretratezza, poi la partenza, la nostalgia del tempo perduto, infine il ritorno, incerto e sfuggente. Ci sarebbe bisogno di una memoria del futuro. Ma, come recita un detto tradizionale, “il futuro non c’è vecchio che se lo ricordi”. Allora accontentiamoci del passato e incrociamo la memoria con la storia: solo così potremmo provare a immaginare il futuro, a nutrire progetti e visioni. È quanto ha fatto l’Istituto di Ricerca sul Territorio e l’Ambiente “Leonardo”, che opera nell’ambito dell’Università di Pisa, ove esiste una consolidata tradizione di studi sull’agricoltura e la società rurale, sia dal punto di vista storico che scientifico. I ricercatori dell’IRTA hanno portato avanti un progetto denominato La memoria della campagna realizzando un archivio di interviste che mette a disposizione di studenti, cittadini, operatori economici e amministratori pubblici un repertorio ragionato di testimonianze ancora vive raccolte anziani protagonisti rurali (in prevalenza mezzadri, ma anche fattori e proprietari) residenti in diverse località della Toscana, la cui sintesi è consultabile liberamente su internet (https://www.leonardo-irta.it/progetti-attivita-in-corso/archivio-attivita/la-memoria-della-campagna/).

Il recupero di questa memoria appare importante non solo sul piano culturale e dell’identità sociale, ma anche per una più approfondita conoscenza del territorio, a vantaggio di una migliore valorizzazione ambientale, di una coerente pianificazione territoriale e dei processi di sviluppo rurale che interessano le campagne, anche come utile contrappeso agli imperanti processi di globalizzazione dell’economia e della società contemporanea. La memoria non è la storia, ma piuttosto un suo frutto e anche un suo sussidio, come dimostra l’uso ormai consolidato delle cosiddette fonti orali. È l’aiuto per una riflessione sull’importanza dell’agricoltura e delle campagne anche nell’ottica di una rivalutazione dell’economia contadina, che è stata spinta fuori o ai margini di quella di mercato. Margini che possono, forse devono, tornare al centro. Quello che sembrava un addio, un tramonto definitivo del mondo agricolo e della ruralità, negli ultimi tempi si sta rivelando qualcos’altro: la fine del mito del progresso e della crescita illimitata, il peggioramento della qualità della vita nelle città più grandi e l’emergere della questione ambientale hanno spinto verso una rivalutazione del mondo rurale, prima di carattere culturale e poi anche a livello pratico con l’instaurarsi di processi di ritorno, legati alla multifunzionalità dell’agricoltura, alle produzioni tipiche, all’agriturismo, alla ricerca di nuovi stili di vita e alla ricostruzione del rapporto città-campagna. Ci siamo resi conto della necessità dei contadini, dei vecchi e dei nuovi contadini come ha scritto il sociologo rurale Jan Van Der Ploeg. Per andare avanti ogni tanto bisogna guardarsi indietro. Osservare il cammino fatto, bello o faticoso che sia, ci serve per immaginare e costruire il futuro, un tempo diverso, mai uguale al passato: un tempo nuovo. Ma non ci potrà essere un tempo nuovo senza agricoltura, senza contadini.

di Rossano Pazzagli (da nautilusriivista.it) 

Back