• 03/29/2021

«La mia battaglia»

Sul Manifesto di sabato 28 marzo: Conversazione con Elio Germano e Chiara Lagani, insieme firmano per Einaudi il libro dall’omonimo spettacolo. Il titolo non si riferisce a tormenti esistenziali, ma è la traduzione italiana di «Mein Kampf» di Hitler di cui gli autori hanno mutuato stralci interi per un esperimento scenico e sociale inquietante

di Silvia Veroli

29 marzo 2021

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Fanny&Alexander, la compagnia teatrale fondata a sedici anni; Sylvie e Bruno, l’opera più complessa di Lewis Carroll che sta traducendo per Einaudi. Il talento di Chiara Lagani, attrice e drammaturga, è anche in quella congiunzione, che nella pratica della scena e della pagina scritta diventa saper prendere a braccetto compagni di gioco virtuosi e di difficile etichettatura per progetti artistici che sfuggono anch’essi a una definizione univoca. Ultimo dei binomi fantastici è quello che unisce Lagani ed Elio Germano: insieme firmano lo spettacolo La mia battaglia, e il testo tratto dal copione, appena uscito nella collana Einaudi Super et Opera Viva.

ATTORE impegnato, anti divo, influencer dei buoni, Germano con la complicità di Chiara Lagani, riesce a trascinarti dentro un esperimento sociale di inquietudine crescente spacciandotelo per un invito al ballo; e con la sua capacità scenica e con le parole che ha scelto conduce lo spettatore per sentieri che si biforcano sino al cospetto delle possibili e più terrificanti versioni di sè. Il tranello è nel titolo, La mia battaglia: potrebbe riferirsi a tormenti esistenziali invece trattasi della traduzione italiana di Mein Kampf (La mia battaglia), il saggio nel 1925 con Adolf Hitler delineò il programma del Partito nazionalsocialista sotto forma di autobiografia. Germano e Lagani hanno mutuato stralci interi del testo che, sorpresa, decontestualizzati, sono addirittura passabili. Diventano contundenti solo col detonatore di gesti, toni, accorgimenti scenici che chi recita e scrive ha saputo imprimergli.

«IL PROGETTO ha una struttura horror – spiega Germano – Parte col mettere lo spettatore a suo agio e poi aggiunge livelli fino a fare manifestare l’orrore dentro di noi. Il potenziale di male negli altri è facile da additare e liquidare ma accettarlo a riconoscerlo come parte di sé è un’altra faccenda. Ti dici: a me non capiterà. Ammettere di poter condividere le parole chiave del nazismo è un trauma che richiede, abbiamo visto, a fine rappresentazione, processi di distanziamento collettivi». E infatti il pubblico ha ritenuto, in certi casi, di intonare Bella ciao fuori dal teatro, quasi a dissipare i fantasmi dello scampato pericolo, di piangere o ridere istericamente; a Germano e Lagani è capitato spesso di sentirsi rinfacciare «ma non vi sentite in colpa ad aver architettato una macchina così subdola?». Sì, si sono sentiti in colpa, tutti e due, benché Germano abbia pagato sulla propria pelle il contrappasso, a ogni replica, della trasformazione in Cattivo. Da brava persona a prava persona, la maschera dei latini. Il sorriso accogliente che sterza al ghigno allucinato del dittatore. Doloroso come la metamorfosi di un licantropo. Eppure bisogna ringraziarli, tutti e due, della visita guidata ai confini del precipizio e alla simulazione di caduta: questa è un’esercitazione, e imparare a sminare così il campo dai pericoli della manipolazione non ha prezzo. Andrebbe portato nelle scuole, lo spettacolo per la capacità di evidenziare, come un esame al luminol, la disponibilità di adesione a un valore più alto e alla sua degenerazione.

PER GERMANO «farsi incendiare dalle parole porta a rivoluzioni o devastazioni. Quello che accade è una affiliazione senza sfumature, sto con chi parla o contro di lui, e non conta cosa dice, neanche più come lo dice (una volta almeno si commentava ’senti quel politico come parla bene’) ma chi lo dice. Conta se sono abbonato a lui o ad altri: questo meccanismo è la cosa esplosiva, il vero segnale d’allarme. Compiuto questo passo ci si dispone alla manipolazione più estrema: basta che una persona stia su un palco e acquista un potere persuasivo, basta avere un microfono una cattedra o altare. Quello che si dice ha più possibilità di attecchire. E se chi ascolta non ha strumenti per filtrare è in pericolo; il punto è farsi un bagaglio e poi utilizzarlo, così attrezzati si sarà in grado di valutare con la propria sensibilità e coscienza le questioni esposte da chi amo e capire che si più dissentire anche da chi ci piace e viceversa». Aggiunge: «Oggi viviamo un livello di pericolo e degenerazione ulteriore di linguaggio e cultura: all’epoca di Mein Kampf l’adesione era una questione politica, aveva a che fare con l’idea di come voler vivere e organizzare la società. Ora la gente semplicemente si omologa, senza un progetto, senza pensare, per simpatia o antipatia. Pollice su o pollice giù è la sintesi».

Per qualcuno a teatro, nei libri, là dove si forma il giudizio critico non bisognerebbe ritrovarsi di fronte alla materia disgustosa dell’attualità politica dei media: Chiara Lagani lo aveva percepito all’epoca del Discorso grigio scritto coi Fanny&Alexander, monologo blob che esplorava le forme e le retoriche degli interventi politici ufficiali. Racconta: «Questi testi sono specchi opachi dove sgomenta vedersi riflessi, è la questione del male riconoscibile in noi come diceva Elio. Eppure, per fare un esempio chi come me è nato negli anni ’70 può dire non avere nulla a che fare col berlusconismo? Abbiamo introiettato quell’universo culturale anche se siamo cresciuti con modelli familiari che ci hanno allenato al giudizio o proposto di meglio; siamo fatti anche delle cose tossiche che ci circondano. Il linguaggio è la spugna sensibile che di più attrae e metabolizza le tossine, le incorpora e genera parole monstrum che diventano mine vaganti delle retoriche populiste. La strategia del monologo è improntata su questo, seminare parole apparentemente benigne o neutre – come merito interesse competenza -che possono esploderti in mano, e quando accade è tardi….è questa la forza del linguaggio, il suo essere antenna sensibile anche sull’aspetto malato del nostro immaginario. Di certo con l’anno pandemico in mezzo, i vocaboli risulterebbero cambiati, sarebbe curioso verificarlo; la paura dell’altro avrebbe a che fare anche con il contagio».

GIÀ DA TEMPI non sospetti, La mia battaglia ha una versione virtuale, vista da 30.000 persone; è una dimensione che Germano apprezza e dove sperimenta da alcuni anni, un ibrido tra presenza e remoto, dove le persone in sala sono dotate di visore che consente visione sferica, come compagni di volo aereo seduti vicini ma allacciati ciascun al proprio schermo. «Questa strada è qualcosa in meno del teatro qualcosa in più della ripresa video. Non funziona con tutti i lavori, non può tradurre tutto il teatro, ma mi piace per la possibilità di aggiungere, come in La mia battaglia, livelli interpretativi. Gli strumenti tecnologici hanno il loro specifico potere manipolativo oggi che non ci sono più comizi vis a vis. Abbiamo usato la VR anche per uno spettacolo che porteremo alla Pergola di Firenze appena riapriranno i teatri, un adattamento di Così è se vi pare: lo spettatore è virtualmente in scena come uno dei personaggi, e gli altri gli si rivolgono. Anche qui si gioca su livelli semantici e si moltiplica la matrioska pirandelliana sull’identità, l’indagine su di chi sono io, chi sono per gli altri, chi sento di essere».

di Silvia Veroli (dal Manifesto del 28.03.21)

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