• 01/24/2025

«La missione non si racconta, si vive»

Nell’ottobre scorso padre Antonio Germano Das ha celebrato i suoi 60 anni di ordinazione presbiterale

di p. Antonio Germano Das

24 Gennaio 2025

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Missionario saveriano in Bangladesh da oltre 47 anni, nell’ottobre scorso padre Antonio Germano Das ha celebrato i suoi 60 anni di ordinazione presbiterale. Data la sua età, non può più salire su quella moto che da sempre gli ha permesso di raggiungere le comunità sparse nei territori della sua missione. Ma la passione di continuare a vivere con la sua gente non si è affievolita di una virgola. (di Chiara Pellicci – dalla rivista “Popoli E Missione” dove è stato pubblicato l’articolo che segue)

 

Nella parte del mondo dove vivo la missione di Gesù da più di 47 anni, la verità viene narrata in parabole, che in lingua bengalese sono chiamate upoma kahini o golpo.

Anche Gesù, che apparteneva al mondo orientale, si esprimeva in parabole.

Ecco allora un aneddoto che lessi anni fa sulla rivista indiana di teologia Vidyajyoti Journal of Theological Reflection: «I discepoli erano tutti presi dalla discussione sul detto di Lao-Tzu: “Quelli che sanno non parlano, quelli che parlano non sanno”. Quando il Maestro entrò, i discepoli gli chiesero che cosa significassero quelle parole. Il Maestro disse: “Chi di voi conosce la fragranza di una rosa?”. Tutti la conoscevano. Allora il Maestro disse: “Esprimetela in parole!”. I discepoli rimasero in silenzio».
L’aneddoto descrive molto bene la situazione in cui mi trovo dopo 60 anni di ordinazione (fui ordinato presbitero per la missione nel 25 ottobre 1964): l’esperienza non si racconta, la si vive! La missione è passione. Sì, perché era proprio la passione per il Cristo che mi teneva inchiodato sulla riva del fiume Kopotokko, in balia delle intemperie e dei cicloni, per 12 anni senza corrente, senza telefono e senza mass media. Per me tutto questo si tratta della storia di un’avventura d’amore, al cui centro c’era Lui, Gesù, che mi sosteneva e di cui avvertivo la presenza.
Scrivevo: «Signore, tu ci sei; manifestati a me. Se tu ti manifesti, io vivo» (Borodol, 31.08.1978). E ancora: «Io sono qui, perché tu sei qui con me e mi riempi di gioia. Se tu fossi lontano da me, io fuggirei!» (Borodol, 02.09.1979).

La missione è ad gentes. Una volta, all’orizzonte della chiamata alla missione, figuravano solo i popoli che non conoscevano Gesù e reclamavano il diritto a conoscerlo. Da qui nasceva l’urgenza della partenza per la realizzazione

della missione. Oggi l’orizzonte si è accorciato perché, dicono, i popoli dell’ad gentes si trovano a casa nostra e non c’è bisogno di uscire per andare a trovarli.
Il fenomeno dell’emigrazione di massa in questi ultimi decenni ha sconvolto i parametri del modo di pensare e di agire nel mondo occidentale, coinvolgendo anche la Chiesa e la sua missione. A riguardo è in atto un ampio dibattito, degno di grande attenzione. Ma, come missionari ad gentes, la nostra posizione dovrebbe rimanere chiara e netta: il problema riguarda la Chiesa locale che, come è stato affermato dal Concilio vaticano II, di sua natura è missionaria.

Questa verità ha trovato conferma nello slogan del mese missionario straordinario nell’ottobre

2019: «Battezzati? Quindi Inviati!». A noi, come Saveriani, occorre conservare intatta l’identità del carisma ad gentes, che richiede l’uscita dalla propria terra e dalla propria cultura.  La missione è identificazione con il popolo al quale si è inviati.
Era il 10 dicembre 2006 e ricorreva la Giornata Mondiale dei Diritti Umani, celebrata con enfasi dalla nostra gente Das. Per chi non lo sa, Das è il nome con cui vengono designati all’anagrafe i fuori casta della zona dove si trova la

missione di Chuknagar. Das, in lingua bengalese, significa schiavo ed è come uno stigma che segna la fronte della nostra gente, come a dire: tu sei schiavo e schiavo devi rimanere. Ora, in quel 10 dicembre 2006, insieme ad

una folla sterminata di Das, celebravamo la ricorrenza nella cittadina di Monirampur, in provincia di Jessore. Quando toccò a me il turno di parlare, esordii in questo modo: «Celebriamo la Giornata dei Diritti Umani. Orbene, dopo tanti anni che io sono in mezzo, ho acquisito il diritto di chiamarmi come voi: Das». Vidi allora che i loro occhi si illuminarono, brillarono di gioia e mi accolsero con uno strepitoso battimani. Da allora in poi ho aggiunto Das al mio nome e cognome, ovvero: Antonio Germano Das.

La missione è ad vitam. Forse ci si dimentica, ma bisogna tenerlo sempre a mente che per noi Saveriani la vita consacrata è scandita, oltre che dai voti di povertà, obbedienza e castità, anche dal quarto voto della missione.

Si corre quando si è giovani, affrontando con entusiasmo situazioni spesso difficili, con il rischio anche di sbagliare.

La corsa si attutisce con l’età matura, quando si guarda alla realtà con disincanto. Subentra la quarta età, che è quella che mi riguarda, quando c’è bisogno della terza gamba, che è il bastone, per muoversi. Si vorrebbe correre come una volta, ripercorrere le strade fangose nella stagione delle piogge e polverose nella stagione asciutta, riprendere in mano quello che era nel sogno di realizzare e non fu realizzato, ma la terza gamba non lo consente. Allora ci si rende conto che siamo entrati nella fase finale della missione, che trova il suo apice nella kenosis, nel graduale scomparire per l’invocazione finale: «Maranatha, vieni, Signore Gesù!».

 

di p. Antonio Germano Das, sx. (antoniogermano2@gmail.com)

24 Gennaio 2025

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