• 06/13/2019

La sinistra che non c’è ed il paese che affonda

Siamo in presenza di una società che, invece di indignarsi di fronte ai dati che ci dicono che un manipolo di persone al mondo possiede la ricchezza di oltre tre miliardi di poveri, se la prende proprio con i depredati, i poveri del mondo

di Domenico Di Lisa

13 giugno 2019

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Da anni faccio fatica a sentirmi parte di questa società che, dopo aver dato il meglio di sé durante la resistenza e nel primo periodo della Repubblica, testimoniato anche dalle conquiste sociali e democratiche ottenute, è andata progressivamente organizzandosi per caste e gruppi di potere economico-finanziari, si è completamente disarticolata, spappolata, senza un denominatore “pubblico” ed obiettivi comuni, percorsa da un profondo degrado morale, sempre pronta a dare sostegno ed alimentare un sistema fatto di piccoli e grandi privilegi, di sprechi finalizzati alla creazione e mantenimento del consenso. Una società che in assenza di riferimenti ideali e di guida politica, lentamente, ma gradualmente, ha perso coscienza dei doveri da assolvere e diritti costituzionalmente garantiti da rivendicare, non realizzando che l’uguaglianza è un valore costituzionale che precede le differenze in quanto capace di garantire le libertà costituzionali e rimettere in moto il futuro. 

In questo quadro di deresponsabilizzazione generale, individualismo esasperato, di rassegnazione a processi ritenuti ingovernabili e indipendenti dall’intervento dei singoli e delle comunità, di una sfiducia oscillante tra fatalismo, indifferenza o addirittura connivenza ed accondiscendenza nei confronti di un ceto politico arrogante, avido, cinico, corrotto, incolto, incapace, sono venuti addirittura a peggiorare i tratti della “italianità”, storicamente caratterizzata da furbizia, sotterfugi, servilismo, inclinazione all’imbroglio, cialtroneria, insofferenza verso qualsiasi regola.

E lentamente, ma inesorabilmente, la mia tendenziale inclinazione al pessimismo ha preso il sopravvento, tanto che oggi non nutro alcuna residua speranza che le cose possano migliorare. Cosicché da tempo mi sento apolide e ai miei interlocutori, che spesso mi interrogano sul mio disimpegno politico, ripeto che esso è il frutto non solo della estraneità a questa politica ma della sostanziale estraneità a questa società. Fatico a sentirmi italiano. 

E l’avvicendamento di ceto politico, che almeno sulla carta avrebbe potuto e dovuto segnare il punto di ripartenza, ha prodotto sì un “cambiamento” (al quale non ho mai creduto e non ho mai assecondato), ma un cambiamento regressivo che sta già provocando un ulteriore e definitivo degrado della politica e della società che ha ribaltato una scala di valori. Sono diventati valori da esibire la grettezza, l’ignoranza, la supponenza, l’arroganza (basta seguire qualche talk show), e sono diventati i solutori dei problemi del lavoro proprio coloro che nella loro vita non hanno mai lavorato. Chiunque sa leggere e scrivere é un potenziale “nemico” del popolo. Oggi Erasmo scriverebbe “L’elogio dell’ignoranza o della stupidità”. 

Tralascio per il momento ogni commento sulla politica economica di questa maggioranza che, nel solco di quelle precedenti, non solo non punta ad eliminare le cause strutturali che determinano l’abissale disparità nella formazione della ricchezza e  neanche lontanamente si pone il problema della sua redistribuzione (una patrimoniale sui grandi patrimoni, lotta vera all’evasione fiscale) per finanziare misure sociali indubbiamente necessarie, se pensate con criterio ed intelligenza e non per acquisire facili consensi.  E lo fa, ancora una volta, a debito, scaricandone gli oneri sulle future generazioni che, tra i soggetti deboli, sono quelli più deboli. E non esprimo giudizi sulla opposizione di sinistra (inesistente) ancora nelle mani di coloro (o dei loro cloni) che negli anni, sviluppando politiche sociali ed economiche di destra, ne hanno determinato il disastro e precluso la possibilità stessa oggi, o nel breve-medio termine, di avere titolo a poter parlare, e ancor meno a rappresentare i giovani, gli ultimi, i lavoratori, il ceto medio, per provare a riaprire una prospettiva democratica per il Paese.

Tralascio anche le pur indispensabili considerazioni su un Paese che dovrebbe riflettere sul proprio invecchiamento nel quale la decrescita demografica rappresenta già un enorme problema strutturale. 

Mi preme invece soffermarmi sull’ ulteriore imbarbarimento della società italiana, che incantata dai nuovi “pifferai magici”  – non si rivolgono mai ai “cittadini” ma al “popolo”, confondendolo con la maggioranza, dal quale ritengono di avere avuto una investitura scevra dal rispetto di qualsiasi forma di limitazione – è in preda ad una deriva xenofoba e razzista, che in  epoche non lontanissime ha prodotto immani sciagure. Altro che il razzismo degli italiani è una invenzione mediatica!

Siamo perciò in presenza di una società che invece di indignarsi di fronte ai dati che ci dicono che un manipolo di persone al mondo possiede la ricchezza di oltre tre miliardi di poveri, se la prende proprio con i depredati, i poveri del mondo. Una sorta di sindrome di Stoccolma.

Siccome non ho mai ritenuto una colpa essere ricchi, a maggior ragione trovo aberrante l’idea che è una colpa essere poveri, soprattutto se essa alberga nei più poveri. E non ho mai ritenuto, e non ritengo, che l’Italia possa ospitare tutti i migranti che fuggono dalle guerre, persecuzioni, carestie, povertà, quasi sempre provocate dallo sfruttamento dei Paesi più ricchi, Italia compresa. Così come non sottovaluto gli oggettivi e gravissimi errori commessi nel passato nella gestione della questione migranti, diventato per alcuni italiani un colossale affare, e neanche il sacrosanto diritto alla sicurezza o, meglio, la percezione distorta della insicurezza: i dati dimostrano che i delitti complessivamente diminuiscono e che la maggior parte di essi si commettono tra le mura domestiche. Ma assistere al livore, all’odio montante, alla intolleranza e, sempre più spesso, alla violenza delle istituzioni e delle persone nei confronti dei migranti, mi offende, mi amareggia e mi indigna. 

Mi offende perché la storia dovrebbe insegnarci che le migrazioni sono una costante del genere umano, e non solo. Mi offende perché non oso immaginare quale avrebbe potuto essere lo stato d’animo di mio padre e dei miei nonni, dei miei zii, tutti migranti, di una moltitudine di persone che conosco e che per costruire un futuro migliore per loro e la loro famiglia hanno dovuto lasciare l’Italia, se i Paesi ospitanti avessero riservato loro lo stesso sentimento e trattamento che gli italiani riservano ai derelitti che sbarcano dai gommoni. E che dire dei nostri tantissimi giovani, molto più numerosi di coloro che arrivano in Italia, che ancora oggi espatriano pur non fuggendo da guerre, carestie, povertà assoluta, e si realizzano in terra straniera, trovando comunità che non li discriminano, non li insultano, non li offendono. Per fortuna.

Mi amareggia, inoltre, la mancanza di volontà e la incapacità di concentrare gli sforzi tesi a individuare, almeno a livello europeo, una gestione condivisa del problema, oggettivamente complesso e strutturale, che ci accompagnerà nei prossimi decenni, accanendosi, invece, contro le vittime di un mondo ingiusto, privilegiando rapporti internazionali non con i paesi più aperti e disponibili, almeno sulla carta, ma con i governi dichiaratamente xenofobi. Ormai non riusciamo neanche più a realizzare che una cosa è ospitare, tutt’altra cosa è salvare.

Mi indigna constatare tra i più strenui sostenitori dei nuovi “potenti” proprio i meridionali, fino a poco tempo fa scherniti, derisi, offesi proprio da chi oggi è responsabile delle “Forze dell’Ordine”. 

>E che cosa é se non uno sciagurato progetto di disarticolazione dello Stato Unitario ed una ulteriore forma di discriminazione e di insulto, soprattutto nei confronti dei meridionali, quella che viene chiamata la “secessione dei ricchi”, cioè il tentativo di Lombardia, Veneto e, ahimè, Emilia Romagna di ottenere maggiori poteri e risorse in tutte le materie consentite dall’attuale testo dell’articolo 116 della Costituzione, purtroppo modificato nel 2001, che sta passando, se non con la esplicita complicità, nel sostanziale silenzio dei meridionali che ancora credono e plaudono all’uomo forte “Salvifico”? Sovranismo di che e di chi? Perfino superfluo ricordare che la “pre intesa”, su questo sciagurato disegno, è stata sottoscritta a febbraio 2018 dai rappresentanti delle tre Regioni e dal sottosegretario agli affari regionali (governo Gentiloni) Gianclaudio Bressa. 

La cesura con gran parte di questa società e chi la rappresenta è totale e definitiva ed il pessimismo della ragione mi indurrebbe a prendere atto che, allo stato attuale, non vi sono prospettive di miglioramento. Mi verrebbe voglia di “dimettermi da italiano” e finire qui queste brevi riflessioni. Ma per quanto deluso ed amareggiato proprio dalla parte politica nella quale ho sempre agito e militato, per il lavoro che faccio, l’essere genitore con figli, la passione mai sopita per la politica e, forse, l’ottimismo della volontà, mi spingono a prendere atto che nessuno, a partire da me, ha il diritto di tirare i remi in barca ed assistere passivamente a questo processo di involuzione e di imbarbarimento generale. Ho, abbiamo, un dovere nei confronti delle nuove generazioni: riaprire una prospettiva di futuro che, nonostante tutto, è un compito che spetta alla sinistra. Una sinistra rinnovata, vera, degna di questo nome. Una sinistra che non rappresenti più “il problema” ma una possibile soluzione. In Italia “una sinistra c’è, sebbene non abbia rappresentanza da molto tempo, non esiste sul piano delle organizzazioni politiche, delle offerte elettorali, della rappresentanza parlamentare”.  

Abbiamo perciò l’obbligo e la necessità di superare la passività con la quale quel che rimane del popolo di sinistra e di centrosinistra assiste inerme ed inerte alla distruzione della più nobile tradizione politica italiana, costruita con le lotte ed il sangue di milioni di persone per ottenere una società più equa, più libera, più democratica, più inclusiva. Persone, uomini e donne che hanno subito sulla propria pelle umiliazioni, discriminazioni. 

Ce ne sono ancora di queste persone, le conosco. Molte sono disilluse e testimoniano le proprie idealità ed esplicano la loro azione nei meandri della vita civile. Sono amareggiate, sfiduciate ma, spero, non arrese. Spetta a loro impegnarsi nel processo di ricostruzione di una sinistra egualitaria e libertaria, anche se allo stato attuale non hanno e non trovano gli strumenti, i mezzi, gli spazi, i luoghi, le organizzazioni per farlo. Si tratta di avviare una vera e propria impresa, un cantiere, che non ha molto a che vedere con l’idea di “inclusività” di ceto politico biascicato da coloro che ancora non trovano il coraggio di analizzare in modo franco, sincero, le ragioni del disastro politico provocato, ammettere le proprie responsabilità e lavorare per far emergere una nuova classe dirigente, non i loro cloni, lasciando la testa del convoglio per spingerlo dalle retrovie. L’alternativa non può essere affidata all’attuale ceto politico incapace e tanto screditato da non essere credibile neanche come opposizione: l’attuale coalizione di governo rappresenta anche l’unica opposizione a se stessa. Ed intanto questo ceto politico, (di sinistra?) incurante dei disastri provocati, non fa nulla per darsi un minimo di dignità e provare a comportarsi da classe dirigente.  E i nuovi “padroni” possono dormire sonni tranquilli, mentre il Paese affonda.

di Domenico Di Lisa

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