La Spallata
Settembre ’43: la rappresaglia sfiorata di Guastra, nell’agro del comune di Capracotta
di Mauro Gioielli – fb
23 Ottobre 2024
In ambito molisano, sono state documentate non poche danze praticate prevalentemente in contesti popolari. Di più balli ci resta unicamente il nome o poco altro, giacché gli scarsi documenti e le disattente esposizioni in essi contenute non permettono di delineare, in modo efficace, la loro precisa struttura coreografica.
Fra le antiche danze tradizionali, la 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎 sembra essere la più “molisana” di tutte. Durante gli ultimi due secoli, si riscontrano più attestazioni letterarie di ciò. Nel 1836, Giuseppe Del Re segnalò il nome di sette balli praticati nel Molise, tra cui, appunto, la 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎.
Nel 1887, il campobassano Enrico Melillo, descrivendo una festa nuziale, inserì nel volume 𝑂𝑡𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑟𝑢𝑠𝑡𝑖𝑐𝑎𝑛𝑜 notizie su una 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎 molisana eseguita con zampogna e tamburelli:
«…aspettavano la sposa sul limitare della porta, col nastro di seta verde, secondo l’uso del villaggio: molti invitati si erano alzati in piedi; gli altri erano saliti sulle lunghe scranne di legno, per vederla anch’essi. Le comari avevano già situato il 𝑚𝑒𝑧𝑧𝑒𝑡𝑡𝑜 entro la stanza, a pian terreno, alla vista di tutti, e accordavano i tamburelli contro la fiamma crepitante su per il camino affumicato. Una di esse istruiva le altre sulle movenze da farsi intorno alla sposa dopo il bacio della suocera, sul numero dei ritornelli della canzone di nozze, sulle coppie che dovevano pigliar parte alla prima 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎 […], e Giorgio il calabrese dava fiato alla zampogna. […] La suocera prese per mano la sposa e, fattala sedere sul 𝑚𝑒𝑧𝑧𝑒𝑡𝑡𝑜, le dié un sonoro bacio sulla fronte. Le comari, sei in tutte, si diedero a ballare […] la 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎. In questo ballo curioso quattro od otto coppie d’ambo i sessi si conciano per bene le spalle con forti spintoni cadenzati, senza badare a dolori o ad ammaccature. È una specie di tarantella o contradanza, a battute uniformi, senza comandi, eseguita a suon di tamburelli. […] Giorgio il calabrese seppe trovare lì, su due piedi, un motivo adattato alle cadenze del ballo, che durava un bel po’ di tempo; anzi, le comari, stanche del batter di dita sulla pelle dei tamburi, rimasero solo il povero zampognaro, diventato rosso come un gambero cotto per il lungo e penoso gonfiar di guance».
Questi stralci del racconto ci consegnano varie informazioni. Oltre alla sintetica descrizione del ballo, è testimoniato il metodo d’accordare il tamburello col calore. Infatti, è «la fiamma crepitante su per il camino» che provoca la tensione della pelle dello strumento, al contrario di quanto accade per effetto dell’umidità che ne causa l’afflosciamento e, di conseguenza, rende difficoltoso un efficace uso del tamburello. Melillo, inoltre, evidenzia l’utilizzo di tale membranofono da parte delle donne, circostanza che concorda con molte fonti (letterarie, visuali e sonore) che, per tradizione, ne decretano l’assegnazione a un ruolo prevalentemente femminile.
Secondo Renato Pinna, tra i passi e le figure principali dei balli popolari napoletani in uso nel XVI e nel XVII secolo c’era il 𝑟𝑒𝑝𝑜𝑙𝑢𝑛𝑒 (anche 𝑟𝑒𝑝𝑜𝑙𝑜𝑛𝑒, 𝑟𝑒𝑝𝑢𝑙𝑜𝑛𝑒), ossia la «spallata che davansi coloro che danzavano».
Non a caso, infatti, nella seicentesca 𝑇𝑖𝑜𝑟𝑏𝑎 𝑎 𝑡𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑒 di Felippo Sgruttendio viene menzionata la danza denominata 𝑐𝑎𝑡𝑢𝑏𝑏𝑎, che prevede appunto il 𝑟𝑒𝑝𝑜𝑙𝑢𝑛𝑒: «𝑆𝑜𝑛𝑎 𝑚𝑜, 𝑐ℎ’𝑖𝑜 𝑠𝑎𝑢𝑡𝑜 𝑒 𝑐𝑎𝑛𝑡𝑜. 𝐹𝑎 𝑐𝑎𝑡𝑢𝑏𝑏𝑎 𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑒, 𝑓𝑎 𝑐ℎ’𝑜𝑔𝑛𝑢𝑛𝑜 𝑛’𝑎𝑔𝑔𝑖𝑎 𝑠𝑝𝑎𝑛𝑡𝑜: 𝑣𝑖̀ ’𝑠𝑡𝑖 𝑠𝑎𝑢𝑡𝑒 𝑒 𝑟𝑒𝑝𝑜𝑙𝑢𝑛𝑒, 𝑠𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑝𝑝𝑟𝑖𝑒𝑠𝑠𝑜 ’𝑠𝑡𝑒 𝑐𝑐𝑎𝑛𝑧𝑢𝑛𝑒». Lo stesso autore, in riferimento alla ’𝑛𝑑𝑟𝑒𝑧𝑧𝑎𝑡𝑎, menziona la seguente figurazione: «𝐹𝑎 𝑟𝑒𝑝𝑜𝑙𝑢𝑛𝑒 𝑒 𝑏𝑜𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑎 𝑙𝑎 ’𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑎».
Sempre nel Seicento, si hanno ripetute segnalazioni di un ballo propriamente chiamato 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎. Epifanio Ferdinando, nel suo 𝐶𝑒𝑛𝑡𝑢𝑚 ℎ𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎𝑒 (1621), considera la spallata un genere di danza correlata al tarantismo ed eseguita in occasione delle terapie coreuticomusicali. Nello stesso secolo, la 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎 è citata da Giulio Cesare Cortese, nel decimo canto del poema eroico 𝑀𝑖𝑐𝑐𝑜 𝑃𝑎𝑠𝑠𝑎𝑟𝑜 𝑛𝑛𝑎𝑚𝑜𝑟𝑎𝑡𝑜, laddove scrive: «𝐶ℎ𝑒’ 𝑏𝑒𝑛𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑎 𝑏𝑎𝑙𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎».
Nel Settecento, Ferdinando Galiani, definisce la 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎 una: «𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑒 𝑑𝑖 𝑏𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎𝑑𝑖𝑛𝑒𝑠𝑐𝑜 𝑢𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑠𝑠𝑎𝑖 𝑜𝑔𝑔𝑖 𝑛𝑒𝑔𝑙𝑖 𝐴𝑏𝑟𝑢𝑧𝑧𝑖», anticamente diviso in Ulteriore e Citeriore, ossia un territorio molto più esteso dell’attuale Abruzzo e che, infatti, andava dal Tronto al Biferno, includendo buona parte dell’odierno Molise, comprese città come Agnone e Termoli. Tale ballo, aggiunge Galiani, «𝑃𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑖𝑙 𝑛𝑜𝑚𝑒 𝑑𝑎𝑙 𝑏𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑠𝑖 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑙’𝑢𝑜𝑚𝑜 𝑒 𝑙𝑎 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑎, 𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑎𝑛𝑧𝑎𝑛𝑜».
Una considerazione specifica va fatta sulla denominazione della danza. Nell’Ottocento, il citato Melillo conferma ciò che aveva scritto Galiani, cioè che il nome 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎 è stato assegnato a tale ballo perché i danzatori «𝑠𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑙𝑒 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑖 𝑠𝑝𝑖𝑛𝑡𝑜𝑛𝑖 𝑐𝑎𝑑𝑒𝑛𝑧𝑎𝑡𝑖». Sulla stessa linea Gaetano Amalfi, il quale nel 1889 scrive che quel nome deriva dall’urto «𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑒 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑒» che fanno i danzatori.
Ciò, però, non concorda con quanto sostiene nel 1911 Milan Resetar, per il quale il nome 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎 (danza in uso anche fra le minoranze croate del Molise) deriverebbe dal fatto che «il ballerino e la ballerina, girando, si danno le spalle».
Infine, Giuseppe Jovine, nel 1955, afferma che a Castelmauro (Cb), durante la 𝑠𝑝𝑎𝑙𝑙𝑎𝑡𝑎, i ballerini si scambiano «𝑝𝑜𝑑𝑒𝑟𝑜𝑠𝑖 𝑐𝑜𝑙𝑝𝑖 𝑑𝑖 𝑎𝑛𝑐𝑎».
Se ne deduce che la figurazione caratteristica e probabilmente originaria del ballo era quella del colpo di spalla, ma la danza poteva avere anche delle varianti cinetico-coreografiche che prevedevano tra i ballerini 𝑙𝑎 𝑏𝑜𝑡𝑡𝑎 con altre parti del corpo.
di Mauro Gioielli – fb
23 Ottobre 2024