• 11/26/2021

La testimonianza di Rosa

Quando a Capracotta arrivarono i Tedeschi

di Rosa Anna Di Tella (da letteraturacapracottese.com)

26 novembre 2021

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Era il 9 settembre 1943. Tutta la popolazione di Capracotta stava alla Madonna. Ad un certo punto sentimmo passare sopra di noi gli aerei che andavano a bombardare Isernia dove poi ci sono stati tanti morti. In precedenza erano arrivate due macchine dei Tedeschi ma nessuno dette peso al fatto.
Io ricordo che avevo preparato mio figlio Carmine per andare sul cavallo bardato a festa per fargli fare una fotografia.
Ad un certo punto ci fu un grido generale:
– Vengono i Tedeschi! Non arrivano gli aerei per bombardare!…
Ci fu immediatamente un finimondo ed un fuggi fuggi. Da quel momento Capracotta si riempì, poco alla volta, di Tedeschi i quali dopo aver requisito le case, hanno messo il coprifuoco. Nella nostra casa di piazza Gianturco abbiamo dovuto tenere per otto giorni i Tedeschi. Io lavavo loro le gavette. Non accettavano mai nulla da noi se io prima non assaggiavo quello che offrivo loro: avevano paura di essere avvelenati. Nella casa dove adesso abita Guidone avevano fatto il mattatoio, dove uccidevano i maiali con un colpo secco di cuózzo di accetta in fronte. Uccidevano anche vitelle: uccidevano e mangiavano come porci. Mangiavano come porci, patate e cipolle.
Facevano una continuazione a pelare patate qui davanti a S. Giovanni, perché avevano la cucina mobile su un rimorchio a quattro ruote, messo parallelo alla chiesa, e lì cucinavano e mangiavano. Avevano posto tutti i mezzi nella piazza Gianturco mascherandoli con legna e altre cose.
Fu allora che presero Giovanni Cuzzelìcchie e gli diedero tante mazzate. Infatti c’era l’ordine di consegnare le armi, ma anche avevano l’ordine di requisire le bestie… così un gruppo di Tedeschi incontrarono Giovanni Cuzzelìcchie e Pasqualino Mescànze ai quali tolsero tutte le bestie. Giovanni reagì e siccome forse aveva addosso qualche arma, proprio davanti a Gianturco lo picchiarono con il calcio del fucile. Mescànze se ne scappò, mentre Giovanni fu portato al comando. I Tedeschi avevano “mandato il bando” con il quale ingiungevano a tutti i cittadini di consegnare le armi, pena la morte, come pure era fatto divieto di tenere, nascondere, aiutare i nemici, e, nel caso specifico gli Inglesi, per questo successe quel che successe ai fratelli Fiadino.
Dunque per ritornare a Giovanni Cuzzelìcchie, è meglio che ti fai raccontare da lui ogni cosa. Stemmo otto giorni in questa situazione. Poi partì l’autocolonna dei Tedeschi e sembrò che non vi fosse rimasto nessuno… ed invece, in piena notte, vennero a bussare alla porta di casa nostra con il calcio dei fucili. Noi stavamo tutti vicino al fuoco, c’eri pure tu, te lo ricordi?
Allora i Tedeschi sfasciarono la porta usando l’accetta. Tuo padre scappò per la Pineta dalla parte di sotto della casa. Pasqualino andò a dormire nella camera da letto ed io andai ad aprire quel tanto che c’era rimasto della porta, scusandomi di non essere scesa prima perché non avevo sentito…
Salirono in cucina, si sedettero intorno al fuoco ed io feci per loro un caffè che non vollero accettare. Io capii che non si fidavano ed allora lo provai anch’io con il cucchiaino. Allora lo bevvero anche loro.
Dopo aver bevuto il caffè, vollero i tazzoni per farsi il tè, anzi fecero tutto da sé: andarono nello stipo, si presero i tazzoni, fecero il tè, se lo bevvero e dopo volevano da noi una radio, ma io risposi che non avevamo la radio. Forse non ci vollero credere, perché tirarono fuori una lampadina tascabile e si misero a rovistare, anzi alcuni infilarono la via delle scale, allora io accesi le luci, essi salirono fino alla mia camera da letto.
Pasqualino, per la paura, si nascose sotto il letto, meglio sotto le reti, cioè in modo da non toccare con i piedi per terra, mentre nel letto ci rimasero Carminuccio e Luisa.
Entrarono dentro la mia camera e io mi davo da fare a dire che lì c’erano soltanto i bambini a dormire. Tu stavi con nonna Luisa giù in cucina. Entrarono dentro la camera di tuo padre e non trovarono nessuno perché tuo padre era fuggito, tu stavi giù, allora volevano mettersi a dormire lì ed io ad insistere che lì dormivi tu e così scesero nella camera di sotto, dove adesso c’è zio Antonio, e si misero a dormire in sei persone.
Si fecero anche due brande in cucina. E dormirono per otto notti lì da noi. Nei ganci che c’erano nella cucina per appendere le salsicce o i caciocavalli, essi ci appesero i fuculi, baionette, elmetti… l’accidenti che li piglia!… fecero piena piena la cucina.
Io allora avevo Peppino di sedici-diciassette mesi e quindi in cucina c’era la sua culla. La bonanima di mio suocero si sedette in quella culla e lì fece la nottata ripetendo in continuazione: «O Madonna, come si deve fare?!» e così fece giorno.
Tu andasti a dormire nella camera di tuo padre. Alle tre di mattina Pasqualino scese le scale in punta di piedi e uscì dalla porta posteriore e andò a rifugiarsi sotto la fornaia, sotto all’attuale bottega di zio Cinzitto.
Avevamo nascosto anche il cavallo e il mulo. Il cavallo (Morello) lo tenemmo nascosto per quaranta giorni sotto a zia Lauretta, mentre il mulo stava dalla fornaia. Appena giorno i tedeschi si alzarono e andarono qui alla cucina di S. Giovanni a prendersi bistecche, datteri, minestra… C’era uno, per la verità, che era buono, ma erano sempre sospettosi. A me spesso chiedevano come mai questi bambini non avevano il papà… ed io mi affrettavo a rispondere che i nostri uomini erano in guerra, al fronte… Infatti c’era soltanto mio suocero. Tra voi ragazzi tu eri quello che avevi legato maggiormente con loro, perché accettavi quello che ti davano: carne, cioccolato o altro; mentre i tuoi cugini erano più schifiltosi e non prendevano mai nulla.
In quell’occasione vollero anche due materassi e quando partirono ce ne riportarono soltanto uno.
Quello più giovane e che sembrava più buono diceva che «la Germania era tutta kaputt… ha scritto la mia famiglia… niente kaputt famiglia mia, ma la Germania tutta kaputt… non avere paura, signora, noi domenica a sera partire alle 10». E così fu. La sera della domenica partirono. Ma io, per tenerli contenti, lavavo le loro gavette, davo loro il pane, ma lo dovevo sempre assaggiare io prima. Se lo mangiavio io, lo mangiavano anche loro.
Il giorno successivo alla loro patenza in Capracotta non c’era più nessun tedesco. Era una giornata splendida che metteva ulìa, allora aprimmo tutte le finestre perché dovevano far saltare i ponti e noi aprimmo tutte le finestre; ma dopo tanta attesa i ponti non furono fatti saltare.
Si giunse alle 3 di pomeriggio del 7 novembre, quando vedemmo arrivare una macchina carica di pali e di fili. Grande fu la nostra sorpresa nel costatare che erano di nuovo tornati i Tedeschi. Dopo un po’ vedemmo arrivare altri tre camion carichi di pale e di picconi. Lo smarrimento aumentò e ci si domandava quali fossero le intenzioni dei Tedeschi.
Il giorno successivo fu “mandato il bando” in cui si ordinava a tutte le donne di riunirsi alla Chiesa Madre e agli uomini al Municipio. Da precisare che il giorno 5 e 6 già si erano presi gli uomini, ed allora ci domandavamo cosa volessero fare con questa nuova trovata.
Ad un certo punto si diffuse la voce che dovevano buttare giù tutte le case. Mi ricordo che buttarono giù la prima casa al Poggio dei Grilli ma non mi ricordo di chi fosse la casa. In tutti i modi quando cominciarono il tempo era ancora bello o almeno non era nuvoloso. Poi nei giorni successivi si mise a piovere e a fioccare.
Il primo giorno della distruzione delle case io andai a cacciare il cavallo, mentre Annina andò a cacciare il mulo e lo portò Sotto la Terra dove c’era Paolo e Pasqualino. Io dunque tirai fuori il cavallo dalla stalla di nonna Rosina, e la bestia, al vedere la luce, cominciò a fare còccia e coda; cercavo di calmarlo, chiamandolo per nome; alla fine riuscii a mettergli la cavezza e me lo portai qui sotto casa. La gente fuggiva in tutte le direzioni e nessuno volle aiutarmi ad accoppare la varda, cosicché da sola, invece di mettergli la varda del cavallo gli misi quella del mulo; poi gli misi due coperte sopra e lo portai al camposanto, dove stava già mi suocero, mia suocera e voi bambini. Gli dissi:
– Tieni qui il cavallo perché se dobbiamo nuovamente scasare… con questi bambini, è meglio avere una bestia a disposizione.
Così lasciai il cavallo e tornai in paese, mentre Annina tornava da Sotto la Terra dove era stata a consegnare il mulo ai fratelli. Allora le proposi di prendere da casa qualche cosa da mangiare.
Nel sottoscala della nostra casa di piazza Gianturco noi avevamo, dietro una catasta di legna, alcune cose da mangiare. Così cominciammo a togliere la legna, ma nel momento in cui tiravamo fuori la roba da mangiare eccoti che arrivano i Tedeschi. Io in quel momento avevo un prosciutto in mano e subito lo offrii loro. Essi avevano la bomba incendiaria già pronta, ma al vedere il prosciutto, subito dissero: «Niente kaputt» e così si presero il prosciutto e andarono via.
La casa di Gianturco dunque se la scampò per allora, mentre questa casa qui delle Croci fu incendiata una prima volta. Questa era una paglièra. Se tu pensi che nella stalla, al piano di sotto, c’erano dieci pecore di zia Iocia, questo soffitto che sta sotto i nostri piedi non crollò, rimase integro in alcune parti, perché era fatto con le travi di ferro, mentre in altre cedette. Siccome c’era la paglia l’effetto non fu distruttivo come speravano i Tedeschi: la casa si scoperchiò soltanto e le mura rimasero intatte. Successivamente l’intenzione dei Tedeschi era quella di far saltare di nuovo tutta la casa in modo che restasse ostruita la sottostante via provinciale.
Misero le mine e il botto fu fortissimo: la casa nostra e quella di zia Dorina si sbriciolarono e si portarono appresso pure buona parte di quella di Colaizzo. I Tedeschi, comunque, non ottennero l’effetto desiderato neppure questa volta perché il colpo fu tanto forte che i detriti andarono a finire lontano e anzi andarono dalla parte opposta di come volevano loro.
Comunque delle dieci pecore due morirono, forse per il calore, mentre le altre otto furono ritrovate vive. La sera di quel giorno mio marito si vestì da donna e tirò fuori le pecore dandole a quelli di Colaizzo e poi fece dei tentativi per raccomodare le tavole in modo da poterci servire di quando era rimasto, come rifugio.
Dunque quella sera, prima del coprifuoco, io andai al cimitero mentre Annina non si volle muovere e restò sola alla casa di Gianturco perché, avendo tolto la protezione della legna alla nostra provvista di viveri, temeva che qualcuno durante la nostra assenza facesse piazza pulita non solo della roba mangereccia ma anche della biancheria, perché c’era il baule di mia suocera allo scoperto e poi la casa lasciata sola diventava preda di tutti.
Quando andai al cimitero portavano anche la moglie di Pasqualino Mosca che era gravemente ammalata: la cacciarono dalla casa perché c’era l’ordine di distruzione di tutte le case.

(Foto: Rosa Di Tella coi parenti)

di Rosa Anna Di Tella (da letteraturacapracottese.com)

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