La Traviata nella bottega
I racconti di Vincenzo Colledanchise hanno la maturità che solo il trascorrere del tempo può produrre
di Vincenzo Colledanchise
11 febbraio 2020
Sarti, fabbri, falegnami, muratori, calzolai e altri piccoli artigiani e commercianti, integravano e completavano la società contadina. Le loro botteghe erano anche ritrovo giornaliero dei paesani che non frequentavano le cantine.
Gli artigiani erano tanti, ma il lavoro mancava. Così, per guadagnarsi la giornata, il sarto impagliava le sedie, il calzolaio ramazzava in chiesa, il barbiere cavava i denti e tutti, d’estate, strimpellando una tromba, un clarino o un trombone formavano una piccola banda, buona per accompagnare il santo in processione.
Un anno cadde tanta di quella neve che paralizzò il paese per moltissimo tempo. Si dice che non tutti i mali vengono per nuocere, perciò di tale situazione approfittarono gli artigiani per dare vita ad una banda che nelle intenzioni avrebbe potuto rivaleggiare con la famosa Banda Rossa di San Severo.
Giovanni Ferrara, secondo alcuni il miglior maniscalco della provincia, un tipo estroso e megalomane, si mise in testa che i suoi colleghi artigiani dovessero provare presso la sua bottega, tutti i santi pomeriggi, per dare anche loro un concerto in piazza, la vigilia dell’Incoronata. Addirittura propose che concertassero la Traviata di Verdi.
Era pur vero che molti di loro la canticchiavano o fischiettavano a memoria, quotidianamente, mentre erano assorti nella pratica del loro mestiere, ma avventurarsi in tale impresa, a molti, sembrò pura follia. A sconsigliare mastro Giovanni furono proprio gli stessi mastri-musicisti che erano ben consci dei loro limiti artistici. Invece, il cocciuto mastro Giovanni, da semplice capo banda, volle addirittura calarsi nei panni del direttore d’orchestra, che nei movimenti veloci della bacchetta ricordava Toscanini.
Per incitare gli amici, asseriva che in fondo, se pure andava male, nessuno poteva rimproverarli di niente, perché il concerto sarebbe stato gratuito. Inoltre, assicurava, solo loro, gli artigiani, unitamente a qualche galantuomo, conoscevano a memoria l’opera. Cosa ne capivano i poveri cafoni del melodramma verdiano?
Invece proprio i cafoni, la sera dell’attesa esibizione, avendo avuto modo di ascoltare per tutti quei mesi di prova le stonature incredibili che provenivano dalla bottega di mastro Giovanni, si appostarono, dietro la cassa armonica, coi loro strumenti rudimentali, attendendo con impazienza di rivaleggiare con gli artigiani.
Non dovettero attendere molto. Già nelle prime battute del preludio, la tromba di mastro Nicola, apprezzato ciabattino, oltre che andare fuori tempo, inciampò in un do acuto, ma tanto acuto, che alle orecchie del pubblico presente risuonò come la più offensiva delle pernacchie. Neanche la tromba di latta di Vincenzo il banditore era mai arrivata a tanta stridula stonatura.
Fu allora che entrò in scena l’altra orchestra, quella dei cafoni. Armati di struculatore, barili, tric trac, raganelle, tielle, coperchi e cottore di rame, nonché di alcuni potenti bufù, diedero inizio a un assordante controconcerto, che annichilì del tutto i mastri concertatori, che da quella sera tornarono a fare solo i mastri e basta.
(Foto tratta da Auguri)
di Vincenzo Colledanchise