• 10/18/2016

LE BRIGANTESSE MOLISANE

Marta CECCHINO, Maria Luisa RUSCITTI, Maria GIANTOMMASO e Filomena CICCAGLIONE

di Barbara Bertolini 

14 marzo 2017

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Nel Sud della Penisola il brigantaggio esplode con virulenza soprattutto dopo l’Unità d’Italia. Un fenomeno che  interessa più di 400 bande armate, con  circa 80 mila uomini alla macchia. Se si aggiungono, però, i fiancheggiatori, le persone direttamente o indirettamente coinvolte nel fenomeno arriverebbero a parecchie centinaia di migliaia, forse anche un milione. Per debellarlo il regno sabaudo impiega dieci anni di violenta repressione, schierando la metà delle forze armate disponibili.

Quali sono state le cause che hanno portato così tante persone a “saltare la barricata”?  I motivi sono vari e ampiamente trattati dalla storiografia.  

In sintesi si può dire, però, che molti di questi giovani sono ex  soldati del disciolto esercito borbonico che hanno subito soprusi, ingiustizie e umiliazioni o i renitenti alla leva; i contadini che si vedono usurpate le terre  demaniali vendute dai nuovi amministratori  ai galantuomini; le attese non mantenute del governo sabaudo; le enormi difficoltà economiche dovute al crollo del Regno di Napoli che colpiscono i ceti deboli;  i filo-borbonici che osteggiano la giovane Italia e vogliono restaurare il regime  di Francesco II, esiliato a Roma, il quale, per far insorgere le popolazioni contro i Piemontesi, promette le terre ai contadini. 

Questi uomini, spesso sostenuti dalle popolazioni locali, che, oltre alla vita non hanno nulla da perdere, commettono i loro crimini contro  il nuovo ordine costituito e contro i liberali nella prima fase che va dal 1860 al 1863 e poi, da quella data, quasi sempre per puro tornaconto personale, senza più distinzioni tra borbonici e liberali.

Molti storici tendono a mettere in evidenza che il brigantaggio fu soprattutto una lotta di classe tra i contadini e i galantuomini. Per quanto riguarda le donne questo non è vero. Almeno è ciò che emerge dalle loro storie.  Quanti banditi hanno mai rapito una “signorina” dell’alta borghesia per farne la loro amante? Essi infierivano su povere analfabete, serve o contadine che incrociavano sulla loro strada nelle campagne o nelle masserie isolate e che rapivano per il proprio personale piacere. Il furfante vedeva la donna come puro oggetto di consumo, buono a soddisfarlo e obbedirgli. 

Un comportamento delinquenziale da parte del bandito, tanto più grave perché non solo rubava l’onore a queste sventurate ragazze, ma anche il loro futuro di mogli e di madri. Chi sposava più delle donne che avevano perso la verginità, per giunta con dei banditi? Nella società ottocentesca, dove la donna era considerata soprattutto l’angelo del focolare, non avere un marito significava la morte civile. E questa era la condanna a vita che i banditi infliggevano alle loro vittime.  

E le donne, hanno svolto un ruolo in queste lotte?

La maggioranza, madri, sorelle, mogli, figlie di briganti sono rimaste a casa come fiancheggiatrici dei loro uomini. Li hanno informati, rifocillati, hanno nascosto o venduto la refurtiva.  

Spesso, però, il destino di “donna del brigante” era determinato più dalla casualità delle circostanze che da una libera scelta, come per le molisane Maria Luisa Ruscitti di Cercemaggiore, Maria Giantommaso di Rotello o Filomena Ciccaglione di Riccia, tutte vittime della cupidigia maschile. Alcune brigantesse, infine, hanno seguito i banditi volontariamente, come Marta Cecchino di Roccamandolfi. 

Le brigantesse che si trovavano alla macchia, volenti o nolenti, conducevano una vita difficile, perché chi era entrato in questo movimento sovversivo obbediva ad un’unica legge, quella del più forte. Alle donne, deboli per natura, non restava che ingraziarsi il capo assecondandolo nei suoi desideri, e per questo ne divenivano le amanti, le drude, come spregiativamente venivano chiamate.  Il rapporto tra le donne poi era di competizione assoluta. Molte volte il brigante non si accontentava di una sola compagna. Ed era quasi sempre la gelosia la ragione del loro tradimento, ma anche gli eccessivi maltrattamenti. Inoltre esse  denunciavano il loro uomo non solo per vendetta, ma anche per la cospicua taglia che incassavano. Una somma indispensabile per sopravvivere, poiché ritornate nella società, erano emarginate, avendo perso l’onore e la rispettabilità.

Entrate nella masnada, per comodità vestivano da uomo; era una trasformazione che finiva per coinvolgere tutta la personalità: diventavano, infatti, mascoline sia nei loro atteggiamenti, che nel loro animo. Certe, come Maria Capitanio di San Vittore Filomena Pennacchio dell’Irpinia, la calabrese Maria Oliverio o Marianna Corfù, amante di Nico Nanco, si sono dimostrate perfino più feroci dei maschi.

In questo ambiente, le giovani rimanevano quasi sempre gravide. 

Spesso i militi della Guardia Nazionale  solo nel momento dell’arresto scoprivano, con stupore, dal ventre prominente, di trovarsi di fronte a delle donne. 

I banditi, che avevano smarrito qualsiasi umanità, spesso non esitavano ad eliminare la donna o il neonato che li intralciava o poteva farli scoprire. Oppure le malcapitate erano rispedite a casa dove venivano immediatamente arrestate. I giudici si dimostravano nei loro riguardi più clementi, proprio per l’imminente maternità.  

Aver perso l’onore, aver toccato il fondo, ha finito, però, per dare alla donna una libertà mai neanche immaginata prima. Per cui, vittima o carnefice, la brigantessa ha avuto, per il tempo che è rimasta alla macchia, un momento di totale autonomia, padrona di se stessa e del suo destino, anche se poi lo ha pagato a caro prezzo.  

 

Marta CECCHINO  (Roccamandolfi 1836 – Ivi 1861)

 

Tra le tante, Marta CECCHINO di Roccamandolfi è senz’altro una delle poche ad aggregarsi volontariamente alla banda di  briganti. 

Sorella del capobanda Domenicantonio Cecchino la donna, di bell’aspetto e formosa,  ha solo 25 anni quando decide di seguire il fratello alla macchia.  Il generale, così come viene chiamato Cecchino, si è fatto ormai un nome di feroce bandito. Molti a Roccamandolfi ne parlano con timore, e lei è fiera di avere un fratello che sa farsi rispettare.

La ragazza, poi,  è segretamente innamorata di Samuele Cimino, un bandito che è stato il promotore della reazione, e che ha incontrato varie volte. Infatti, quando la banda si aggirava nei paraggi del paese, un manutengolo veniva ad informarne i familiari. E, per non destare sospetti, toccava quasi sempre a lei far da corriere, scoprendo sulle montagne l’amore e un mondo di totale indipendenza.

Marta approfitta del suo incarico  per scappare con la banda, lasciandosi alle spalle una ben misera esistenza. Il richiamo verso una vita libera, indipendente è davvero troppo forte. Corre, senza tentennamenti verso un destino infame,  ignara di bruciare in pochi mesi la sua esistenza. Dice lo storico Vincenzo Berlingieri «…scappa come puledra indomita sulle montagne… vergine e pura diventa la druda di Cimino Samuele…..e  incrudelisce l’animo nelle sevizie»

Arriva sulle montagne nella primavera del 1861. Felice, raggiante, si butta senza pudore nelle braccia di Samuele, il quale è ben lieto di farne la sua amante.  L’uomo, che ha quasi il doppio dei suoi anni,  è alto, forte come una roccia,  e  incute timore a tutti. Come carattere  non assomiglia per nulla a  Domenicangelo, più riflessivo, meno crudele. 

E’ fuggita da casa da una settimana e le sembra già un secolo. Si è tagliata i capelli e ha messo un paio di braghe che i banditi hanno rubato, un cappellaccio a  punta con un nastro rosso e una giacca  di velluto che le va un po’ grande, e, vestita così, non sembra per nulla una ragazza. Con il carbone si è tinta anche dei falsi baffi per assumere ancora più le sembianze maschili. Samuele le ha dato un fucile e le ha insegnato a utilizzarlo, per difendersi. 

La loro banda è composta da circa 40 persone. Un bel gruppo in perenne movimento. Si bivacca per una sera, poi, via, il giorno dopo si attacca un paese, dei viandanti, una masseria. Si uccide, si sevizia, si prende tutto quello che si può, sperando di non incontrare mai la Guardia Nazionale o l’esercito sabaudo. Inebriato di potere, il bandito non ha mai un senso di colpa, mai un pentimento. Si assolve dicendosi che è giusto così: gli altri hanno tutto e lui niente!

In queste scorribande Marta scopre quanto siano vigliacchi gli uomini. Se la fanno sotto appena li vedono arrivare, diventano accondiscendenti, supplichevoli. Che piacere spianare il fucile in faccia ad un galantuomo per fargli paura. Che onnipotenza sentire che il farmacista, il notaio, o il segretario, così boriosi con lei quando sono in paese, ora sono terrorizzati. Hanno davvero paura di lei, di una cafona!

La vita all’addiaccio è dura. Solo i giovani ce la fanno a correre su e giù  per i pendii scoscesi delle montagne. Dopo i crimini, infatti bisogna darsela a gambe, cercare un rifugio, con la Guardia Nazionale perennemente alle calcagna.  

Però, il cibo non manca mai: prosciutti, caciocavalli, pane, uova, carne in abbondanza, razziati a destra e a manca. Alla macchia si mangia e si beve a sazietà. Che differenza con la vita di prima, quando tutti pativano la fame!

Samuele, inoltre, l’ha riempita d’oro. Catenine, braccialetti, orecchini, perfino un orologio di valore. Tutto quello che ruba e che le piace glielo dona. Ma che se ne fa sulle montagne di questi oggetti preziosi? Senza farsi vedere, però, due  paia di orecchini e tre braccialetti li ha nascosti sotto un mucchio di sassi, vicino ad una grotta. Non si sa mai. Quando questa storia sarà finita, potrà riprenderli. 

Solo una cosa la infastidisce di questi nuovi compagni di avventura; è lo sguardo che i banditi le lanciano. Appena Samuele si allontana sente, chiaramente, a fior di pelle, le loro voglie nascoste. Anche il fratello la tratta male,  la comanda come una serva e la zittisce davanti ai suoi accoliti. Ma lei non se ne cura,  ha occhi solo per Samuele che non permette a nessuno di offenderla.

Tra le tante atrocità commesse, il fattaccio per cui tutta la banda Cecchino viene ricordata avviene il 14 agosto del 1861, e Marta è tra loro. Quel giorno i banditi arrivano a Roccamandolfi, dopo aver saccheggiato Cantalupo, ucciso Francesco Mancini, un tenente della Guardia Nazionale e incendiato parte dei documenti esistenti nella cancelleria della Pretura. Un momento terribile «di sangue, di vendette, di tradimenti, di viltà abominevoli». Per parecchi giorni  il paese diventa il quartier generale dei briganti che festeggiano e se la ridono. La  banda uccide una decina di persone e rimane padrona del paese per circa una settimana, passeggiando nelle sue vie con sfrontatezza, in compagnia delle mogli, delle drude; tutti cedono il passo a questi criminali diventati i padroni incontrastati della vita e degli averi di ognuno. Mentre i galantuomini sono fuggiti a Bojano o Isernia.

Accorre l’esercito stanziato a Piedimonte di Alife e si scontra con i briganti in contrada Campofigliulo. Ma a soccombere sono i bersaglieri, che lasciano sul campo otto soldati. 

La banda Cecchino ne esce vittoriosa, senza né morti, né feriti. Una sconfitta dolorosa per la compagnia di linea comandata dal capitano La Croce e del  distaccamento di Guardia Mobile al comando di Antonio Tedeschi i quali non immaginano che di lì a poco i due banditi più feroci si autoelimineranno.

Intanto, in questa vita dissoluta e senza regole, Marta rimane subito gravida di Samuele. Nella sua giovanile incoscienza ne va molto fiera. Il destino, però, le  è avverso perché il  26 agosto del 1861 resta priva del sostengo più importante. Infatti, mentre i briganti stanno bivaccando a Colle del Caprio, per futili motivi di gioco, Domenicantonio e Samuele vengono alle mani. Il Cecchino con una coltellata uccide Cimino, e lui rimane a sua volta seriamente ferito ad un braccio. 

Perso il compagno, al quarto mese di gravidanza, la vita comincia a farsi amara per Marta  perché quell’esserino che porta in grembo la fa star male e le impedisce di avere l’agilità necessaria per fuggire. Diventa un serio intralcio per la banda che, senza più Samuele per proteggerla, non ha scrupoli  e decide di  eliminarla,  come si sopprime un cavallo zoppo che non serve più. Infatti, mentre la ragazza riposa, una fucilata sparata alle spalle la fulmina sul colpo. Marta lascia il mondo senza sapere che anche il fratello, che da un pezzo ha varcato la soglia di ogni umano sentimento, è complice della sua morte.    

Quando di lì a poco, a causa della sua ferita, verrà catturato dalla Guardia nazionale, Domenicangelo Cecchino al processo confesserà di aver ucciso 40 persone. Poi, in dispregio della propria vita dirà: «datemi, per la Madonna, anche ai cani!».

Il cadavere di Marta non verrà mai trovato: uno zio pietoso l’aveva sepolto di nascosto.  

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Maria Luisa RUSCITTI  (Cercemaggiore 1844 – ivi 1903)

 

Ben diversa è la storia della banditessa Maria Luisa RUSCITTI  che ha avuto la sfortuna di incontrare sulla sua strada Michele Caruso. A Caruso, bandito e dongiovanni impenitente, originario di Torremaggiore, che scorrazza con la sua banda dalla Puglia al Molise e all’Abruzzo,  piacciono le ragazze giovani e belle. Per questo, durante le razzie, appena ne adocchia una,  non si fa scrupolo d’inserirla nel suo personale bottino di guerra. La gente lo sa e, appena vede arrivare i banditi nasconde le fanciulle.  Anche Maria Luisa vive nel terrore di incontrarlo. Ma lei, bracciante agricola e serva del possidente Leopoldo Chiaffarelli, quando deve andare nei campi non può certo disobbedire al padrone. 

L’incontro tra la ragazza e caporal Caruso, come si fa chiamare il pugliese, avviene nel mese di giugno del 1863 in contrada Cappella. La ragazza, nata a Cercemaggiore il 5 maggio del 1844,  sta finendo di raccogliere le ciliegie nel frutteto di don Leopoldo quando si trova, all’improvviso, circondata da un gruppo di banditi a cavallo.

«Come ti chiami?», chiede Caruso  e la giovane, ammaliata dall’uomo, stranamente  risponde senza paura: «Mi chiamo Luisa». «Bella di core e bella di viso!», esclama lui, che di donne se ne intende. Infatti, la ragazza ha un visino grazioso, un corpo sinuoso, modi schietti, sguardo sincero. E’ tutto questo a colpire il ruvido brigante che la porta con sé e ne fa la sua amante.

Maria Luisa è abituata fin da piccola all’obbedienza assoluta e per lei Caruso diventa il “padrone” del suo corpo e della sua anima.    

Il fuorilegge la fa vestire da maschio e la istruisce sull’uso delle armi, scoprendo un’allieva fuori dal comune. Maria Luisa  in una settimana riesce ad acquisire  una tale padronanza del fucile da essere tra i migliori tiratori della masnada. Di poche parole, essa si muove negli attacchi con una tale agilità da lasciare tutti esterrefatti.  Infatti, già dal primo di luglio è inviata da Caruso a Foglianise per provvedere al sequestro dei fratelli Pietro e Fortunato Palombo, da condurre poi nel loro covo nel Molise e da rilasciare solo dopo aver riscosso non meno di 2500 lire. Il tre luglio, a missione compiuta, è con i capibanda Schiamone e Ricciarelli nei pressi di Morcone per dare una “lezione” alla locale Guardia Nazionale. Ogni giorno sono nuovi agguati, nuovi delitti che la ragazza compie a sangue freddo, come dovere, perché lei è un soldato che ubbidisce agli ordini del  suo comandante.

Ma il 18 agosto del 1863, quando è da pochi mesi nella banda,  in uno scontro con una colonna di bersaglieri e della Guardia Nazionale, in cui perdono la vita ben sette briganti, Maria Luisa è catturata e rinchiusa nella prigione di Troia, in Puglia. Caruso, invece, riesce a fuggire.

Al processo,  la brigantessa, che è riconosciuta colpevole di aver ucciso un ufficiale durante un conflitto a fuoco, è condannata dalla Corte di Assise di Trani a scontare una pena di 25 anni. Ha evitato il plotone d’esecuzione solo perché  i testimoni chiamati hanno ammesso che la Ruscitti era di «sanissima morale ed illibatissimi costumi».

Quando esce dalle carceri nel 1888 Maria Luisa, sola e abbandonata da tutti, ha ormai 44 anni. Cerca disperatamente una famiglia che le possa dare lavoro e che  veda in lei non la brigantessa d’un tempo, ma la donna ravveduta, che ha passato i suoi anni di prigionia in profonda religiosità. 

E’ la famiglia di Luigi Salerno di Cercemaggiore ad avere compassione della donna, prendendola a servizio. La Ruscitti, grata di questa opportunità,  condurrà fino alla fine della sua esistenza una vita esemplare. Muore il 4 novembre del 1903, subendo, però,  fino alla fine,  la sorveglianza speciale imposta dal Tribunale a causa del suo passato.  

Dopo la sua morte, l’improvvisa fortuna economica della famiglia Salerno ha dato adito, in paese, a molte dicerie, tra cui quella  che la Ruscitti avrebbe indicato ai suoi padroni il tesoro nascosto dai banditi. Vero è, invece, che Maria Luisa quando le chiedevano di raccontare la sua vita con i briganti, veniva assalita da forti attacchi convulsivi, sopraffatta dal pianto, perché ricordava con orrore quei tristi tempi.

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Maria GIANTOMMASO   (Rotello 1844 – ?)

 

I briganti il futuro  lo rubano anche a Maria GIANTOMMASO, una ragazza di Rotello nata il 9 marzo 1844.

Rotello, paese del Basso Molise le cui colline si affacciano sull’Adriatico, gode di una campagna fertile e benedetta da Dio. Il 4 febbraio del 1863 una comitiva composta da sette donne sta  tornando dai campi dopo aver sarchiato le fave nei poderi di Giovanni Selvaggio. Sono tutte braccianti agricole e, per loro, questo lavoro è l’unica fonte di guadagno.  Sono allegre, felici di avere messo a frutto una buona giornata. Fanno parte di questo gruppo Irene Ricci e le sue tre figlie, tra cui la diciannovenne Maria. C’è inoltre Concetta Cannavino e le sorelle Giangiobbe. Arrivate vicino alla masseria dei Colavecchia, si vedono all’improvviso sbarrare il passo da cinque briganti a cavallo.

Le donne indietreggiano inorridite perché riconoscono il loro compaesano Luigi Martino, noto per la sua ferocia, e il capobanda Nunzio Di Paolo di Macchiagodena. 

Ad un cenno del capo i briganti smontano da cavallo e si mettono a malmenare le donne. La prima a reagire è Concetta Giangiobbe che supplica i briganti di risparmiarle l’onore. Luigi Martino inveisce contro la ragazza  «Non fare la madonnina, io ti conosco pelo e ricordati, gran puttana, che per lo innanzi tu ed i tuoi vi siete, più di una volta, fatti beffe di Francesco II, ora, per tale insulto, non mi resta che conciarti per bene». E il brigante le tira a bruciapelo una schioppettata che le porta via un pezzo dell’orecchio destro. Gli altri intanto afferrano Maria e la mettono in groppa al cavallo. Irene corre verso la figlia per trattenerla, ma uno dei banditi, un certo Santuccio di Campobasso,  le sferra un colpo in testa  con il calcio del fucile facendola cadere svenuta.

I furfanti portano Maria terrorizzata in un fitto bosco e abusano di lei. Poi la rimettono in sella e dopo un’ora di cammino raggiungono il loro covo.

La giovane è profondamente ferita nell’anima. Sa che la sua esistenza, comunque vada a finire, non sarà più la stessa, non potrà più aspirare ad avere una famiglia perché quei briganti le hanno tolto quello di cui aveva più bisogno per essere presa in moglie, l’illibatezza. 

Si guarda intorno e vede facce truci. Indossano bei vestiti, probabilmente rubati  ai signorotti in viaggio che hanno incontrato sulle strade, ma il loro animo è inzaccherato, come i loro volti. Sono giovani spavaldi, violenti, bestemmiatori, diffidenti, ignoranti. 

Il capo le dice di mangiare, ma lei si schernisce affermando di non aver fame. Parte una grossa bestemmia, poi Nunzio esclama: «Mangia per Sant’Antonio benedetto: se no ti spezzo il cuore con una pallottola!».  

Dopo cena la banda, come al solito, si mette a giocare a carte e a bere fino a mezzanotte quando un lungo fischio avverte dell’arrivo di persone conosciute alla banda. E’ uno di loro che ritorna dopo aver incassato la somma per il riscatto di un prete che hanno sequestrato: 100 piastre. Ma poiché ne manca una, il capo decide di uccidere l’ostaggio.  Maria, nel momento in cui egli sta per far fuoco, si butta ai piedi di Nunzio Di Paolo e lo supplica: «Abbiate pietà di questo povero sacerdote: per dodici carlini si ammazza un individuo?». Queste parole hanno il dono di riportare la lucidità nel cervello del brigante, annebbiato dall’alcool, che desiste. Il prete il giorno dopo è rilasciato.

Intanto a Maria vengono tagliati i capelli, e, vestita da maschio, è costretta a seguire la banda in perenne movimento per sfuggire alla Guardia Nazionale, ma soprattutto per razziare. Un bosco è sempre il loro rifugio preferito fino a quando sentono i militi troppo vicini. Continuando i loro misfatti, si dirigono verso Torremaggiore, guadando il fiume Fortore, bivaccano nel bosco Dragone, poi, qualche giorno dopo, si rifugiano nel bosco Ramitelli.  Ma poiché fa molto freddo – siamo a febbraio –  accendono il fuoco che finisce per attirare la Guardia Nazionale di Chieuti, sulle loro tracce da una settimana. «In nome della legge non vi muovete, depositate le armi e arrendetevi», grida il capitano arrivato alle loro spalle senza far rumore. Alle sue parole segue un fuggi fuggi generale. I militi sparano vari colpi di fucile che ammazzano quattro malfattori e feriscono anche Maria al braccio e alla coscia. Mentre gli altri scappano inseguiti dai militi, lei si nasconde dietro a un cespuglio e aspetta, invece  Nunzio e Marino, anche questa volta, la fanno franca.  

Rimasta sola, la ragazza si avvia verso una casupola che aveva notato in lontananza. Bussa, ma non c’è nessuno. Entra per ripararsi dal freddo. Dopo molto arrivano due contadini: un vecchio ed un ragazzo, a cui Maria racconta la sua disavventura. L’anziano si commuove e decide di aiutarla. Poiché il contadino, originario di Chieuti, non conosce Rotello, l’accompagna a San Martino. Durante il viaggio si imbattono in una compagnia di bersaglieri che si prendono cura della giovane facendola prima medicare, poi riconsegnandola alla sua famiglia. E’ il 21 febbraio quando Maria Giantommaso può infine rivedere i suoi, con un braccio fratturato e l’onore rubato.

Quei 17 giorni passati insieme ai briganti saranno indelebilmente impressi nella mente dalla ragazza che ha avuto modo di conoscere, da vicino, l’orrore e la bassezza umana.

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Filomena CICCAGLIONE   (Riccia 1844 – ivi 1866)

Non molto diversa è la storia di Filomena CICCAGLIONE, una ragazza nata il 14 settembre 1844 a Riccia, dai bei lineamenti delicati, occhi da cerbiatta, slanciata, che fa girare la testa a molti ragazzi del posto.  

Sono passati appena 12 giorni da quando il bandito e dongiovanni Michele Caruso è sfuggito alla cattura dopo aver rapito Maria Luisa Ruscitti.  La comitiva di “Caporal Michele” così si faceva chiamare il brigante Michele Caruso, pastore analfabeta nato a Torremaggiore al servizio del principe di San Severo e che dal 1861 al 1863 infestò con la sua banda le campagne pugliesi, spingendosi dalla sua base operativa, posta presso il Fortore nella Selva delle Grotte, fino al Molise e al Beneventano,  la troviamo a Riccia il primo settembre del 1863 in una masseria dove il bandito ha già adocchiato un’altra bella ragazza. 

Due bande di briganti, quella del Caruso e di Titta Randelli,  spargono il terrore in quel periodo in tutto il Molise centro-meridionale (Riccia, Gambatesa, Tufara, ecc..). I malviventi spesso si coalizzano per attaccare le masserie isolate e i viaggiatori che vanno e vengono dalla Puglia.  

Quel giorno, le due bande riunite sorprendono, nelle campagne di Riccia, l’alfiere della Guardia Nazionale Giuseppe Palladino, il quale riesce a sfuggire ai banditi, abbandonando il cavallo e dandosi a precipitosa fuga. 

I malviventi, che hanno inseguito il fuggiasco fin quasi all’entrata del paese senza poterlo prendere, indispettiti da questo insuccesso, mentre tornano sui loro passi si  imbattono in Michele di Domenico e sfogano sul malcapitato la loro ferocia, seviziandolo e uccidendolo.  Si dirigono poi verso la vicina masseria dei Ciccaglione e, anche lì, uccidono  prima Domenico Moffa e poi Giuseppe Ciccaglione, sotto gli occhi atterriti della figlia Filomena. Non contenti, quattro giorni dopo, ritornano e uccidono anche lo zio della ragazza, Michele Moffa. Una carneficina senza motivo, che finisce per intimorire tutti gli abitanti della zona. Il terrore che il brigante legge negli occhi della gente al suo passaggio gli rinvia segnali di onnipotenza. Si sente ormai invincibile: i successi, la fama,  gli danno alla testa.

Dopo poco meno di un mese Michele Caruso ritorna alla masseria Ciccaglione, questa volta con intenti ben diversi. Durante la prima visita ha notato la bella Filomena e da quel momento  non riesce a togliersela dalla testa. Gli occhioni spalancati, la bella bocca color ciliegia, il seno acerbo ma già prorompente e quel modo così distinto di muovere la testa. Davvero, quella ragazza gli ha tolto il sonno, la lucidità. Perbacco, non è forse il re dei briganti, lui. E un re non ha il diritto di prendere quello che vuole? “Certo, me la porto via e basta” –  pensa – “se non mi ama, mi amerà”.

Organizza tutto con cura, studia gli spostamenti della fanciulla. Sa che nella masseria non ci sono più persone in grado di difenderla. Un gioco da ragazzi. Infatti, caporal Michele, si presenta nella tenuta agricola con pochi fidi. Preleva la giovinetta, la carica sulla carrozza e via, nel bosco Mazzocca, il più folto della zona dove nessuno come lui conosce tutte gli anfratti e dove – pensa –  non saranno certo quelle femminucce della Guardia nazionale a stanarlo. 

Il  rapimento è così fulmineo che, quando Filomena viene legata e caricata, rimane completamente pietrificata: non riesce ad emettere nessun suono, non riesce a divincolarsi. Il cervello sembra essere stato sopraffatto  da una forza sovrumana che ne annulla qualsiasi ordine: “mordilo!”, “dagli un calcio!”, “graffialo!”, “urla!”. Nulla esce dalla sua bocca e inerti rimangono gli arti.  Portata dentro ad una caverna come un sacco di patate e buttata su un giaciglio di paglia, ben nascosto da un masso, la ragazza continua a rimanere totalmente muta.  Ma appena il Caruso si avvicina, Filomena si trasforma in una belva furiosa. In quel momento sprigiona tutta la sua energia repressa sul brigante, che se la ride di queste reazioni. Non è certo la prima volta che rapisce una giovane.  Di corporatura robusta, al pastore analfabeta originario di Torremaggiore non ci vuole molto a dominare la fanciulla e a fare di lei quello che vuole.

Filomena, da quel momento, sa di aver perso la sua dignità di donna, sa che nessuno al paese chiederà più la sua mano perché Caruso l’ha sedotta e non importa se con la forza o con la ragione.

Quando l’uomo con la sua banda riparte per altre razzie, la giovane medita a lungo sui sogni infranti in quella grotta maledetta, sulla sua impotenza. Finalmente decide che non si abbandonerà al suo destino, ma che passerà ogni giorno della sua vita a studiare come vendicarsi dell’uomo che le ha ucciso un genitore e rubato l’onore.

Fa presto a capire che il brigante è pazzamente innamorato di lei: ogni giorno ritorna con un regalo, una leccornia, un’attenzione particolare alle sue necessità. Guai agli uomini della banda se osano solo lanciare uno sguardo nella sua direzione! Capisce anche che la sua sottomissione gioca  a suo favore.

Infatti, se un viandante cade nelle mani della banda, Filomena supplica Caruso di risparmiarlo; le torture cessano e lo sventurato può continuare libero la sua strada. Riesce anche a convincere l’uomo che ha tutto da guadagnare a non incendiare le masserie dopo il saccheggio, perché può ritornare  nel momento della mietitura per impossessarsi dei loro prodotti. Queste intercessioni, che sono raccontate dai viandanti al loro ritorno,  risparmiano, infatti, tante vite umane e l’incendio di tante messi e fanno di Filomena una leggenda. 

Tuttavia, l’asservimento del brigante alla sua amata comincia a far mugugnare gli altri componenti della  banda. Inoltre, il rapimento della ragazza è stato la goccia che  ha fatto traboccare il vaso dei riccesi che chiedono a gran voce al nuovo governo interventi per catturare i manigoldi e restituire alla popolazione l’ordine e la serenità, indispensabili per poter ritornare a una vita normale. Già dal 1862 il prefetto del Molise, Giuseppe Arditi, ha preso dei provvedimenti contro il brigantaggio, senza però riuscire a debellarlo.  Questa volta, il Governo unisce tutte le forze (militi della Guardia Nazionale, soldati dell’esercito piemontese e carabinieri) che, compatte, riescono a braccare e a decimare la banda Caruso, ad eccezione del capo che rimane  uccel di bosco. Inaspettatamente, a dargli man forte è proprio Filomena che ha, sì, ceduto al brigante, ma in cuor suo non gli ha mai perdonato l’omicidio dei suoi cari e aspetta il momento propizio per vendicarsi.  

Caruso, in effetti,  non dubitando dei sentimenti dell’amata, sentendo il fiato dei militi sul collo, preferisce non portarla più con sé durante le sue scorrerie e la mette al sicuro presso la masseria di un certo Pellegrino Corso. Sfuggendo per l’ennesima volta ai soldati, le manda poi a dire di raggiungerlo perché vuole scappare con lei alla volta delle Calabrie, per unirsi ad altre bande di briganti, non  ritenendo più sicuro il bosco Mazzocca. 

Filomena, invece, convince il Corso ed altri abitanti della zona ad acciuffare Michele Caruso, indicandogli il nascondiglio. Durante la notte, mentre il brigante, insieme ad un giovane nipote, dorme in un pagliaio, è sopraffatto, catturato e  consegnato alla Guardia nazionale.

Per Filomena è la fine di un incubo. Tuttavia è costretta a seguire il suo carnefice  a Benevento per il processo. Il bandito, che si è sentito tradito, non le risparmia ingiurie e minacce. Le chiede anche, molto ingenuamente, se le sia piaciuta la sua sorte. Ma Filomena prontamente risponde: «Mi dispiace soltanto che non ti abbiano colpito molto tempo prima, perché così tante famiglie non piangerebbero l’eccidio, il disonore e la miseria de’ loro cari».  E chiede un’arma perché vorrebbe ucciderlo con le proprie mani. Secondo una ricerca dello studioso Antonio Santoriello di Riccia, è probabile che la giovane per questa cattura abbia ricevuto anche qualche beneficio in denaro.  Non si capisce, infatti  ̶ dice lui  ̶ come la ragazza, semplice contadina, abbia potuto successivamente prestare a Michele Moffa 400 Lire, come testimoniano i protocolli notarili.

Michele Caruso e il nipote sono condannati a morte e fucilati (una versione non condiva da tutti gli studiosi).  

Comunque, Filomena può così  ritornare a Riccia, ma la latitanza, lo strazio e la vita di stenti a cui l’ha costretta il brigante l’hanno duramente provata. Si ammala gravemente di tisi. Si spegne, circondata dall’affetto di tutto il paese, il 31 maggio 1866, a soli 22 anni.

Al suo funerale accorrono tutti gli abitanti della zona per testimoniare la loro gratitudine. Il suo sacrificio è additato a tutte le giovani come esempio di coraggio, intelligenza e amore filiale. 

Barbara Bertolini©2016 tutti i diritti riservati.

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di Barbara Bertolini (da donneprotagoniste.blogspot.it)

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