Ma che ci fa in questa tv Domenico Iannacone?
In una televisione dove la parola è spesso priva di senso, il programma su Rai Tre del giornalista molisano sembra un alieno
di Beatrice Dondi (da espresso.repubblica.it)
9 dicembre 2019
«Vola alta, parola, cresci in profondità», scriveva Mario Luzi in un verso che è tutto un programma. E la televisione di Domenico Iannacone l’ha preso in parola, appunto, e il programma gliel’ha costruito intorno. Tornato per amore dei nottambuli sulla terza rete con quattro speciali di “Che ci faccio qui”, il giornalista molisano ha imbracciato la forza dei suoi silenzi per lasciare ancora una volta sterminati spazi al dire altrui. E ha ricominciato a proporre i suoi racconti, per voci e immagine. Come fossero dolenti canzoni. Questa volta è partito dalle periferie, Scampia a Napoli e San Basilio a Roma, con l’ambizione altissima di restituire un nome alle cose e alle persone che l’hanno perduto da tempo. A volte recuperando forze all’apparenza abbandonate, per provare a ripartire.
Come Davide Cerullo, ex camorrista conosciuto come Ciaocream, spacciatore, boss, carcerato e massacrato da una vita infame, che proprio dietro le sbarre all’improvviso trova il suo nome proprio scritto su una pagina del Vangelo. E decide di riprenderselo, insieme alla sua intera esistenza da ricostruire passo dopo passo.
Oggi Cerullo è uno scrittore, parla un italiano impeccabile dall’alto della sua quinta elementare e trascina lo spettatore in un flusso di rinascita contagioso, un girotondo di parole senza bene e senza male che danzano intorno alle immagini trasmesse, le avvolgono, entrano ed escono, passando da una Vela all’altra, da una storia a un’altra storia, fino a trasformare, almeno per una volta agli occhi di chi guarda, la periferia in centro.
>Perché il nome è la parola che tu dai a ciò che puoi vedere e toccare. Anche se lo chiami vuoto. Il vuoto delle esistenze che hanno elargito bastonate e non carezze, come a Riccardo, che piange a ogni ricordo della sua famiglia matrigna, tante illusioni e nessuna certezza, vite ai margini che in genere avrebbero molto da dire ma a cui la parola non viene concessa da troppo tempo.
Ed è qui che arriva la faccia buona di Iannacone, che guarda senza scrutare, ascolta senza puntualizzare mai, annuisce senza giudizio, regala autostrade di relazioni ed empatia, sradicando di punto in bianco l’insulso dualismo buoni-buonisti a cui la televisione che generalmente non sa dove andare si aggrappa neanche fosse l’ultimo filo dell’equilibrista.
Così, per quattro serate quel popolo senza nome e di poche parole, quel popolo abbandonato dai riflettori sotto cui viene messo a forza a seconda degli interessi del momento, finalmente si accende una luce da solo, si rimpossessa della guida e mostra tutte le sue ferite. Da cui a volte si guarisce. A volte.
di Beatrice Dondi (da espresso.repubblica.it)