“Oligarca per caso”
Giuseppe De Rita, l’oligarca con la bussola
di Giampiero Castellotti (da forchecaudine.com)
2 Gennaio 2025
“Un ragazzo senza bussola”. Giuseppe De Rita, nella sua corposa collezione di ricordi scritta con il giornalista Lorenzo Salvia (Oligarca per caso, il racconto della vita di un italiano alla ricerca degli italiani, Solferino, 2024), non poteva che coniare una locuzione da fuoriclasse degli studiosi. Nel prologo del volume, intitolato “I ragazzi dell’alberata”, l’etichetta – efficace – del giovane disorientato celebra la sua vigilia di debutto nella “vita attiva”. Anzi, in quella vita activa tratteggiata da Hannah Arendt: lo vedrà assoluto protagonista nel labour, nel work, nell’action, cioè nell’instancabile agire lavorativo alla ricerca dell’Italia non raccontata (da altri).
Ecco, allora, che il libro colleziona subito un primo insegnamento. Presenta una “lezione di vita”, dispiegatasi per tanti decenni, dove il senso più naturale e nobile dell’umanità, cioè l’attitudine a tessere relazioni, risulta decisivo per costruirsi percorsi e meritarsi traguardi. Un piccolo segreto per un’esistenza densa di soddisfazioni, frutto anche di sfide affrontate, ad un certo punto, con una bussola ben calibrata. Finalmente fatta sua.
Per quanto i tempi siano mutati (oggi rifiutare un posto di lavoro all’Aci, come ha fatto “coraggiosamente” il sociologo, o la classica collocazione in banca, “noia sconfinata del lavoro”, sarebbe da Tso, cioè da Trattamento sanitario obbligatorio), l’ammaestramento è rivolto principalmente ai tanti giovani smarriti davanti a quell’esordio nella vita attiva, alle prime assunzioni di responsabilità, non a caso oggi ritardato all’inverosimile. Il messaggio è chiaro ed un po’ evangelico: ragazzi, limitate la futilità dei social e tornate a dare valore alle relazioni vere. A quelle che aprono il cuore, la mente e il mondo, offrono opportunità, rispondono alle attitudini, indicano percorsi. Insomma, aiutano a vivere più pienamente l’esistenza e, quindi, a munirsi di un buon capitale di àncore di salvezza.
Il romano-monticiano De Rita, classe 1932, il tenace pragmatismo l’ha acquisito dalle origini ciociare materne. Ed il rigore dallo sfollamento bellico in Molise. A completare il primo mosaico adolescenziale ci sono stati il liceo classico presso l’Istituto “Massimo” dei Padri Gesuiti all’Eur e l’animosa comitiva sotto casa, a fianco della basilica di San Giovanni in Laterano. Un cocktail di componenti forti che lo ha condotto, ad un certo punto – anno 1951, 19 anni d’età – a trovarsi l’opportunità giusta. È un corso di educazione civica a Sermoneta, provincia di Latina. Un’operazione “oligarchica”, termine che fa da fil-rouge al libro – promossa dal Movimento di collaborazione civica nel castello della principessa Margherita Caetani. Qui “il ragazzo senza bussola”, ancora lontano dalla laurea in giurisprudenza, ha appreso “la lezione della sincronia”. Detta così sembra un frizzo. In realtà è stata una salda guida per l’avvenire. E sempre qui, a due passi dal romantico giardino di Ninfa, il futuro esegeta della società italiana ha captato quello che diventerà l’irraggiungibile amore della vita, la “marchesina” Maria Luisa, “la determinata donna che corrisponderà nel modo più perfetto ad un determinato uomo” per dirla con Schopenhauer. Ma non solo. Con le prime interviste ai passeggeri della locale stazione ferroviaria, lungo la linea Velletri-Terracina, per quanto non certo da blasonata Tav, ha trovato anche i binari per il suo futuro, affiliando la ricerca sociologica “sul campo”, basata sulla fenomenologia – ne è stato di fatto l’inventore in Italia anticipando di due anni la creazione della cattedra universitaria in materia – con gli snodi dell’evoluzione politica, sociale ed economica del Paese.
Se Charles Bukowski ci conferma che la vita è fatta di incontri, quelli di De Rita saranno continui, proficui e persino “ad economia circolare”, come quando nel febbraio scorso, dopo essere stato relatore dello storico convegno diocesano sui mali di Roma del 1974, ha partecipato di nuovo come relatore (e testimone) per il convegno sui cinquant’anni da quell’evento nella “sua” San Giovanni in Laterano.
Due autorevoli studiosi hanno contribuito a “creare” il fenomeno-De Rita: Pasquale Saraceno, fondatore della Svimez, l’associazione che dal dopoguerra promuove lo studio del Mezzogiorno, rappresentando uno dei primi laboratori di ricerca economica in Italia, e che ha costituito il trampolino di lancio per il sociologo; Giorgio Ceriani Sebregondi, il quale per primo ha riconosciuto l’importanza del ruolo sociale, e non solo economico, nel progresso, segnando il solco e fornendo lo strumento base al promettente “ragazzo senza bussola”.
Negli anni della Svimez, il giovanissimo De Rita ha macinato esperienze. Si è fatto curioso “della realtà nella sua concretezza”. Si è occupato di commenti statistici sugli incidenti stradali, settore più da avvocati alle prime armi, ma che si rivelerà comunque una palestra utilissima. Poi l’importante coinvolgimento nel Piano Vanoni, la meritoria iniziativa pubblica per porre le basi di un più equilibrato progresso economico del Paese. Quindi l’esperienza di tre mesi in Iran, per delineare lo sviluppo della strategica area portuale del Belucistan, ai confini con Afghanistan e Pakistan. Insomma, fecondo apprendistato.
Nel 1964, in coincidenza con una fase di crisi della Svimez, il sociologo romano, insieme a Pietro Longo (la cui mamma, insigne partigiana, era di Campobasso) e Gino Levi Martinoli, ha dato vita alla sua “creatura” di ricerca socio-economica, il Censis, Centro studi investimenti sociali. Una svolta.
Ereditati dalla Svimez due contratti per iniziare, quelli con il Formez e con l’Ocse, il sociologo alle prime armi con il neonato Istituto ha quindi “conquistato” nuovi appalti nei diversi ministeri. I contatti, però, hanno rischiato di affossare subito la neonata “creatura”: pagamenti delle prestazioni ritardati (dolosamente?) di anni a causa delle immancabili “seccature” burocratiche (documenti imbustati “senza la treccetta tricolore della Repubblica” o per relazioni con “troppe parole inglesi non tradotte”). Racconta il timoniere nel libro: “Finì che ci pagarono nel 1969, cinque anni dopo la firma. E soltanto lì capimmo che il Censis sarebbe sopravvissuto”.
Necessario, allora, il brusco passaggio dagli elefantiaci dicasteri alla clientela privata. A rompere il ghiaccio, sia benedetto, il Porto di Brindisi.
Nel 1967 un’altra intuizione vincente: la nascita del Rapporto Censis, che a fine 2025 toccherà la cinquantanovesima edizione. L’idea è stata dello stesso De Rita quando ha letto, nell’Ambasciata statunitense a Roma, una relazione dell’Accademia sociale delle scienze americana sull’impossibilità di fare un Rapporto negli Usa a causa di culture e dinamiche economiche troppo differenti tra gli Stati. Ma non in Italia, ha desunto il sociologo imprenditore.
Così è nata la “Bibbia” dell’interpretazione dei più significativi fenomeni socio-economici del Paese. Commissionata dal Cnel, ha lasciato il segno sin dal suo esordio: rivalutando il tema dei diritti individuali, il cattolico De Rita, in versione Mario Capanna, è stato addirittura accusato di spalleggiare gli albori della rivolta studentesca. In fondo quasi antesignano dell’odierna alchimia per cui a riattaccare l’energia elettrica scollegata negli edifici abusivamente occupati non sono gli antagonisti dei centri sociali, ma gli elemosinieri del Papa. E ritroviamo il De Rita “sociale” anche nella commissione informale per scrivere lo Statuto dei lavoratori, voluta da Pietro Nenni a Palazzo Chigi e presieduta da Gino Giugni.
Negli anni a seguire, ogni presentazione del Rapporto ha fatto rumore grazie alla puntuale – e quasi sempre spinosa perché scomoda per qualcuno – individuazione delle tendenze sociali in atto nel Paese: dal conio dell’economia sommersa (l’Istat non l’ha mai digerita parlando sempre – ermeticamente – di “economia non osservata”) e del localismo (è di Eugenio Scalfari l’ironica definizione di “amico degli stracciaroli pratesi” per De Rita a seguito di una fortunata ricerca sul dinamico tessile a Prato) all’ipercelebrato soggettivismo della società dei comportamenti. E ancora, dal policentrismo dei poteri per gli anni Ottanta alla società molecolare piena di aspettative per il decennio seguente.
Con il nuovo millennio, il Censis ha colto il rallentamento economico italiano, pur riconoscendo il mantenimento “di diverse schegge di vitalità produttiva e sociale”. Fino a quell’efficace società mucillagine del 2007 con il conseguente rafforzamento della dimensione individuale e dell’esplosione del rancore (2017), della cattiveria (2018), del galleggiamento (2024).
Con il tempo il linguaggio coniato dal Censis ha sovrapposto materiali preziosi per gli analisti ed ha fatto scuola: i fenomeni a macchia di leopardo, lo sciame che ha caratterizzato il modello di sviluppo irrazionale negli ultimi decenni, il sonnambulismo degli italiani, a tratti assopiti a tratti vigili, l’incepparsi di quell’ascensore sociale che ha determinato la fortuna dei primi eredi di quella generazione scappata dal futuro riservato da vanghe e zappe, mantenendo però una cultura fondamentalmente contadina nei sacrifici e nei risparmi, le “ossessive” analisi sul ceto medio, l’infodemia, cioè il contemporaneo eccesso di informazioni. E tanto, tanto altro ancora.
Giuseppe De Rita nel 2024
L’attività di De Rita non si è però fossilizzata sul Censis. Ci sono altri capitoli di vita. E di carta stampata.
Il quinto capitolo del libro è dedicato agli anni come presidente del Cnel (dal 1989 al 2000), quando ha ridato fiato ad un corpo agonizzante. Non solo eliminando quei gettoni di presenza che costituivano quasi l’unico scopo per l’occupazione di molte poltrone da parte dei consiglieri (quasi un grillismo ante litteram, benché il liberale Raffaele Costa denunciasse sprechi e privilegi già anni prima), ma allargandone la rappresentanza e inventando i “patti territoriali”, poi celebrati in un fortunato libro scritto con Aldo Bonomi, tra l’altro suo consulente proprio al Cnel.
Un altro capitolo affronta il rapporto del sociologo con la politica attiva. Con un proemio significativo: dopo aver assistito negli anni Cinquanta ad un’assemblea studentesca guidata dal giovane Marco Pannella, ha giurato a sé stesso che non avrebbe mai rivestito ruoli politici. E così ha fatto. Ha detto “no” a Goria, a Prodi e due volte a Berlusconi. Mica quisquilie. E restano, come una medaglia, quei 25 voti ottenuti per la Presidenza della Repubblica nel 2006, generosità sannita firmata Clemente Mastella.
L’autore di “Oligarca per caso”, però, la politica italiana la conosce a fondo. Nel libro ricostruisce, ad esempio, le forti influenze statunitensi sul potere italiano. Cita Cuccia, Beneduce, Merzagora, La Malfa, persino Montini. E gli errori di Craxi nel voler sparigliare le carte. Fino a quel “Giuseppi” Conte della prima esperienza presidenziale trumpiana.
De Rita racconta anche interessanti retroscena del delitto Moro, in particolare i tentativi per salvare la vita allo statista democristiano.
Ovviamente non difettano le istantanee dell’evoluzione della società italiana caratterizzata, questa la principale denuncia, dalla “mancanza di oligarchia” nel sindacato, nel governo, nello Stato. Ma anche dalla carenza di quella fascia medio-alta costruita, un tempo, dalla grande industria e dalla burocrazia romana. Fino al meccanismo ormai inceppato del “gruppo tra uguali”.
Nonostante la prevalenza dell’esposizione pubblica, il De Rita privato presenta indubbi fattori d’attenzione che il libro menziona nelle sue oltre duecento pagine. Gli otto figli, ad esempio (“In realtà ne volevamo dodici”, ammette il sociologo), i quali hanno seguito strade formative e professionali diversissime tra loro, una sorta di campione statistico a disposizione. Poi il buen retiro dannunziano a Courmayeur, in una casa-rifugio ben isolata per l’estate, a cui ha dedicato in passato anche pagine scritte insieme alla moglie. E ancora, l’attività pubblicistica di primo livello, i tanti libri, le innumerevoli prefazioni ai libri altrui, la collaborazione dal 1978 con il Corriere della Sera, non soltanto sociologia pura. Il piacere dei sigari, scoperti in una vaga “tarda età”. Il sapore dei romanissimi supplì. E, imprevedibile, il tifo per la Lazio, con tanto di presenze all’Olimpico: anche in questo caso, premonitore, visti gli attuali punti di differenza con i cuginetti giallorossi. E soprattutto la marcata differenza – ahimè – nei trofei e nei derby vinti nell’ultimo decennio.
di Giampiero Castellotti (da forchecaudine.com)
2 Gennaio 2025