Quegli indissolubili legami tra Molise e Puglia
Leggendo il libro “Viaggio alla scoperta del culto della Madonna del Pozzo”
di Giovanni Mascia
27 Novembre 2024
Presentato a Campobasso un volume sul culto della Madonna del Pozzo di Capurso.
La presentazione a Campobasso del volume Viaggio alla scoperta del culto della Madonna del Pozzo, curato da Cinzia Campobasso e Daniele di Fronzo, Capurso 2023, ha richiamato alla mente i ceci abbrustoliti. Sì, i ceci delle serate invernali di una volta, quando senza televisione e senza radio ci si riuniva davanti al camino, acceso a turno a casa dei vicini, e ci si scaldava tutti insieme, passando un’ora in compagnia, sgranocchiando per l’appunto un pugno di ceci abbrustoliti, bevendo un bicchiere di vino.
1. Cosa c’entrano i ceci con la Madonna del Pozzo di Capurso, la protettrice della comunità dei Pugliesi nel Mondo, lo vedremo, ma non prima di accennare ai secolari legami stretti da Molise e Puglia, ben oltre i rapporti di buon vicinato. Per circa tre secoli, dal 1538 al 1806, il Contado di Molise è rimasto aggregato alla Capitanata, pari più o meno all’attuale provincia di Foggia, allora con Lucera capoluogo, sede della Regia Udienza (oggi si direbbe Corte di Appello), cui erano attribuite anche funzioni amministrative. Di più, molti comuni molisani erano allora pugliesi: Tufara, Monacilioni, Pietracatella, Sant’Elia a Pianisi, Colletorto, Bonefro, Ururi, e altri allineati lungo la sponda nord del Fortore, tra cui naturalmente San Giuliano di Puglia, che ricorda nel nome l’originaria appartenenza. Pugliese anche la fascia costiera da Campomarino, a Termoli, da Guglionesi a Montenero. Per non parlare della vallata del Tappino con Jelsi, Gildone e addirittura Ferrazzano (immediatamente alle porte di Campobasso), ricadenti anch’essi seppure per un breve periodo nel dominio territoriale della Capitanata. Insomma, mezzo Molise apparteneva alla Capitanata, e l’altra metà ne era posta alle dipendenze giudiziarie e amministrative. Ne resta una prova a Toro, dove i contadini che si portavano nei loro poderi posti a valle dell’abitato, dicevano che andavano in Puglia, là dove canta sempre maggio! Il loro era un parlare reale e non figurato come potremmo pensare oggi.
2. C’erano state ottime ragioni, in qualche caso plurimillenarie, a consigliare l’accorpamento del Contado di Molise alla Capitanata. La differenza di clima tra la Puglia pianeggiante e il Molise montano è alla base della prima ragione, la transumanza. Ovvero la migrazione stagionale delle greggi, delle mandrie e dei pastori che scendevano dai pascoli montani al piano (in vista della stagione invernale) o viceversa (nella stagione estiva) percorrendo le vie naturali dei tratturi. Della transumanza riferiscono scrittori e poeti latini già duemila anni fa, da Marco Terenzio Varrone a Virgilio a Plinio il Giovane. E non c’è ragione per non ipotizzarla praticata anche dai sanniti. Ora, dei milioni di capi di bestiame che a primavera risalivano i monti per ridiscenderli in autunno sono note le forti ricadute economiche, sociali, culturali, devozionali e di tutela del territorio, che qui diamo per richiamate, fermandoci solo a considerare la separazione dei pastori dalla famiglia, dai figli e in particolare dalle mogli. La donna di Capracotta, paese di montagna, cantava: Sempre alla via della Puglia tienghe a mente, / pe vedé se torna ru mio caro amante. La poveretta non vedeva l’ora che ritornasse la bella stagione perché con essa sarebbe finalmente ritornato anche lo sposo dai pascoli pugliesi e si sarebbe trattenuto nei paraggi per qualche mese: Quanne vò menì maie e giugne / che ritorna l’amore alla montagna. Molto più triste la sorte della donna e del pastore di Vinchiaturo, paese molisano di collina, condannati invece alla solitudine perenne: Mo pe la Puglia, mo pe la muntagna, / l’amore mì sempe sulo dorme.
3. Alla sorte dei pastori era accomunata quella delle moltitudini di contadini molisani che a fine maggio lasciavano le montagne sannite per portarsi a mietere in Puglia, nel Tavoliere, dove, con la fatica inumana, gli stenti sicuri, lo scarso cibo, al limite della sussistenza, era sempre in agguato la malaria. E con la malaria, non di rado, la morte. Un’indagine seria sul fenomeno, che con una buona dose di arbitrarietà linguistica potremmo dire della “transmetenza”, non è stata ancora tentata. Suppliscono in qualche modo i canti popolari, come quello registrato a Tavenna e a Bagnoli del Trigno: Li muorte de la Puglia e chi l’avante, / chella ze chiame la ruvina gente: / ze n’ha iute lu ninne mì gne nu giagante, / m’ha riturnate come nu pezzente.
4. Alla millenaria interconnessione tra Molise e Puglia ha contribuito anche la grotta garganica dell’apparizione dell’Arcangelo Michele, l’8 maggio del 492. Sono millecinquecento anni che milioni di pellegrini, non solo dal Molise, ma da ogni parte d’Italia e del mondo si riversano ai piedi di San Michele a Monte Sant’Angelo. Non va dimenticato che la grotta, assieme ai luoghi santi di Gerusalemme, le tombe di Pietro e Paolo a Roma, e il celebre santuario spagnolo di Santiago di Compostela, rappresentò nel medioevo il polo di attrazione di una fede che esprimeva nel pellegrino una figura tipica. Nel caso di Monte Sant’Angelo, dove non sono conservate vestigia del transito di Cristo né tombe di apostoli, la forza di attrazione derivava dal trinomio teologico, che tra Deus (Santo Sepolcro) e l’Homo (tombe degli apostoli) inseriva l’Angelus (San Michele). Il pellegrinaggio primaverile a San Michele ha costituito per secoli un appuntamento fondamentale delle nostre genti che almeno una volta nella loro vita si concedevano il lusso di “andare per santi”. Naturalmente a piedi, irreggimentati dietro al priore, uomini, donne e bambini, a volte in schieramenti di un migliaio di uomini, come nel caso di Boiano, la cui compagnia godeva del privilegio di essere accolta dallo scampanio festante delle campane di Monte Sant’Angelo. Il pellegrinaggio era comunque avversato dai galantuomini, per esempio i Trotta a Toro e gli Amorosa a Riccia, che accusavano i contadini di sperperare le ultime derrate alimentari dell’annata in una settimana di bagordi e gozzoviglie. In verità, temevano di perdere la forza lavoro a basso costo dei loro sottoposti, una volta che costoro avessero messo il naso fuori dall’orizzonte basso del mondo in cui avevano sempre vissuto, e aperti gli occhi sugli spazi sterminati lungo la rotta che dall’Incoronata di Foggia li avrebbe portati al Santuario di San Matteo a San Marco in Lamis e quindi alla meta principale di Monte Sant’Angelo, per poi raggiungere la basilica di San Nicola a Bari e infine il santuario della Madonna del Pozzo a Capurso, dove, fatta incetta delle tradizionali carrube, le vainelle in dialetto, da distribuire al rientro in paese, avrebbero preso la via del ritorno. Al riguardo, un ricordo personale. Primissimi Anni Sessanta, seconda o terza elementare. Il maestro invitò il più simpatico e minuto scolaro a raccontare del pellegrinaggio cui aveva appena preso parte… E il ragazzo, ribattezzato “sorgillo di cacio” dal maestro, non se lo fece ripetere due volte e, ancora euforico, manifestò il suo entusiasmo con un indimenticabile: – Signor maé, quante vainelle! Accolto da una risata generale. Era stata l’abbondanza delle carrube a Capurso a colpirlo più di ogni altra cosa. E il suo entusiasmo riuscì contagioso, tant’è che a distanza di oltre sessant’anni ne resta vivo il ricordo.
5. Un altro nodo secolare continua a legare le popolazioni molisane e le pugliesi, almeno quelle delle provincie storiche di Foggia e Bari, nel nome del pellegrino più santo e più illustre mai salito alla grotta dell’Arcangelo: San Francesco d’Assisi che fu sul Gargano tra fine anno 1221 e il luglio 1222. Incerti la data e l’itinerario seguito, certa invece la grande tradizione francescana sviluppatasi in territorio pugliese e molisano, grazie alla provincia monastica dei frati minori di Puglia e Molise, istituita direttamente da San Francesco, dalla quale poi si è scorporata quella dei cappuccini di Foggia, del Molise e del beneventano, poste entrambe sotto la custodia dell’Arcangelo, al quale i cappuccini hanno di recente affiancato Padre Pio. Le innumerevoli vocazioni francescane pugliesi e molisane maturate in otto secoli di fede e di devozione hanno animato i conventi sparsi nei territori delle due regioni che hanno beneficiato dell’alternarsi tra le arcate dei chiostri di sacerdoti e laici provenienti dalle diverse località in un intreccio inestricabili di usi e costumi e devozioni, travasati da una sede all’altra. Come nel caso del nostro volume sul culto della Madonna del Pozzo di Capurso presentato nel convento francescano di San Giovanni dei Gelsi a Campobasso. Con buoni precedenti. Il primo risale agli Anni Sessanta. Per impulso di qualche buon frate del convento locale, il Bollettino della Madonna del Pozzo arrivava in abbonamento a Toro, nella casa di un modesto operaio, dove non circolava molta carta stampata e perciò era tanto più bene accetto, specie da chi allora adolescente non aveva modo di appagare la sua inclinazione per la lettura. E oggi ricorda benissimo gli editoriali del direttore, padre Salvatore Angiuli, che faceva la spola tra Capurso e l’America, le liriche di Lino Angiuli, abbinate a fotografie artistiche, e gli scritti storici di padre Edoardo Novielli e di padre Amedeo Gravina. Il secondo esempio rimanda al 1987 e a padre Giantonino Tromba, musicista, poeta e autore di canti liturgici, oramai patrimonio della chiesa universale. Padre Giantonino, allora di stanza a San Giovanni dei Gelsi di Campobasso, promosse una serie di concerti, tenuti insieme alla Schola Cantorum di Toro: a Foggia, convento San Pasquale, a Bitetto, convento del Beato Giacomo, a Bari, Teatro Niccolò Piccinni, in occasione della manifestazione pubblica della Regione Puglia che in quei giorni si preparava a raggiungere Assisi in delegazione per il conferimento dell’olio che avrebbe alimentato la lampada sulla tomba di San Francesco. E infine, a chiusura del tour, dopo Bari, a Capurso, basilica della Madonna del Pozzo.
6. Ed è curioso rilevare come la devozione alla Madonna del Pozzo di Capurso trovi un’eco nella devozione alla Vergine della Fontana di Torremaggiore, alla quale padre Giantonino, che a Torremaggiore è stato rettore del Convento Sacro Cuore dal 1976 al 1985, ha dedicato un inno. E come entrambe le devozioni evochino la carenza idrica che da sempre ha afflitto la Puglia ma che da qualche tempo affligge l’Italia tutta, anche il Molise ricco d’acqua, che peraltro si è fatto carico e si fa ancora carico di alleviare per quanto possibile la sete delle popolazioni vicine.
7. Infine, un ulteriore legame tra Molise e Puglia non molto noto. Ancora negli Anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, maestranze pugliesi si portavano in Molise, almeno nella vallata del Fortore e del Tappino, a squadre di tre o quattro persone, attrezzate di tutto punto con seghe, accette, forbici, per potare gli ulivi dei contadini e dei possidenti del luogo, non sufficientemente esperti in questa pratica. Con tutto un corollario di dispute tra i “potaulivi di Capurso”, come correntemente erano identificati i potatori pugliesi, fautori di tagli radicali, e i proprietari molisani, che preferivano invece un trattamento meno invasivo, appellandosi entrambi alle esperienze concrete nei rispettivi climi. A Toro, c’è ancora chi da bambino fu colpito dalla morte di uno di loro, caduto dall’ulivo che stava potando, e chi li ricorda ospiti della locanda dei nonni, a scaldarsi a sera attorno al fuoco, e a rischiare di rompersi i denti con i ceci da cui siamo partiti. Ceci abbrustoliti, salati e bagnati con uno spruzzo di vino bianco, come da sempre in uso in paese, ma che i “potaulivi di Capurso” suggerirono di tenere in ammollo per ventiquattrore, perché raddoppiassero di volume e, una volta tostati, si presentassero croccanti fuori e morbidi dentro.
Ed è stato così che, trattati nel modo raccomandato, sono diventati anch’essi patrimonio della tradizione locale con il nome di “ceci alla potaulivi”, mentre a Capurso continuano a chiamarli “ceci alla cenere”, perché cotti nella cenere calda.
di Giovanni Mascia
27 Novembre 2024