• 12/02/2024

“Resta pur sempre un cane”

Riflessioni sullo specismo in paese

di Emidio Ranieri Tomeo (da nautilusrivista.it)

2 Dicembre 2024

 

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Se è vero che l’etologia ha fatto grandi passi in avanti nella comprensione del comportamento animale, è anche vero che queste conoscenze restano spesso circoscritte nella cerchia degli studiosi. In generale, nella relazione umano-animale permane un profondo “abisso di non-comprensione” (Berger 2016). Per tale ragione sin dai tempi più antichi gli esseri umani al fine di comunicare con gli animali hanno utilizzato fischi, espressioni verbali e, soprattutto, percosse (Bonanzinga 2005). Scavando nella mia memoria autobiografica, mi accorgo che il ricorso alla violenza nella relazione umano-animale, che è caratteristica ricorrente in tutta la cultura contadina (Troglodita Tribe 2023), resta tutt’oggi nei piccoli paesi eredi della tradizione agro-pastorale, un mezzo a cui poter ricorrere senza troppe remore. Le modalità di comunicazione utilizzate dai pastori, il tono autoritario e la violenza verbale sopravvivono ancora oggi in molti dei nostri comportamenti. “Resta pur sempre un cane” è un’espressione che potrei tranquillamente aver detto anche io negli anni addietro, o che forse ancora oggi alberga in remoti anfratti della mia mente. Da questa tradizione culturale normalizzata a cui appartengo, dai suoi modi disdicevoli e dai suoi falsi miti, continuo a rifuggire.

“Gli faccio la pelle”. Di orti, morti ed erronei rapporti
È di non molto tempo fa la notizia atroce di un’impiccagione di un cane da caccia, un Setter, nel territorio di Valle Porcina, a Colli a Volturno (IS). Le ragioni di un tale gesto disumano resteranno per sempre ignote, così come l’identità dell’omicida. Trascorsi i primi momenti di indignazione e sdegno, l’episodio è già stato dimenticato. Non ha suscitato neppure grande scalpore: solo due giornali ne hanno parlato. In una cultura in cui la violenza sugli animali è ancora ampiamente tollerata, non può esserci vero scandalo.
I contadini da sempre difendono il proprio orto uccidendo gli animali selvatici “invasori”. Da sempre la risposta alle incursioni di faine, volpi, cinghiali, talpe ed altri animali selvatici è, quando possibile, la loro eliminazione. La violenza è manifestazione caratteristica dell’antropocentrismo, ci dice il filosofo Leonardo Caffo (2017). “La prossima volta gli faccio la pelle”, che dalle mie parti vale a dire “lo ammazzo”, è una frase che avrò sentito una miriade di volte, da diverse persone in riferimento a vari animali, in vari contesti. Sebbene la sfida umano-animale possa diventare estenuante, uccidere non può più essere considerata una soluzione accettabile, ma è necessario ragionare su nuove soluzioni di risoluzione dei conflitti interspecifici. Essere contadini e pastori oggi implica il recupero e la rottura con una tradizione secolare. Faccio mie le parole dell’antropologa Anna Rizzo, quando scrive che non basta più dire che «è sempre stato così», che «nelle aree interne vuol dire arrangiati, della tua sensibilità da cittadina non ce ne frega nulla, e questo è lo scalpo da consegnare per stare con noi» (Rizzo 2022: 98).

Incomunicabilità animale e proiezioni umane
Se da un lato vi è il ricorso alla violenza come approssimazione di un metodo comunicativo, dall’altro emerge la tendenza propriamente umana a ricorrere a pratiche di antropomorfizzazione. Il filosofo francese Jean Grenier scriveva nel 1957 che lui e la sua compagna decisero di adottare uno dei cani randagi che li seguivano per le strade di Sisteron “perché il suo sguardo era simile a quello delle statue e degli uomini e una cicatrice in mezzo agli occhi indicava la ferita che gli aveva procurato una pietra scagliata da alcuni monelli” (Grenier 2011: 26). È dunque una proiezione umana sull’animale che traccia il primo passo verso la dimensione dell’empatia, della comprensione dell’altro. Il filosofo Emanuele Coccia afferma infatti che:

la scoperta che una parte della nostra vita è identica a quella dei non-umani ci permette di riconoscere in questi ultimi dei tratti di umanità; viceversa, ogni volta che attribuiamo una caratteristica umana a una pianta o a un animale, riconosciamo che in noi c’è qualcosa che non possiede una natura prettamente umana (Coccia 2022: 174).

Nei casi più estremi, però, un eccesso di “amore” riduce un animale domestico alla stregua di un “tenero peluche infantilizzato” su cui gli umani proiettano se stessi, i propri gusti e le proprie mode (Haraway 2003). Antropomorfizzare, dunque, ma senza ridurre l’animale a feticcio, specchio della propria vanità e frivolezza (Coccia, ibid.). Oltre all’empatia, sarebbe auspicabile che chiunque intrattenga una relazione interspecifica con un cane apprenda anche le più recenti acquisizioni in ambito etologico. Un esempio ci è fornito dalla ricerca pluridecennale della dog trainer norvegese Turis Rugaas sui calming signals (vocabolo coniato da lei stessa). Segnali, per l’appunto, che i cani usano “per calmare se stessi quando si sentono stressati o a disagio sia per indurre l’altro a sentirsi più sicuro e a capire la buona volontà che questi segnali esprimono” (Rugaas 2017: 23), e che a loro volta ogni persona può utilizzare per comunicare con loro. 
Nel riosservare più volte la riproduzione di una meravigliosa foto di Elliott Erwitt che ho esposta nel mio salotto, mi accorgo che il processo di antropomorfizzazione su cui sto riflettendo conserva delle ambivalenze che sembrano coesistere proprio in quest’immagine: a destra un cagnolino di razza pincher guarda l’obiettivo, imbacuccato con un cappello e un maglione fatto su misura, riflettendo il gusto consumistico stiloso della donna che lo tiene al guinzaglio. Al centro, degli alti stivali coprono le gambe della padrona, sulle quali si scorge appena un cappotto signorile. A sinistra, invece, due lunghe zampe anteriori di alano si slanciano verso l’alto, parallelamente alle gambe umane, alle quali somigliano per posa, forma e dimensioni. La straordinaria abilità di Erwitt risiede proprio nel favorire questo gioco di risonanze e riflessi tra le zampe del cane e le gambe della donna, ponendo il cane e l’umano su un piano di uguaglianza, consonanze interspecifiche e affinità vitali. Non solo, ma anche “la nostra sorte è comune”, come scrive ancora Jean Grenier: 

È per questo che non ho vergogna a parlare di un cane. Forse anche tu morirai per un cancro al fegato. Si faranno più cerimonie attorno al tuo male, più soldi saranno spesi da una parte e guadagnati dall’altra, forse si consumerà un po’ più di tempo, certamente molte più parole; e il tuo cadavere sarà chiuso in una bella scatola con i suoi begli abiti, invece di essere avvolto in una vecchia coperta e non indossare che un collare (ivi: 40).

“Il cane di paese”. Adozioni, acquisti, abbandoni
Tra le immagini desolanti della realtà dei nostri paesi meridionali, accanto alle rovine, le case sfitte e abbandonate, ridotte a ruderi, c’è sicuramente l’immagine di un cane solitario, smunto e sfiancato, spesso, come scrive Rizzo (2022: 97), “con ferite rimarginate male o in putrefazione”, che si trascina lento per le vie del paese, “senza microchip e senza vaccini, senza cure e senza antiparassitari, fuori controllo rispetto alle norme sanitarie”.
“Il cane di paese”, per l’appunto, è l’espressione emblematica che ha coniato spontaneamente la mia compagna, nel tentare di descrivere un fenomeno che ricorda di aver visto solamente nel Meridione. Effettivamente, la sua osservazione trova conferma nei dati statistici, che dimostrano come il randagismo sia un problema soprattutto delle regioni meridionali, accompagnato da un alto numero di ingressi nei canili e un basso numero di adozioni, per non parlare della forte carenza di campagne di sterilizzazioni e microchippatura dei cani. Il fenomeno del randagismo rappresenta l’altra faccia della medaglia di quella stessa violenza di cui si è parlato in precedenza. La pandemia da Covid-19 ha giocato un ruolo fondamentale nell’incremento delle adozioni, facendo aumentare vertiginosamente il numero di cani e gatti accolti nelle case, per motivi diversi: dalla ricerca di compagnia e benessere personale (Rapporto Assalco-Zoomark 2023) fino agli scopi puramente utilitaristici di alcuni individui, desiderosi di aggirare le restrizioni imposte dal lockdown.
Lo stesso Rapporto dimostra inoltre un incremento nella diffusione dei cani di razza. Il giudizio antropocentrico, infatti, applica una scala di valori non solo interspecifica, ma anche intraspecie, dando luogo a una sorta di “effetto glamour” (per dirla con Adorno) della merce animale. I cani di razza vengono acquistati più frequentemente, sulla base delle mode del momento, ma anche per l’attribuzione di particolari valori estetici o per caratteristiche comportamentali specifiche. In questo contesto, l’animale da compagnia, il pet, acquista una connotazione di oggetto di consumo, enfatizzato da un processo di estetizzazione – una sorta di “consumo vistoso”, come lo definirebbe il sociologo Veblen.

Nonostante la crescente sensibilità verso il mondo animale rappresenti un segnale di cambiamento, persiste ancora, specialmente nei contesti rurali, l’abitudine alla violenza nei confronti degli animali. La sfida odierna consiste nel liberarsi di quell’“atmosfera cognitiva” che è l’antropocentrismo (Caffo 2017), smettendo di applicare, ad libitum, diversi trattamenti morali alle altre specie viventi. Rompere il legame con certe tradizioni contadine di matrice specista e rifiutare comportamenti violenti verso tutti gli animali non umani sarebbe già un buon inizio.

di Emidio Ranieri Tomeo (da nautilusrivista.it)

2 Dicembre 2024

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