Riaprire le scuole chiuse
La scuola è un riferimento sociale di rilevante significato identitario e di orientamento spaziale, al pari della chiesa, del municipio, del cimitero, nei borghi rurali e nei villaggi di montagna di cui è costellata l’Italia, in tanti paesi del Molise e di altre regioni.
di Rossano Pazzagli (da la fonte ott 2020)
6 ottobre 2020
Di fronte alle difficoltà, alle incertezze, alle regole spesso cervellotiche che hanno accompagnato la complessa vicenda della riapertura delle scuole, io riaprirei le scuole dei paesi; quelle chiuse da anni, abbandonate, dimenticate, inutilizzate, vendute o svendute. La scuola è lo specchio della comunità, il principale strumento culturale della sua riproduzione, l’ambito educativo e formativo delle relazioni e dei valori che connettono la dimensione locale con il mondo. La scuola è anche il luogo fisico, l’edificio, il simbolo materiale della vita che passa da una generazione all’altra, un riferimento sociale di rilevante significato identitario e di orientamento spaziale, al pari della chiesa, del municipio, del cimitero. È così soprattutto nei borghi rurali e nei villaggi di montagna di cui è costellata l’Italia, in tanti paesi del Molise e di altre regioni.
Per molte località delle aree interne italiane la chiusura della scuola, conseguente allo spopolamento e alla marginalizzazione di cui è stata vittima gran parte del territorio nazionale, ha significato la perdita di futuro, accentuando le disuguaglianze tra le zone forti e le zone deboli, la città e la campagna, la pianura e la montagna, i ricchi e i poveri. È stata una deriva di lungo periodo, un fenomeno che ha preso campo soprattutto dagli anni ’70 in poi. L’affermarsi di una visione polarizzante in un paese fortemente policentrico come l’Italia è stato un errore che pagheremo a lungo.
Quand’ero bambino c’erano scuole perfino nelle campagne, e in un piccolo comune come quello dove sono cresciuto, nella Toscana rurale degli anni ’60 c’erano cinque o sei plessi scolastici sparsi nel territorio comunale. Io ho fatto le prime classi delle elementari nella casa di un contadino, presso cui l’amministrazione scolastica aveva affittato una stanza dotandola di cattedra, banchi e lavagna, frequentata da una decina di alunni dai 6 ai 10 anni provenienti dai poderi intorno, qualcuno distante anche qualche chilometro. Era una pluriclasse, con una maestra generalmente molto giovane e alle prime armi. Si chiamavano scuole sussidiarie e forse il mio era un caso estremo, trovandosi la “scuolina” in aperta campagna. Ma in tutta Italia c’erano scuole simili nei piccoli paesi, nei piccoli borghi e perfino nelle frazioni distanti dal capoluogo comunale. La necessità di assicurare il diritto/dovere all’istruzione, sancito dalla ancora giovane Costituzione, si esplicava attraverso servizi scolastici che cercavano di avvicinarsi il più possibile all’utenza e ai territori.
Sarebbe una storia da fare e da ripensare, non per tornare alla scuola dei nonni, ma per raccogliere l’importanza di un legame ravvicinato tra scuola e territorio, tra educazione/istruzione e contesti d vita, poiché oggi ci troviamo in una situazione di crescente decontestalizzazione dell’azione formativa, in una sorta di deterritorializzazione della scuola. Si tratta di un aspetto negativo delle tendenze globalizzanti ed omologanti del nostro tempo, di un danno che ora rischia di diventare ancora più grave nell’era del Covid.
Dai primi di marzo del 2020 la scuola è stata chiusa in tutta Italia a causa dell’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus. Una chiusura esagerata, non ponderata, perfino discriminatoria se pensiamo che quasi tutto dopo maggio ha riaperto, dalle fabbriche ai supermercati, dagli uffici ai luoghi di svago. È la cifra di un Paese, la misura dell’importanza che si riconosce alla scuola, una sottovalutazione alla quale non dobbiamo rassegnarci. Ora, dalla metà di settembre, la scuola ha riaperto tra mille incertezze e regole rigide che non si riscontrano in altri ambiti. Ma non ha riaperto in tutti quei luoghi dove è stata chiusa per anni a causa di una malattia altrettanto grave, endemica se non contagiosa: quella dello spopolamento e dell’abbandono. Sarebbe bello, di fronte alla pandemia che ha colpito questo mondo veloce e sviluppato, riaprire le scuole nei paesi, anche laddove ci sono rimasti pochi bambini. Sarebbe un modo per farli tornare, per ridare fiducia per spingere tante famiglie a riabitare l’Italia interna, laddove c’è spazio, dove si va più lenti per andare più lontano. Non una scuola di seconda o terza serie, ma una scuola sperimentale e innovativa, investendo sulla continuità educativa, sulle pluriclassi, sull’educazione e l’istruzione tematica, sui servizi per l’accesso come il trasporto scolastico, che significherebbe anche una nuova cura del territorio, delle strade, della mobilità nelle campagne e nei mille e mille paesi d’Italia. Riaprire la scuola nei paesi vorrebbe dire riaprirla in libertà, accettare una sfida, con dirigenti e docenti in grado di impegnarsi come educatori e formatori al di fuori di logiche burocratiche. Ora anche nella complicata riapertura delle scuole ha prevalso generalmente la cultura dell’adempimento anziché quella della responsabilità educativa. Penso soprattutto ai più piccoli, per i quali si è allestita una scuola che allena all’isolamento, al distanziamento, al disciplinamento sociale dei bambini, che andando avanti di questo passo somiglieranno più a soldatini che a cittadini liberi. La scuola delle mascherine rischia di essere ridotta a semplice luogo di apprendimento, mentre l’azione educativa ha bisogno di socialità, di condivisione, di reciprocità, di esplorazione, di comunità. Tutte cose maggiormente possibili nelle piccole scuole di paese. Riaprirle costerebbe meno dei banchi a rotelle, dei segni per terra, delle mascherine per tutti, delle aule speciali e delle doppie uscite. E non sarebbe una spesa per l’oggi, ma un investimento per il futuro, un grande progetto politico contro le disuguaglianze sociali e territoriali.
di Rossano Pazzagli (da la fonte ott 2020)