• 06/15/2022

Ricordo della transumanza

La transumanza è terminata, subito dopo l’ultimo conflitto, con lo sviluppo della civiltà industriale e il declino della civiltà agropastorale. Qui il racconto di uno che ha avuto il privilegio di compierla 

di Domenico D’Andrea

15 giugno 2022

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La transumanza delle greggi è ormai solo un ricordo: è terminata, subito dopo l’ultimo conflitto, con lo sviluppo della civiltà industriale e il declino della civiltà agropastorale.
Ho avuto il raro privilegio di compierla insieme con i pastori in circostanze eccezionali. 
Di quel remoto viaggio attraverso il tratturo, fatto nella lontana primavera del 1944, mi sono rimaste poche schegge di ricordi e tanta nostalgia. C’era ancora la guerra. Sui nostri monti il fronte, dopo la stasi invernale, finalmente si era mosso e le forze alleate avevano oltrepassato la linea del Sangro, spingendosi a Nord. Tutti i paesi al di qua e al di là della linea, o, meglio, ciò che di essi restava dopo la distruzione, era stato evacuato dai contendenti. Le greggi così potevano lasciare il Tavoliere di Puglia e tornare in montagna. Ai primi di giugno io, che ero alle armi, ebbi una licenza e da Lecce, ove allora mi trovavo, mi misi in viaggio per far ritorno al mio paese, Capracotta. Giunsi con mezzi di fortuna a San Severo, ove m’imbattei in alcuni miei compaesani, sfollati a seguito delle operazioni belliche. Da essi appresi, con indicibile commozione, la terribile vicenda della distruzione del paese e l’angosciosa odissea della popolazione rimasta senza un tetto, costretta ad evacuare. Seppi da loro che la mattina seguente sarebbero partiti da Lucera i nostri pastori per la transumanza di ritorno. Mi dissero che avrei fatto bene ad unirmi a loro per tornare a casa, stante la estrema precarietà delle comunicazioni viarie e la mancanza assoluta di mezzi di trasporto. La mattina dopo raggiunsi Lucera e mi unii ai pastori per intraprendere con loro il lungo viaggio attraverso il tratturo. 

Le greggi appartenevano a due proprietari: erano state unite per affrontare meglio il difficile viaggio di ritorno in quella disastrosa primavera di guerra. La conduzione della transumanza era nelle mani dei massari, che avevano autorità su tutti e su tutto. I pastori, i butteri, i cacieri dipendevano ovviamente da loro, ma nessuno faceva pesare sugli altri la propria autorità. Il lavoro veniva svolto nel segno dell’affiatamento e della cooperazione più stretti ed efficienti: era questo l’aspetto che più colpiva della complessa attività della transumanza, a cui erano interessate due greggi, come detto, per circa seimila capi complessivi. Levammo le tende e iniziammo il viaggio lungo il tratturo, che correva ampio, aperto, a tratti sinuoso, come un grande fiume verde, in mezzo alla vasta ed assolata pianura pugliese. Era, se ricordo bene, l’11 giugno del ’44. Le greggi con i pastori e i cani procedevano distaccate, per conto loro, seguendo antichi ritmi di riposo e di pastura. Noi altri, che facevamo parte, per così dire, della sussistenza, andavamo con i muli e le giumente, carichi di provviste e di tutta la grossa attrezzatura della pastorizia in fase di transumanza. Dopo il fresco gradevole delle prime ore mattutine, sopravvenne, quasi all’improvviso, la canicola, densa e afosa, del Tavoliere. Il tratturo si snodava fra campi di grano già mietuti, gialli di stoppie, e rade boscaglie. Eravamo finalmente in vista dei monti della Daunia. Il terreno cominciò a farsi ondulato e l’aria più chiara. Il capo massaro, che procedeva in testa alla carovana, cavalcando, solo fra tutti noi appiedati, la giumenta baia, ordinò di fare sosta per la colazione. Ci sistemammo all’ombra di una quercia. Furono tratte fuori le provviste. Un giovane massaro affettò il pane (c’era nei sacchi pane per tutto il percorso, cotto nei forni di Lucera, di lunga conservazione); il capo carovana affettò il formaggio, fresco, fragrante, con poco sale, formaggio che strideva lievemente sotto i denti per una punta di gommosità, tenue e gradevole, della pasta, e, come se celebrasse un rito, lo distribuì così affettato, insieme col pane, a tutta la comitiva, cominciando dai più anziani. Il capo massaro faceva venire in mente un antico personaggio biblico nell’esercizio delle sue funzioni domestiche. A giusti intervalli, e sempre quando il capo riteneva giunto il momento, girava in tondo fra i commensali, il barilotto del vino, vino di Lucera, con la cannella applicata all’apertura per chi volesse bere a garganella. Uno spettacolo vedere i butteri, che bevevano tutti così, mentre dal barilotto sollevato facevano scendere direttamente nella gola il forte liquido. Ci rimettemmo in viaggio. Il tratturo, con ampie volute, si inerpicava dolcemente su per le pendici delle alture. Ci lasciammo sulla destra, arroccata su un poggio, Castelnuovo della Daunia, e ci fermammo per l’addiaccio all’imbocco di uno spazioso avvallamento. Il sole declinava in uno sfarzo di luce calda, rosso-dorata, dietro una catena di monti lontani degradanti dolcemente. Lo spettacolo era radicalmente mutato: invece della piatta ed uniforme pianura pugliese, un paesaggio collinoso, dalle linee distese e pacate. Il tappeto erboso del tratturo aveva assunto toni più verdi e più freschi. Innumerevoli tracce di vecchi sentieri lo percorrevano in tutte le direzioni, fra cespugli e rovi. Coi suoi larghi margini, il tratturo lambiva la campagna punteggiata di vecchi casolari, dove faceva spicco il verde degli olivi fra il giallo bruno del frumento ormai maturo e pronto per la mietitura. Furono scaricate le vetture e cominciò il lavoro di apprestamento del bivacco. Tutti indaffarati, anche noi aggiunti (si erano uniti alla carovana alcuni compaesani che, come me, intendevano raggiungere il paese), per quel poco di manovalanza che potevamo dare. Infissi i pali nel terreno per delimitare gli stazzi, fu fatta subito la recinzione con robuste reti di canapa. Furono approntati i focolari per la cottura delle vivande e la lavorazione del latte. Fu data sistemazione a tutto il materiale. Prima del crepuscolo arrivarono i pastori con le greggi. Le pecore furono avviate agli stazzi. È l’ora della mungitura. Attraverso appositi varchi aperti negli ovili le pecore vengono spinte nei mungitoi. Qui pervenute, i pastori addetti alla mungitura, coi guardamacchia addosso e le strangunère allacciate alle gambe (indumenti di pelle di pecora: i primi per coprirsi il busto; i secondi, le gambe), seduti sugli sgabelli, calano sul collo delle pecore una forcella di legno, legata con uno spago ad un paletto, per tenerle ferme, e con gesti rapidi e misurati, le mungono, facendo sprizzare il latte nei secchi posti a terra.

Dopo la mungitura, le pecore vengono risospinte negli stazzi, dalla parte opposta a quella dei mungitoi.
Comincia il lavoro dei cacieri, i pastori esperti nella lavorazione del latte. Versano il latte nei grandi caldai, i caccavi, pronti all’uso sulle pietre dei focolari. Al tempo giusto mettono il caglio. Lentamente comincia la coagulazione. I cacieri scremano, quando è ora, la tenera ricotta e il cagliato, un delicato latticinio semiliquido, non ancora formaggio; poi, quando il latte è ben rappreso, estraggono a mano la pasta per il formaggio da consumare fresco e per quello da salare per la stagionatura, e la depongono nelle formelle di vimini. I cani, intorno, ansano bramosi in attesa del dolce siero. Quella prima sera di bivacco il pasto serale consistette in grosse fette di pane “cotto” nell’acqua salata, condita con olio e aromatizzata con prezzemolo ed altre erbe. Chi voleva, cospargeva le fette di formaggio pecorino grattugiato. Per companatico, formaggio e ricotta, freschi o salati, a scelta. La fiasca del vino indugiava più del necessario presso i commensali prima di compiere un giro completo. I pastori, i massari e i butteri, mentre si mangiava, parlavano gravi, come era loro abitudine, calcando le parole: raccontavano vecchie vicende di pastorizia, ma si capiva che lo facevano non tanto e non solo per l’antico gusto fabulatorio della gente contadina e pastora, quanto per distogliere il pensiero dal tema della guerra e delle sue funeste conseguenze, che su tutti pesava così duramente. Poi ognuno pensò a prepararsi un giaciglio per la notte. 

Ciascuno stese a terra, in un punto più soffice, un telo di canapa, e vi posò sopra una coperta militare o un vecchio cappotto; per guanciale, un basto rovesciato, coperto con una pezza di tela o un asciugamano. Dormire all’addiaccio, sotto la cappa incombente del cielo trapunto di stelle, nella vastità silenziosa della campagna addormentata, incuteva un inesprimibile senso di soggezione e di stupore: per i misteri profondi che la natura pareva racchiudere nel suo seno. Il mattino seguente, partite le greggi e ricaricato il materiale sui muli e le giumente, c’incamminammo diretti alla seconda tappa, sita a monte della valle del Fortore. La carovana andava silenziosa per il tratturo, che procedeva più aspro e irregolare, a saliscendi. Se ne scorgevano lunghi tratti profilarsi in lontananza, come grandi pennellate verdi in mezzo alla campagna coltivata, dai colori variegati. Nella lontananza sfumata scorgemmo, dietro serie di alture e di avvallamenti, la meta da raggiungere. Sbigottivi a considerare quanta strada dovevi ancora percorrere a piedi prima del bivacco! Sostammo, come al solito, per la colazione, col cerimoniale d’uso. Riprendemmo il cammino mentre il sole picchiava forte. Incrociammo le greggi giù al Fortore, un fiume a carattere torrentizio, che d’estate era pressoché all’asciutto, ma che allora portava parecchia acqua. I ponti erano saltati, motivo per cui lo si passava a guado, seguendo, per l’appoggio, una traccia di grossi sassi che andava da una sponda all’altra. I pastori, i massari e i butteri si sfiancarono ad aiutare le pecore, specie le più deboli, a passare il fiume; gli agnelli venivano portati a braccio sull’altra riva. Un belare continuo, lamentoso si effondeva nella valle. Una faticaccia per tutti. Parecchie pecore si azzopparono. Proseguimmo, staccandoci nuovamente dai pastori. Il tratturo risaliva dolcemente i rilievi della valle, che si accentuavano a grado a grado. Sul tardo pomeriggio, col sole ancora alto, ci fermammo per il bivacco a Santa Croce di Magliano.

Avevamo appena finito di alzare gli stazzi, quando le greggi comparvero sulle alture. Scesero lentamente, tra l’abbaio dei cani che avevano fiutato l’aria del pasto e del riposo. Non passava giorno senza che si azzoppasse qualche pecora, giù per i valloni scoscesi e al passaggio dei fiumi. C’era dunque sempre carne disponibile. A cominciare da questa sera, il pasto serale sarà costituito dalla pezzata, la pietanza più caratteristica e più squisita dei pastori, a base di carne di pecora. La pecora viene depezzata, da ciò il nome di “pezzata”, e messa a cuocere in un enorme pentolone. La carne si cuoce a fuoco lento, nel proprio brodo, perché il caldaio viene chiuso con un coperchio a tenuta, in modo che l’evaporazione venga, per così dire, riciclata e nulla dei sapori vada disperso. La cottura richiede tempi lunghi, una giusta salatura, aggiunta di speciali erbe aromatiche, note forse solo ai pastori ma la pietanza che ne vien fuori è di una squisitezza eccezionale, meritatamente famosa. Al momento del pranzo, o cena se così si vuole chiamare, appena l’imbrunire, facemmo cerchio intorno al focolare, sul quale troneggiava il caccavo della pezzata, seduti per terra o su un basto, ciascuno con una grossa scodella di legno, con le posate dentro, pure di legno, sulle ginocchia. Furono distribuite grosse fette di pane; il capomassaro prese il mestolo, lo affondò nel caldaio, rimestò per amalgamare bene tutto; e cominciò a distribuire mestolate di pezzata: due mestoli colmi in ogni scodella, il che voleva dire un buon mezzo chilo di grossi tocchi di carne con brodo per tutti; se volevi, intingevi il pane nel brodo. Un pasto sostanzioso, abbondante, saporito come pochi altri. Il barilotto ora, a compiere un giro completo, sì che metteva tempo. Sorse il terzo giorno della transumanza. Un altro splendido mattino: l’aria della valle, leggera e fresca riempiva i polmoni. Si doveva far tappa a Ripabottoni. C’incamminammo nella purezza delle ore mattutine.

Nella campagna, dalle linee sempre più ondulate e distese, dai toni caldi e dorati, fervevano i lavori della mietitura. La guerra non sembrava che avesse inciso molto sulle tradizionali attività della gente contadina. Ad un tratto, superato un dosso, scorgemmo la statale per Termoli ingombra da un’autocolonna militare alleata. La strada tagliava il tratturo. Le greggi attendono che la strada si liberi per passare; altrettanto facciamo noi addetti ai servizi. La colonna, che sembra non debba mai finire, procede rombando. Ad un tratto due uomini della polizia militare, col casco bianco, scendono da una camionetta, si piantano in mezzo alla strada e arrestano momentaneamente la coda dell’autocolonna, di cui non si scorgeva la fine. Ma ci fanno segno di affrettarci. I pastori e i cani incitano le pecore.
Proseguiamo. Ripa alle viste! Si scorge il borgo, con le case brune, tutte con i tetti rossi, dietro un poggio, di cui il tratturo lambisce le pendici. Ci accampiamo sul declivio. Si alzano gli stazzi, si preparano i focolari, si fanno tutti gli altri lavori inerenti al bivacco. I pastori mungono le pecore. I cacieri, come tutte le sere, lavorano il latte nei grandi caccavi e fanno la ricotta e il formaggio. I cani lappano con avidità il siero fresco. Accorrono dal paese donne e bambini per farsi dare dai pastori un po’ di ricotta in cambio di qualche uovo o di un po’ di tabacco. I bambini portano con sé la scodella per una zuppa di latte. I pastori accontentano tutti: non rimandano nessuno a bocca asciutta. Coi bambini, poi, sono di manica assai larga: riempiono le loro scodelle fino all’orlo, scherzando con tutti. O vecchi pastori e massari del mio paese! Vecchi butteri! Quanta simpatia ispiravate nelle genti di Puglia e del Molise, lungo le vie della transumanza, con la vostra schietta semplicità, con la vostra generosità! Vi siamo ancora oggi grati per aver così tanto onorato il vostro paese! Si deve anche a voi se la nostra gente è ovunque nota per le sue tradizioni di ospitalità e di umanità, e dunque di civiltà.
Dopo la tappa di Ripabottoni, il tratturo deviò verso nord-est, ma ora c’è un vuoto nella mia memoria: non ricordo con esattezza dove facemmo sosta per l’addiaccio al termine della giornata, forse a Civitacampomarano, forse a Trivento, forse altrove. Se lo chiedessi a qualche vecchio pastore, ancora in vita, me lo saprebbe certamente dire perché le stazioni di riposo erano sempre quelle, da tempo immemorabile. Quel giorno attraversammo il Biferno su un ponte, non ricordo dove: non era fiume da passare a guado, quello. E tuttavia qualcuno ci si prova, ma l’acqua gli arriva alla cintola ed è costretto a desistere. La tappa seguente è Salcito, nella valle del Trigno. Mentre ci avviciniamo, vediamo profilarsi all’orizzonte, lontani, sfumati, i monti dell’Alto Molise, i nostri monti. Si distinguono Monte Campo e il Capraro.
La visione risveglia in noi sentimenti nostalgici di affetto e di trepidazione anche, per l’incertezza in cui si vive: sentimenti che parevano sopiti nelle cure della transumanza. Attraversiamo il Trigno, guadandolo. Il tratturo comincia ad inerpicarsi su per i monti. Ecco il Verrino, l’affluente del Trigno, che scaturisce dalle propaggini di Monte Capraro. Ci accampiamo per l’ultima notte nella campagna sotto a Pietrabbondante. La sera era fresca. Il cielo, dopo tante giornate limpide e calde, cominciava ad offuscarsi. Da occidente il vento sospingeva grossi nuvoloni bigi, sospetti. Ci preparammo il giaciglio all’addiaccio e ci addormentammo. Nel sonno si sentiva, cupo, rotolante, il fragore del tuono. Improvvisamente ci si rovesciò addosso un violento scroscio di pioggia, che ci svegliò di soprassalto. Balzammo in piedi e corremmo verso un casolare, ai bordi del tratturo, e ci mettemmo al riparo. Cessò la pioggia e tornammo all’addiaccio, ma il sonno non venne più. Aggiornò: un cielo incerto, schiarite che si alternavano a bruschi riannuvolamenti. Ma è tempo di andare. Noi “clandestini” ci congediamo dai pastori, dai massari e dai butteri e li ringraziamo della loro generosa ospitalità.
Non li dimenticheremo: non li ho dimenticati neppure dopo quarant’anni. Proseguono le greggi per il tratturo verso il ponte di San Mauro sul Trigno. In quel punto lo abbandoneranno e proseguiranno lungo la rotabile per la stazione finale della transumanza, i pascoli di Monte Capraro, a due passi dal nostro paese. Noi deviamo per Pietrabbondante, poi ci mettiamo sulla provinciale e proseguiamo. Superati i Tre Termini e Staffoli, prendiamo la strada che sale, fra i boschi, verso Capracotta. Che aria fresca! Che trasparenza! Si sente, acuto, l’odore delle erbe e dei fiori bagnati dall’acquata recente. Come è lontano il tavoliere con le sue caligini! Procediamo, ciascuno assorto nei propri pensieri: e sono pensieri di grande trepidazione.
Ci attendono la visione del paese distrutto e tante notizie tutt’altro che liete. È durato una settimana il viaggio con i pastori per il tratturo “antico” della transumanza, dal Tavoliere di Puglia alle fresche pasture dei monti dell’Alto Molise, sulla valle del Sangro

di Domenico D’Andrea (da Sul filo della memoria, a cura di V. Di Nardo, D’Andrea, Lainate 2016)

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